venerdì 30 dicembre 2011
Ragione da vendere!
(Franca Valeri a Mario Calabresi in Cosa tiene accese le stelle, Mondadori 2011)
mercoledì 28 dicembre 2011
Semifreddo decisamente natalizio
250 g di torrone friabile alle mandorle;
400 ml di panna fresca;
1 confezione di savoiardi morbidi;
1 moka da 4 di caffè.
Armatevi di pazienza e spezzettate finemente il torrone. Se riuscite a farlo a mano, vi ritroverete bricioline del suddetto appiccicate ovunque, ma il semifreddo sarà più croccante. Altrimenti andate di frullatore.
Fate il caffè, poi versatelo in un piatto fondo. Montate la panna a neve, mescolate panna e torrone, finché non avrete una crema piuttosto omogenea. Foderate uno stampo con i savoiardi morbidi tagliati a metà e intinti velocemente nel caffè e ricoprite con la crema al torrone. Mettete in frigo un'oretta prima di servire.
Varianti: se vi è avanzato del torrone ricoperto di cioccolato... la faccenda si fa molto più interessante. In mancanza, si può sopperire aggiungendo alla crema scagliette di cioccolato fondente.
Se vi è avanzato anche del pandoro, tagliato a pezzetti può sostituire egregiamente e assai più golosamente, la base di savoiardi. Se volete un effetto "pseudotiramisù", spolverizzate la superficie del dolce con cacao in polvere. Se volete farvi del male, invece, decoratelo con sottilissimi fili di crema al cacao (va bene anche la Nutella!).
Saluti zuccherosi...
giovedì 22 dicembre 2011
Un augurio, anzi un motto, praticamente una speranza...
Profundius,
Suavius"
(Alex Langer)
Ero assolutamente convinta d'averla già citata anche in questo blog questa frase che amo molto. Ho dato un'occhiata e non l'ho trovata (se ho cercato male e c'era, mi scuso per la ripetizione). Così ho deciso di usarla per accompagnare gli auguri di quest'anno.
E' l'esatto contrario del motto coniato da De Coubertin per le Olimpiadi ("Citius, Altius, Fortius").
E' la speranza di un mondo meno veloce, meno competitivo, più gentile e, dunque, più vivibile per tutti.
A me piacerebbe. E a voi?
Buon Natale!
PS. Benvenuto T., pulcino caro, figlio di Chiara e Filippo. Ho saputo che sei venuto al mondo proprio mentre scrivevo questo post: più Natale di così...
mercoledì 14 dicembre 2011
La cripta senza cappuccini e altre storie romane
Ci siamo infilate in tutte le chiese di Trastevere, che è, per tentare un paragone parmigiano, un Oltretorrente più grande e più bello, ma altrettanto popolare e colorato. In Santa Maria dell'Orto (che ha una storia simile all'omonima chiesa veneziana), abbiamo incontrato un custode logorroico, che ci ha raccontato tutta la sua vita; mentre un altro, in S. Maria in Trastevere, prima ci si è rivolto in inglese, poi, quando ha scoperto che eravamo italiane, ci ha fatto aprire da un collega l'anticamera della canonica dove son conservati resti di micromosaici romani con uccelli e pescatori: opus vermiculatum si chiama, me lo ricordo ancora. Ho scoperto, invece, di aver buttato al vento sia l'esame di epigrafia latina sia il diploma d'archivistica, perché non sono più in grado di decifrare né lapidi né documenti, come ho dovuto constatare con rammarico alla mostra di disegni e carte di Leonardo e Michelangelo ai Musei Capitolini. L'abbiamo visitata alla sera e quando siamo uscite ci hanno chiuso il portone alle spalle. Anche dalla splendida mostra di Filippino Lippi e Botticelli alle Scuderie del Quirinale ci hanno praticamente cacciato, noi e una manciata di persone che avevano optato per l'apertura notturna del sabato. Prima abbiamo cenato alla caffetteria delle Scuderie, col personale che aveva voglia di andarsene a casa e di rifilarci quel poco che era avanzato; ma dalla finestra vedevamo tutta la piazza, i Dioscuri e la luna piena sopra i palazzi e, per una volta, abbiamo deciso di prendercela comoda.
Mi è servita anche la cioccolata, per sopravvivere alla mia seconda volta (e spero non l'ultima) ai Musei Vaticani: dalle 9.30 alle 14.30 senza riuscire a vedere tutto. Non so voi, ma a me fa parecchia impressione, nelle stanze dedicate alla scultura romana, trovarmi davanti tutte quelle facce di uomini, donne, bambini vissuti millenni fa e così straordinariamente familiari. Si potrebbe mettersi a giocare alle somiglianze e scovare tra i marmi vicini di casa, amici e parenti.
Mi sono servite anche le pastiglie per il mal di gola, quasi inevitabile compagno di viaggio, soprattutto a Roma. In realtà non faceva freddo e noi nordiche intabarrate ci siamo stupite vedendo gente con giacchine leggere e, addirittura, qualche temerario in maglione e camicia girovagare per le vie dello shopping e le bancarelle natalizie di piazza Navona. Il problema, credo, è l'escursione termica tra il caldo-umido della metropolitana e l'infido "venticello de Roma", che mi frega tutte le volte. Comunque è andata meglio del Capodanno di qualche anno fa, come alcune ciose ben sanno...
Nei quattro giorni di permanenza, ridotti di fatto a due pieni e due mezze giornate causa lunghi, costosi e avventurosi viaggi in treno, siamo riuscite a farci stare anche un'altra mostra, un Angelus (imbucate tra i bambini degli oratori romani), lunghe passeggiate, un'incursione in un immenso negozio di giocattoli e, persino, un pranzo e una cena con due amici di Vale, pugliesi ma residenti a Roma, uno dei quali, peraltro, nostra vecchia conoscenza camaldolese. Insomma, un bilancio decisamente positivo con due sole note stonate: la defezione di Dani all'ultimo momento, che mi è molto spiaciuta (la prossima volta, prometto, si visita insieme Cinecittà!). E una profonda nostalgia per i tempi del Grand Tour, quando ci si poteva permettere di stare mesi o anni in una città, perché soprattutto nel caso di Roma, che ti stordisce di bellezze e di proposte, hai la sensazione che manchi sempre il tempo per conoscerla davvero, per tentare un poco di capirla, non solo di guardarla come si guarda una vetrina. Perché tante piccole visite sommate insieme temo non facciano un viaggio. Però si tenta, come si può, e, a volte, si ha fortuna: ci si trova in una chiesa deserta dove un baritono, una organista e un violinista provano pezzi classici per le celebrazioni, si incappa in una comitiva con una brava guida che spiega i sotterranei (ancora!) di S. Cecilia e si rimane ad ascoltare con discrezione nella stanza accanto, fingendosi molto interessate a un resto di pavimento romano; si rientra due sere di seguito in taxi e si ritrova lo stesso taxista e la città sembra un poco più piccola; poi si accende la tv a tarda notte, per guardare un tg, invece, la prima cosa che appare è un faccione occhialuto e abbronzato che intona "Grazie Roma!", che può piacere o meno, ma, senza dubbio, è una dichiarazione d'amore sincera.
martedì 6 dicembre 2011
Maschere nude
Sì, dopotutto, abbiamo diritto all'imperfezione. E alla bellezza. Non c'è contrasto tra le due cose, se solo si fa lo sforzo di uscire, una buona volta, dalle paure e dagli stereotipi.
Anch'io avevo paura, sabato sera, prima che iniziasse lo spettacolo nel quale recitavano insieme donne disabili e non. Paura di vedere esibito un dolore che ho sotto gli occhi tutti i giorni; di commuovermi, intristirmi, arrabbiarmi. Non è successo nulla di tutto questo. Lo spettacolo che, per la cronaca, s'intitolava "vivere spettinata" (cosa che a me capita spesso), era un grido di libertà, lieve e autoironico: libertà per ciascuna donna - in piedi o su ruote - di portare in giro il proprio corpo e anche i propri pensieri per quello che sono, quindi non sempre belli e quasi mai impeccabili, ma veri.
Invece troppo spesso siamo costrette (o ci costringiamo?) a nascondere molte cose: i brufoli prima, le rughe poi, i chili (e i peli) di troppo e, ovviamente, le emozioni. Perché quando traboccano - come si è visto di recente con le lacrime di un sindaco e di un ministro - suscitano simpatia, tenerezza, ma anche, diciamolo, un po' di diffidenza: "Eh, le donne, si sa: sono umorali, instabili, sentimentali, insomma, deboli e inaffidabili". Sicuri? E allora vai col trucco, le creme, le tinture, le palestre, i push up e altri ammennicoli che dovrebbero servire a farci assomigliare a ciò che vorremmo/dovremmo essere: giovani, belle, forti. Servono? Certo! E anch'io ne avrei un gran bisogno. Ci sono momenti in cui vorrei essere più bella, più elegante, più piacevole, non avere la fastidiosa consapevolezza dei miei difetti fisici e di carattere, che a volte mi spiace sinceramente sbattere in faccia agli altri. Purtroppo, però, ho capito che con me la cosa non funziona: con un abito elegante e una mano di fondotinta io mi sento, se possibile, ancora più insicura. Me ne dispiace, ma è così. Perché mi pare, in qualche modo, di ingannare l'altra o l'altro. Perché se è difficile portare in giro il mio corpo (e non oso nemmeno immaginare quanto possa esserlo per una persona disabile), mi pesa ancora di più nasconderlo con una maschera che non mi appartiene. Se pure mi spaventa pensare che qualcuno mi giudichi e mi rifiuti per il naso storto e i fianchi larghi, mi fa ancora più paura che qualcuno mi accetti per qualcosa che non ho: una pelle di pesca o capelli di un'altra forma e un altro colore, che saranno più belli, ma non sono miei. Insomma, se devo scegliere tra il disagio della finzione e quello dell'imperfezione, scelgo il secondo; pur essendo consapevole che anche "tenersi su" non è una scelta banale, ma richiede misura, pazienza e una certa forza d'animo. Anzi, le invidio le donne che hanno saputo trovare nell'abito, nel trucco, in un certo modo di porgersi, l'arma giusta per affrontare il mondo. Ma ancora di più invidio gli uomini, che, da sempre, possono portare in giro la loro faccia e il loro corpo senza bisogno di maschere: nessuno contesta loro capelli grigi e maniglie dell'amore, ma nemmeno gli scatti di rabbia o i momenti di commozione. Anzi, di un uomo che piange si resta piacevolmente stupiti: "Toh, guarda com'è sensibile...". Però sarei maledettamente curiosa di sapere se anche a loro capita di sentirsi a disagio quando qualcuno - o qualcuna - li guarda, e di desiderare che il loro corpo assomigli a ciò che sentono di essere davvero: abbia una profondità, non solo una superficie. Se a loro non capita, dopotutto, sono fortunati e, forse, dovremmo imparare da loro. Se, invece, capita anche a loro, non sarebbe un gran sollievo smetterla di nasconderci e ingannarci a vicenda e accettarci per quello che siamo: creature comunque imperfette, che si stancano, si arrabbiano, invecchiano, ma volendo, possono farlo, semplicemente, insieme?
mercoledì 30 novembre 2011
Tre anni e non sentirli...
E' andata così, e un poco me ne dispiace perché avrei voluto qualcosa di più sensato da raccontare nel giorno in cui festeggiamo il terzo compleanno di questo blog. Ma forse va bene lo stesso. Infondo, da quando abbiamo messo il becco per la prima volta in questo piccolo pollaio virtuale, abbiamo sempre fatto così. Non ci siamo scelte un tema, una linea, un pensiero: abbiamo semplicemente deciso di raccontarci anche qui come facciamo quando siamo tra noi, mescolando cose piccole e grandi, serie e, beh, molto meno serie. Anche se, in realtà, non so se ve ne siete accorte, ma quassopra ci capita di scambiarci pensieri e ricordi mai condivisi altrove. Credo sia giusto e naturale: perché con mezzi espressivi diversi si riescono a dire cose diverse o almeno, a vederle da un altro punto di vista. E, a volte, è una ricchezza e un sollievo.
Non avremo scelto, diciamo così, una "linea editoriale" (e, se vi può consolare, sappiate che, per la mia esperienza di lavoro, a volte non la scelgono nemmeno i direttori di giornali), però ci siamo scelte noi, in qualche modo, più o meno dieci anni fa e, scorrendo la colonna di sinistra, scopro sempre con un certo stupore che c'è qualcuno che ha scelto di seguire noi. Anche a loro sono grata, come a voi, perché scegliere, dopotutto, è una delle cose più difficili e meno banali che ci tocca fare nella vita...
Auguri!
giovedì 24 novembre 2011
It's a hard life
Il titolo di questo post campeggia sulla lavagna bianca sopra la mia scrivania dai tempi dell'esame di terza media. Ormai è un po' sbiadita, ma impossibile da cancellare. Non è solo una consapevolezza che mi porto dietro da allora e cresce ogni giorno di più. E' anche il titolo di una canzone dei Queen, quella che ha un video strepitoso dove i quattro indossano maschere improbabili. Per la cronaca, la mia preferita era quella da unicorno del bassista: ho sognato per anni di vestirmi così a carnevale!
"My soul is painted like the wings of butterflies
Fairytales of yesterday will grow but never die
I can fly - my friends!"
(The show must go on)
Questa l'avevo scritta con l'uniposca bianco sul fianco del mio zaino di scuola alle superiori.
"You can't turn back the clock,
you can't turn back the tide
Ain't that a shame?"
(These are the days of our lives)
Con questa avevo terminato un raccontino di fantascienza che mi avevano dato per compito alle medie. Credo sia una delle mie canzoni preferite. Se incappo nel video, l'ultimo girato da F., ancora adesso mi commuovo.
L'immagine è la stessa del poster che ho avuto appeso in camera per anni, comprato vergognandomi come una ladra in una cartoleria appena uscita da scuola.
Ecco, così imparate a ricordarmi che 20 anni fa moriva Freddie Mercury: mia insana passione adolescenziale.
martedì 22 novembre 2011
Da Ligabue a Pascoli

Per la serie "Galline famose", un quadro di Ligabue in cui due galletti si azzuffano per far colpo sulla bella gallinella.
A seguire bella poesia bucolica del Pascoli.
non piange il vecchio cor, come a noi grami;
che d'arguti galletti ha piena l'aia;
e spessi nella pace del mattino
delle utili galline ode i richiami,
zeppo, il granaio; il vin canta nel tino.
mentre il granturco sfogliano, e i monelli ruzzano
nei cartocci strepitosi.
Myricae, l'ultima passeggiata
mercoledì 16 novembre 2011
Dentro una poesia
"C’è la nebbia che ci cancella
Nasce forse un fiume quassù
Ascolto il canto delle sirene
del lago dov’era la città"
(G. Ungaretti, Nasce forse)
In effetti la nebbia è una strana cosa per chi non c'è abituato. L'ho capito vedendo lo sguardo sperso e inorridito di una mia compagna di classe delle superiori, capitata da noi in pieno inverno da non ricordo più quale paesino assolato della Puglia.
Alla fine ho tentato ugualmente una foto, ma non rende assolutamente l'idea, un po' perché da me, purtroppo, non è che si può pretendere, un po' perché, anche stavolta, ero ferma sul ciglio di una strada e, ovviamente, in ritardo.
PS: Stamattina (17/11) un altro lago improbabile me lo sono trovato davanti all'ufficio. Tubatura rotta e acqua che gorgogliava da sotto l'asfalto. Impressionante. Mi avrebbero fatto comodo gli stivali di plastica colorata che abbiamo adocchiato domenica al mercato, quando abbiamo giocato a immaginare di acquistare oggetti come scusa per viaggiare. Un maglione spesso due dita con fiocchi di neve fa ridere a Parma, ma è perfetto sulle vette del Trentino. Quanto al luogo dove vorrei testare la tenuta degli stivali di gomma di cui sopra ci arrivate da sole, vero?
Si accettano suggerimenti, invece, su quale capo di vestiario o accessorio potrebbe propiziare, finalmente, un weekend a Torino... giusto perché son due anni che ne parliamo e a Venaria c'è una mostra di Leonardo.
Saluti fugaci.
lunedì 7 novembre 2011
Una guancia di melograno
E a una città.
Tutti loro sanno il perché.
venerdì 4 novembre 2011
Galline al cinema

Visto che questo è un blog di ciose, cioè galline, mi è venuta la bizzarra idea di inserire qui le immagini di galline immortalate sul grande schermo.
Chissà perché, la prima che mi è venuta in mente è la povera gallinella che Rocky doveva rincorrere e acchiappare (mentre avrebbe preferito mangiarsela) durante il suo allenamento.
Chi vuole trovarne altre? Se non vi interessa il cinema, vanno bene anche galline in ambito artistico o letterario.
giovedì 3 novembre 2011
La casa del meleto e altre storie
mercoledì 26 ottobre 2011
Questione di sfumature
Ieri sera ho ricevuto una mail inviata all'urbi et orbi da un'amica che non vedo da tempo, ma che non per questo mi è meno cara. A me è piaciuta tanto e non ho resistito alla voglia di condividerla col resto del pollaio. Dice così:
"Mi sono svegliata, ho alzato le braccia, ho piegato le ginocchia, ho girato il collo, e tutto ha fatto CROOOC... Allora sono giunta alla conclusione: non sono vecchia, sono croccante...!!!"
Non so voi, ma io approvo in pieno!
Qualche minuto prima mia madre, dopo aver finito di bere l'ennesima medicina, ha fatto una delle espressioni più schifate che io abbia mai visto; così m'è venuto da chiederle: "Com'è?" E lei, laconica: "Non è che sia proprio cattiva... è disgustosa". Quando si dice la precisione.
Vorrei anche raccontarvi di quella notte che abbiam tirato l'una e mezza chiacchierando e arrotolando... orecchini di carta; ma, se vorrà, lascerò questo piacere a Dani, anche perché è colpa sua!
Saluti piumati.
lunedì 17 ottobre 2011
Non so se veramente fu vissuto...
Ci ho messo due giorni a scoprire che aveva gli occhi azzurri. Li teneva ben nascosti dietro un'onda di capelli neri e occhiali sottili, cerchiati di scuro. Me ne sono accorta quando me li ha piantati addosso, regalandomi uno degli sguardi più belli mai ricevuti: lungo, intenso, ma assolutamente privo di malizia. Perché credo che fin da allora la sua idea di affetto fosse inclusiva, non esclusiva. Era capace, con un'occhiata, di farti capire che di te gl'importava davvero, che davvero ti stava ascoltando e che eri, per lui, una cosa preziosa; ma era inutile farsi illusioni, perché ci voleva poco a capire che era in grado di fare lo stesso con chiunque: una dote ideale per la vita che si è scelto.
Anche la sua voce, strana, profonda, era un filo d'acqua chiara: facile da riconoscere anche in mezzo alla folla e maledettamente rassicurante, capace di dire con semplicità cose profonde.
Mi sono concessa d'ascoltarla a lungo, una volta, nella veranda torrida di un bar semideserto. Parlava con un'amica a me altrettanto cara e il sole scovava pagliuzze dorate negli occhi di entrambi. Io li guardavo in silenzio, felice della loro presenza e terrorizzata di perderli, come, infatti, è successo, per ragioni uguali e contrarie. Perché tutti trovano la loro strada, prima o poi. Quasi tutti. "Non essere triste per le cose passate, ma ringrazia per averle avute" era una frase che amava ripetere. E che io non ho imparato. Altre sue parole, invece, le ho fatte mie; e sentirmele in bocca è l'unico modo che ho per tentare di assomigliargli.
Nei pochi momenti della nostra amicizia gli è riuscito, senza saperlo e, certo, senza volerlo, di farmi vivere scene simili ad altre inventate nelle storie che mi raccontavo da bambina. Piccole cose perfette, assolutamente insignificanti per gli altri (e, forse, per lui), che a me, invece, hanno insegnato contemporaneamente due cose: che persone simili a quella con cui vorrei trascorrere la maggior parte della mia vita esistono (e saperlo rende difficile accontentarsi); e che, però, sono irraggiungibili. Allora non resta che rassegnarsi a sfiorarle e ricordarle o, almeno, immaginarle...
Lo so, lo so, è un po' delirante, ma è da tanto che ci penso a questo post. Ora mi ripiglio e prometto di non scriverne altri simili. Abbiate fiducia!
lunedì 10 ottobre 2011
Autunni, moribonde dolcezze
A destra il rincorrersi delle creste verdeoro degli Appennini. A sinistra l'intera pianura Padana e, oltre, le Alpi azzurre con le cime più estreme già coperte di neve. Sopra un cielo turchese e piccole nuvole-giocattolo bianche e immobili. Attorno un'aria di vetro.
Se poi capita anche di viaggiare in compagnia di un enorme mazzo di lavanda e di un cartoccio di caldarroste tiepide, l'incanto è perfetto e il freddo quasi sopportabile.
Questo post è dedicato a Costi. Il titolo è il solito Ungaretti.
Saluti imbacuccati.
venerdì 30 settembre 2011
Sulla bellezza
lunedì 26 settembre 2011
L'abitudine alla bellezza
Siamo così abituati da esser costretti a scegliere cosa guardare e cosa ignorare, in base a canoni estetici che ci son stati trasmessi da altri e abbiamo fatto nostri, magari arricchendoli con un poco d'esperienza e gusto personale. Siamo così abituati che, infondo, non ce ne importa più di tanto. Forse è per questo che siamo in grado di tollerare le orribili periferie che circondano le città, le aree industriali, i centri abitati senza centro: fatti soltanto di case, negozi e capannoni allineati lungo le strade. Perché sappiamo che a un certo punto finiscono e che, volendo, abbiamo mille possibilità per rifarci gli occhi.
Ne abbiamo visti di orribili, attraversando la provincia torinese dirette verso la Sacra di San Michele: ancora più straordinaria dopo l'anonimato di questi luoghi senz'anima. E guardando la Val di Susa dalla terrazza del "culmine vertiginosamente santo" ci è venuto naturale pensare che, se l'avessero costruita oggi, magari affidandola a qualche "archistar", di sicuro sarebbe costata di più, sarebbe stata più brutta e avrebbe resistito di meno. Eh già perché è evidente che anche quando i nostri amministratori si riempiono la bocca di grandi nomi e fingono di progettare la città del futuro i risultati, il più delle volte, ci lasciano delusi e non reggono il confronto, non dico con una cattedrale medievale o un palazzo neoclassico, ma nemmeno con una casuccia di pietra tirata su a suon di esperienza dai contadini o con qualche bella fabbrica liberty dei primi del '900.
E' solo questione di prospettiva? Abbiamo succhiato col latte il culto per l'antico e il nuovo, anche se ben fatto, ci appare sempre un po' squallido; mentre tra qualche secolo, magari, le comitive si fermeranno a naso in su ad ammirare i resti di un outlet.
E' possibile ma non mi convince. Sospetto, invece, che la mancanza di bellezza viaggi di pari passo con la mancanza di lungimiranza di un'intera classe di politici e imprenditori di cui abbiamo, proprio nella nostra città, parecchi esempi emblematici.
Certo, anche il patrizio romano che pagava a sue spese un mosaico nella basilica della sua città - e ci faceva mettere la targa col suo nome - lo faceva per dimostrare la sua potenza e la sua ricchezza e per racimolare consensi per farsi eleggere a qualche magistratura superiore; ma, visto che le sue pietre, spesso, sono giunte fino a noi, di sicuro non lesinava in qualità dei materiali e della manodopera. Badava alla sostanza, non solo all'apparenza e aveva, diremmo oggi, una visione di lungo periodo: voleva che i suoi pronipoti potessero passeggiare sul suo mosaico, non che durasse entro e non oltre le prossime elezioni. Univa, insomma, all'utile e al bello un'idea d'eternità. Anche il contadino che tirava su la casa ad occhio e ad esperienza la faceva non solo per sé, ma per crescerci i suoi figli e i suoi nipoti. Chissà, forse è proprio da quest'idea che nasce una bellezza capace di andar oltre il valore economico e superare le mode.
D'altronde guardatela bene la Fornarina: ha un bel nasone, le spalle cadenti, i seni piccoli ed è, di sicuro, più grassa di me. A Miss Italia non l'avrebbero presa, ma sfido chiunque, dopo 500 anni, a dire che è brutta!
venerdì 16 settembre 2011
Corrispondenze
rimangono attaccate ai muri
non più abitati
dallo sguardo degli uomini."
(Paolo Rumiz, Le dimore del vento)
Sarò breve. Ci credete?
Non so voi, ma a me, quando capita di trovare curiose corrispondenze di pensieri, parole, sentimenti con persone lontane e diverse da me per età, origine, mestiere, esperienze, quasi quasi mi commuovo...
La foto è l'edificio accanto alla tomba di Cecilia Metella lungo l'Appia antica a Roma, scattata tre anni fa in un meraviglioso pomeriggio di cicale.
Son stata breve, visto?
giovedì 8 settembre 2011
Martedì 11 settembre 2001,

nel primo pomeriggio, mi sono rintanata nello studio di mio padre per cominciare a correggere delle bozze ritirate in mattinata dallo studio editoriale con cui collaboro tutt'oggi.
Si trattava di un saggio sulla jihad islamica, la guerra santa dell'Islam contro l'Occidente: argomento molto complesso e da far tremare i polsi, infatti io, che ero all'inizio della mia attività di correttrice di bozze, ho pensato bene di isolarmi per concentrarmi meglio.
Intanto al piano di sotto mia madre e mia sorella, davanti alla TV, assistevano in diretta alla drammatica dimostrazione delle teorie di cui io, ignara di tutto, stavo leggendo.
Loro mi hanno poi detto di non avere avuto il coraggio di venirmi a chiamare perché sapevano bene della fascinazione che io ho subito fin da piccola per l'America e per New York in particolare. Un legame che si nutriva di romanzi letti, telefilm guardati, del poster con lo skyline appeso in camera, e della passione per il cinema di Woody Allen, tanto che ad ogni compleanno il mio desiderio espresso davanti alla candelina era: "Voglio andare a New York!"
E alla fine ci sono andata, grazie all'ospitalità di conoscenti, nell'autunno successivo al mio esame di maturità, e ho voluto vedere tutti quei posti per cui New York è New York, salendo anche fino in cima alla Torre Sud del WTC.
Che cosa si prova quando si realizza un sogno? Senz'altro gioia e soddisfazione, ma poi anche un certo senso di vuoto perché un sogno realizzato è un sogno in meno da sognare, scusate il gioco di parole, e da quando ci sono stata l'America ha smesso per me di essere un mito, si è "normalizzata".
Però quel pomeriggio quando poi son scesa e mia madre mi ha detto criptica: "C'è del brutto…", e tutto si era già compiuto, le Torri già crollate, ricordo che, dopo aver pensato che era fantascienza, mi sono sentita ferita e offesa in prima persona, ma soprattutto piena di rabbia, di paura e di odio verso i responsabili e verso la cultura che li aveva formati…
Mi ci è voluto del tempo per capire che quella era la reazione auspicata dai terroristi, che la risposta migliore invece era coltivare un atteggiamento di apertura verso gli altri, di integrazione degli immigrati e di tutti coloro che per qualche motivo sono diversi da noi. New York, in fondo, e anche il WTC erano un bellissimo esempio di convivenza pacifica, e tra i pompieri che quel giorno andarono controcorrente rispetto alla gente in fuga dalle Torri c'erano anche numerosi islamici.
lunedì 29 agosto 2011
La città delle parole che cantano
Ormai è inutile negarlo: questo per me, Dani e Costi è l'anno di Venezia. E di Paolini, d'accordo, ma stavolta non è tutta colpa mia. Ammetto di aver sobbalzato quando ho letto che avrebbe rifatto, dopo 13 anni, il mio spettacolo preferito nei luoghi ai quali è dedicato; e ammetto anche di aver inoltrato immediatamente la notizia. Ma solo quando mi sono sentita rispondere "perché no?" anziché esser mandata a quel paese, ho cominciato a crederci anch'io. Dani ha preso i biglietti, Costi ha fermato una stanza dalle sue suorine, e io mi sono limitata a trovare un bed & breakfast che ci permettesse di trasformare la fuga in qualcosa di simile a una vacanza. Poi le cose, come pare inevitabile ogni volta che ci muoviamo, si sono maledettamente complicate, tanto che, fino a poche ore prima del treno non sapevamo in quante saremmo partite e quando tornate. Poi per fortuna siamo state tre per tutti e quattro i giorni previsti.
Arrivate nel tardo pomeriggio del 25, oltre allo spettacolo, siamo persino state ammesse alla "conversazione" precedente, tra artigiani che disquisivano della forma delle forcole, noi, che a malapena abbiamo guidato un pedalò! Ci hanno invitato (e aiutato) a sedere sulle barche ormeggiate di fronte allo squero ombroso e silenzioso: io e Costi su una caorlina, l'avventurosa Dani su un sandolo. E' deliziosamente bello imparare i nomi di questa città, che parla una lingua sua anche quando non usa il dialetto. Nella sera caldissima, sedute sui masegni del campo (a seguito, sospettiamo, di un raro caso di overbooking teatrale), queste parole ce le siamo lasciate dire volentieri e, nei giorni successivi, ci siamo scoperte a ripetercele (non solo io, vi giuro), nel nostro vagabondare e a trovarle vere. Anche noi - come ha affermato il nostro durante la conversazione, perdendo per un attimo la sua aria torva (ma fascinosa: l'ha detto Costi!) - abbiamo vissuto a lungo sull'onda di un'emozione; perché è inutile: al di là della loro bellezza, che può anche essere oggettiva, siamo noi che diamo senso alle cose, caricandole di ricordi e aspettative. Così abbiamo sorriso a ogni barca da trasporto che incontravamo, ricordandoci del Gatto e del suo "mototopo", abbiamo letto su un campanello il cognome "Sambo", proprio come il misterioso personaggio che guida Marco nella sua "Odissea in Iliade", e sentito due anziani cantare la stessa serenata cantata da lui.
Il giorno dopo abbiamo deciso d'andar per isole, vergognandoci un poco d'intrupparci nel "triangolo delle bermuda del turismo mondiale". Forse è per questo che a Murano non siamo riuscite a vedere la classica dimostrazione della lavorazione del vetro; in compenso a Burano, dove Dani non era mai stata e io e Costi siamo tornate volentieri, siamo riuscite a cogliere il momento in cui, terminata l'orda amata-odiata, gli abitanti, pian piano, si riappropriano della città. Vecchietti uscivano sostenendosi a coppie per la loro passeggiatina, robuste signore piazzavano sedie nei campielli per conversare al fresco.
Sabato abbiamo passato una mezza giornata a prenderci in giro pensando che, tra le nostre mete, era previsto un pellegrinaggio alla chiesa delle Zitelle alla Giudecca. L'abbiamo trovata chiusa. Dite che è un buon segno? Forse sì, visto che, a San Giorgio Maggiore, appena entrate a visitare una mostra d'arazzi antichi e moderni, collaterale alla Biennale, una guida ci chiesto da dove venivamo e ci ha detto - testuale - che avevamo dei visi dolcissimi (a me è venuto in mente Tiziano Scarpa quando parla dell'espressione dei "serenissimi" veneziani, storditi dalla bellezza che li circonda ogni giorno: forse basta un giorno a ridursi così); mentre al piano di sopra un'altro ci ha permesso di camminare a piedi nudi sulle opere d'arte...
Il Lido, che all'inizio ci era parso quasi romagnolo, ci ha regalato scenari oceanici e letterari: la spiaggia poco affollata era spazzata da un vento caldo, che sollevava nuvole di sabbia dorata oltre le file delle cabine dal sapore primonovecentesco, fino a lambire lo scheletro del Grand hotel des bains, quello di "Morte a Venezia". Abbiamo attraversato controvento il cantiere della mostra del cinema che s'aprirà tra pochissimo, tra operai indaffarati e bagnanti, in un'atmosfera vagamente surreale. A sera, alla Giudecca, ci siamo dovute "accontentare" della chiesa del Redentore, sbirciata con discrezione durante un matrimonio, e di una messa in Sant'Eufemia, abbassando di colpo la media d'età dei partecipanti. Osservando enormi navi da crociera di ogni parte del mondo attraversare lentissime il bacino, abbiamo scoperto di non invidiarne troppo i passeggeri. Ci siamo concesse una passeggiata notturna in una piazza San Marco poco affollata e con un principio d'acqua alta. Nelle pozzanghere nere si riflettevano lampioni e marmi dei palazzi, mentre una coppia elegantissima di stranieri improvvisava un tango davanti al Florian.
Ci siamo tornate la mattina dopo e pareva un altro mondo. Ma noi siamo entrate in Palazzo Ducale dall'uscita, dove una mostra di Monika Bulaj (fotografa innamorata dell'oriente che, guardacaso, ha lavorato anche con Paolini) ci ha riportato subito altrove. A farci tornare coi piedi per terra c'ha pensato l'ansia del ritorno, che ci ha tolto energia e ha reso più complessa la digestione del nostro pranzo a base di "cicchetti". Abbiamo provato a perderci per strade nuove, per vedere ancora qualche angolino da ricordare e ci siamo infilate in tutte le chiese che incontravamo lungo il percorso incappando in Tiziani e Tintoretti. Poi, strette con le valigie sul vaporetto affollato di tutte le lingue, abbiamo ascoltato emergere a tratti, morbida e invitante, quella di chi rimane. Sul treno eravamo silenziose: stanche certo, ma anche svuotate e malinconiche.
E stanotte io, piantata di nuovo in mezzo alla pianura padana, nella mia città che amo e in cui mi riconosco, ho sentito che mi mancava l'acqua sotto i piedi. Certo non basta questo a farci promuovere da turiste a viaggiatrici, ma è comunque una bella illusione...
giovedì 18 agosto 2011
Quattro a Sesta in prima



Sì, dai, quest'anno per ferragosto diamo i numeri! Non si spiegherebbe altrimenti con che coraggio mi sia fatta 10 km di sterrato con la mia auto, che non è esattamente un fuoristrada, con tre persone consenzienti a bordo.
Ma procediamo con ordine (sparso). Per la tradizionale gitina del 15 abbiamo deciso di fare un percorso artistico-letterario nei nostri Appennini.
A Sesta, il rifugio-atelier di Walter Madoi, si arriva con una svolta secca poco prima di Bosco di Corniglio, su per una stradina stretta e ripida da percorrere rigorosamente in prima - come ha osservato Dani - soprattutto se in macchina ci sono tre ciose e un'amica (Antonella) con tutto l'occorrente per un lauto picnic.
Il paesino è un grumo di case piccole con finestre piccole, d'alta montagna, affacciate su viuzze piccole, cortili stretti o orticelli ben curati. Sui muri quel che resta degli affreschi coi quali, negli anni '60, il pittore cercò di far diventare famoso il suo paese d'elezione. Alcuni sono andati perduti, altri sono stati restaurati l'anno scorso, ma i più impressionanti sono, senza dubbio, quelli della chiesa: una crocefissione colta nell'attimo in cui il cielo si oscura e si scatena la tempesta. Tutti i personaggi hanno i volti dei paesani, tranne Cristo (per rispetto) e i due ladroni (per vergogna). Maria, ai piedi della croce, è un'anziana donna livida, in fin di vita. Posati nel transetto ci sono alcuni cartoni a carboncino, molto belli. A sinistra, seminascosto, il ritratto del pittore, avvolto in un mantello come nell'affresco del Corpus Domini. Nel praticello della chiesa una comitiva di villeggianti ha installato un tavolo e si prepara al pranzo, così anche noi decidiamo che è ora di trovare un posticino comodo. Ci sistemiamo in un campo falciato da poco, appena fuori dal paese, e ci mettiamo un po' a estrarre dalle borse le vettovaglie... Un plauso particolare va alle torte salate di Costi e alla torta Susanna di Dani. Dopo una pennichella en plein air, mi tolgo una piccola soddisfazione: risalire, dopo anni, in cima a un ballone di fieno. E' comodo e profumato come lo ricordavo.
Raccattato tutto quello che avevamo sparso decidiamo di andare a prendere il caffé sui laghi. Arrivate ai Lagdei, pareva d'essere a Rimini. Proseguiamo per i Lagoni: la strada è invitante: tutta immersa nel bosco, peccato sia sterrata! Ma ormai che siamo in ballo... balliamo. Letteralmente: visto che la Opel non abbonda in sistemi d'ammortizzazione. Mi tranquillizzo vedendo che, parcheggiate lungo il percorso, oltre a jeep e suv, si vedono anche modeste utilitarie: se sono arrivate fin qui, posso farlo anch'io! Mi tranquillizzano un po' meno i discorsi di Dani e Co, assidue dei "Giardini della paura" (vedi post del 15 luglio 2010), che non fanno altro che rievocare truculente scene di un film horror ambientato, ovviamente, in un bosco. Raggiungiamo polverose la meta. C'è meno gente (chissà perché) e al rifugio troviamo una vignetta di Fogliazza e un murales di Madoi (toh, chi si rivede!).
Vogliamo raggiungere la Casarola di Bertolucci, e la via più breve prevede altro sterrato. Lo affrontiamo impavide, shakerando il caffé. Valichiamo persino un passo a 1100 metri e arriviamo sotto la pioggia, immancabile nelle nostre gite, ma, per fortuna, passeggera. Casarola e Sesta si somigliano: case antiche, di sasso, in salita, legna già accatastata nei cortili. Qui, però, sui muri, al posto dei dipinti, versi di poesia.
Una signora esce di casa per attingere acqua alla fontana col tetto d'ardesia. Da una stalla una vecchia con il fazzoletto in testa e un forcone in mano ci chiama: ha voglia di fare due chiacchiere e ci indica la casa di Attilio. Spiove. Dal recinto della sua stalletta spunta il muso di un asino smunto. Troviamo la casa e ci giriamo intorno, calpestando susine bianche e nere cadute dagli alberi. C'è un senso d'abbandono ordinato. Pare d'essere in un altro tempo. Torniamo nel nostro al solito modo: facendo merenda sedute nella pensilina delle corriere. Non è una pensilina qualunque: è in legno e pietra e c'è persino una piccola fioriera. Scendiamo a valle in controluce, osservando con piacere che la montagna è ancora viva: schiviamo ciclisti della domenica (anche se è lunedì), famigliole a passeggio e anziani intenti a conversare sulle soglie di casa, pericolosamente in mezzo alla strada: le intruse, dopotutto, siamo noi. Le paline per la neve ci parlano di lunghi inverni. Poi spariscono e comincia, inesorabile, la linea dei salumifici: è Langhirano. Siamo arrivate. Anche ferragosto è passato e, come dice Costi, "Dopo è già Natale"... Accidentaccio!
PS: Scusate, ma quando pubblico più foto ho problemi d'impaginazione...
lunedì 8 agosto 2011
Metafore
Domenica mattina. Esco dalla mia camera con addosso un'informe tuta lilla riadattata a pigiama, un occhio chiuso e uno aperto e la vitalità di uno zucchino, e questo è ciò che mi capita di sentire appena sveglia.
Mamma: "Che tempo fa?"
Papà, appena rientrato: "C'è un cielo musulmano."
Mamma, lievemente perplessa: "Come, scusa?"
Papà, convinto: "Eh, sì: è VELATO!"
Che faccio? Lo bacio in fronte o me ne torno a letto?
PS: Aggiungo una postilla che non c'entra nulla, o quasi. Venerdì sera sono andata per l'ennesima volta alla festa del paesuccio di campagna, quello dove sta la casa evocata nel post del 14 luglio. Finito di cenare sono andata a sbirciare in cucina, dove ho visto facce note di cuochi-volontari troppo indaffarati per riconoscermi e facce ignote di giovani camerieri-volontari che non erano nemmeno nati quando io stavo esattamente al loro posto. E ho provato la fortissima tentazione di infilarmi anch'io una maglietta rossa dello staff, imbracciare un vassoio e ricominciare a girare tra tavoli e panche a distribuire tortelli, grigliate e le inafferrabili patatine fritte ("guardi, c'è da aspettare qualche minuto..."); sorridere e scambiar battute con perfetti sconosciuti ritrovando una leggerezza che mi stupiva allora e che oggi temo di non possedere più. Neppure d'estate.
giovedì 4 agosto 2011
Amarcord...

Oggi che abbiamo 10 anni di più sulle piume, e molti più impegni sulle spalle, si sono purtroppo diradate le occasioni per stare insieme, strappate con becco ed artigli agli impegni di lavoro, alla famiglia, ai mariti e morosi più o meno rassegnati e consenzienti. Eppure siamo ancora qui, faticosamente e gioiosamente, a celebrare il nostro primo decennale...
AUGURI!
mercoledì 27 luglio 2011
Come uccidere la fantasia (prima lezione)

Saranno state le 19.30. Mentre andavo a riprendere la macchina per tornare a casa, sotto il solito cielo bigio, incrocio una donna che passeggia con un bimbetto per mano, piccolo ma non troppo.
Proprio quando passo loro accanto il bimbetto si ferma, punta un dito verso terra ed esclama: "Mamma, guarda, ci sono tanti diamantini!". La mamma butta un occhio e si trascina dietro il figlio replicando apprensiva: "Ma no, non vedi che sono solo vetri rotti? Non toccare che ti fai male!".
Se la signora si fosse fermata a guardare si sarebbe accorta che erano vetri d'automobile, piccoli e squadrati, fatti apposta per fare meno danno possibile quando si rompono. Quindi, se il pargolo avesse allungato una mano, difficilmente si sarebbe tagliato. E avrebbe visto anche che, effettivamente, erano belli: un mucchietto azzurrino e luccicante sul grigio dell'asfalto.
Mi sarebbe molto piaciuto, allora, se avesse detto al figlio: "In realtà sono pezzi di vetro, forse di un automobile; però hai ragione, sai: sono belli, sembrano proprio pietre preziose". Se poi si fosse addirittura chinata a raccoglierne uno con circospezione, per insegnare al bambino come toccarli senza danni, forse avrebbe potuto, con poche parole, spiegargli diverse cosette: anzitutto che si può distinguere tra realtà e fantasia senza sminuire né l'una né l'altra; poi che le cose belle possono nascondersi dappertutto, anche tra gli scarti, e restano comunque belle, persino se non hanno alcun valore economico o utilità pratica; infine, persino che molte cose belle vanno trattate con cautela per evitare di fare o farsi del male. Vi pare poco?
Intendiamoci, io la capisco la signora, che di certo avrà avuto il suo daffare e non aveva la benché minima intenzione di trascorrere la serata al pronto soccorso. Comunque li avevo visti anch'io quei vetri rotti. E ammetto di aver pensato esattamente la stessa cosa che ha detto il suo bambino. Soltanto che ho 33 anni! E' grave?
mercoledì 20 luglio 2011
Cerco l'estate tutto l'anno...
Innanzitutto volevo ringraziare in modo particolare la Cri e tutti gli amici del pollaio che in qualche modo hanno reso “pubblico” il mio lieto evento (anche se forse per scaramanzia dovrei aspettare a parlarne..) e mi sono stati vicini con consigli, domande, proposte in questi primi quattro mesi.
Devo dire anche che, nonostante la nausea non mi abbia ancora abbandonata, non ho perso del tutto l’appetito quindi potrei tornare presto alla carica con nuove ricette, magari quelle che mi sono inventata per adeguare i piatti della tradizione alle esigenze del carico gravidico..
Intanto, per riallacciarmi al titolo del post, anche quest’anno è arrivata l’estate. Un’estate, per fortuna, anomala dal punto di vista climatico, dato che stamattina sono uscita di casa con sciarpa e golfino. Meglio così; quest’anno più che mai temevo l’arrivo di questa stagione, soprattutto, proprio perché sono diventata più sensibile, temevo in egual misura tanto il caldo torrido quanto gli sbalzi di temperatura causati dall’abuso di condizionatori non appena si entra in un negozio, supermercato o sala d’attesa di un ambulatorio… E pensare che l’estate mi è sempre piaciuta, complici le vacanze, da scuola e dal lavoro, anche adesso, per fortuna. Forse perché ho in mente anch’io, come ricordava Cri recentemente, certi pomeriggi lunghi e soleggiati passati a leggere un libro, a guardare un vecchio film alla tv (d’estate ogni tanto ne fanno vedere ancora) o a sfogliare un album di vecchie fotografie e perdersi nella nostalgia di quei ricordi… In fondo posso ritenermi fortunata perché, dopotutto, sto rivivendo, seppur in maniera diversa, la magia di quei pomeriggi, dopo anni in cui anche d’estate mi costringevo a star chiusa in casa per studiare e preparare gli esami di settembre, oppure a correre in piscina per un’ora di acquagym ((?)neanche mi ricordo come si scrive!) nel tentativo di inseguire una forma fisica a cui ho rinunciato comunque da anni… Quest’anno più che mai, gioco forza, anche se un po’ di movimento non farebbe male, me ne sto volentieri in casa a leggere quei libri che durante l’anno non ho avuto tempo di leggere, a svuotare armadi, a sistemare fotografie, disegni, vestiti, oggetti che fanno parte di una vita e ne immortalano il ricordo. E se si tornerà a sudare un po’, pazienza! Mi rifugerò presto in montagna a respirare (spero) un po’ d’aria fresca.
Auguro a tutte di trascorrere una bella estate, perché vale la pena di viverla e gustarla come tutte le stagioni del nostro vivere!
giovedì 14 luglio 2011
Case chiuse
Per questo mi piacciono, anche se, a prima vista, paiono scomode e poco eleganti; anche se "sanno di vecchio". Perché questo odore dimesso e sconosciuto ai figli della "generazione ikea" è stato, da sempre, parte della mia estate. E vorrei che continuasse ad esserlo ancora per un po', per quanto sia difficile. Incrociate le dita, per favore.
venerdì 8 luglio 2011
(Sacre?) Scritture

Nel primo caso a parlare c'era il regista, Luca Lucini, milanese, rilassato, informale; nel secondo l'attore, Giuseppe Battiston, friulano, arguto, meno pacioso di quanto il suo aspetto faccia pensare.
Immagino non abbiano molto in comune. Lucini ha fatto anni di videoclip e pubblicità, prima di passare ai lungometraggi con il famigerato "Tre metri sopra il cielo"; Battiston si è - parole sue - "fatto un mazzo così" col teatro e, nonostante i recenti successi, ci tiene a sottolineare la sua distanza dall'orda di giovani attori (alcuni anche bravi, però) usciti dai talent show e dalla fiction.
Eppure, senza saperlo, parlando da due punti di vista diversi di due film diversi, hanno detto una cosa uguale. Entrambi, infatti, hanno sottolineato l'importanza della scrittura come elemento fondamentale per fare un buon film.
Lucini ha affermato che si fida poco dei registi che fanno anche gli sceneggiatori, perché è giusto rispettare i ruoli e le capacità di ciascuno. Battiston ha osservato quanto è stato utile per lui poter contare su una sceneggiatura fedele al testo da cui è stato tratto il film (un racconto di Lucentini), anche per distaccarsene...
Di film m'intendo poco ma di scrittura un po' mi occupo, per lavoro e per passione. E non è certo una novità notare quanta sciatteria e quanta omologazione s'incontra oggi in molto di ciò che si legge (e si ascolta). La maggior parte dei testi che girano in internet, ad esempio, sono frutto di copia-incolla, talvolta talmente palesi che i "ladri" nemmeno si preoccupano di cambiare qualche parola. Della quantità di refusi che girano persino nei libri e sui quotidiani ho sproloquiato altrove; ma anche nei telegiornali mi pare non si faccia nessuno sforzo per dare il giusto tono ad ogni notizia ed evitare frasi fatte, banalità e ripetizioni.
Il fatto è che il lavoro di scrittura è ritenuto, dopotutto, una cosa di scarso valore. Non sto parlando, per carità, di arte, nemmeno di giornalismo romanticamente inteso, ma di artigianato, che va dai volantini pubblicitari ai comunicati stampa, passando per i ghost writer che danno una forma accettabile ai discorsi dei politici e ai libri dei calciatori. Autori anonimi (ai quali più o meno anch'io appartengo) che, però, scrivono l'80% di ciò che leggiamo e sentiamo ogni giorno e, spesso, si fanno un mazzo così... O forse no, visto che, infondo, una penna vale l'altra: quel che importa è che sia veloce, economica, non chieda troppe spiegazioni e se ne stia nascosta nell'affollato dietro le quinte della comunicazione.
Giusto ieri sera, a Superquark, il caro Piero (Angela) ha intervistato Tullio de Mauro, il quale ha dichiarato che in Italia ci sono ancora 2 milioni e mezzo di analfabeti e un buon 50% della popolazione è al di sotto dello standard minimo per quanto riguarda le capacità di scrittura e comprensione di un testo. Come è possibile, se quasi tutti pare abbiano un libro nel cassetto e spuntano da ogni parte case editrici telematiche disposte a pubblicarlo?
Credo che le cose siano collegate: più quel che si legge è sciatto,tutto uguale, privo di profondità, più ci si sente autorizzati a scrivere ciascuno il proprio capolavoro; più il livello della scrittura "quotidiana" si abbassa, più finisce col perdere di valore e di interesse e alla fine, passata l'euforia, si smette di leggere e di scrivere e ci si dimentica come si fa. Esagero? Certo, è un mio difetto, e nemmeno il peggiore...
Eppure, pensandoci, proprio noi italiani, analfabeti di ritorno, siamo figli di una delle religioni chiamate religioni del libro, nelle quali la scrittura ha sempre avuto un valore fondamentale, sacro, perché ha permesso di fissare e tramandare la parola di Dio. Non so a voi, ma a me fa abbastanza impressione quando penso che nella Bibbia - "ta Biblia": i libri, semplicemente - si racconta che Dio crea il mondo con la parola (è egli stesso parola, dice Giovanni), dà all'uomo il potere di dare un nome alle cose e, persino, si prende la briga di incidere di suo pugno sulla pietra i comandamenti.
Mi pare fosse Tolkien che affermava che l'uomo, inventando e scrivendo storie, infondo, continua l'opera creatrice di Dio. Ora, capisco che è difficile pensare a tutto questo mentre si scrivono dieci righe di resoconto sulla sagra della torta fritta a Vattelapesca, o si sintetizza un'ordinanza comunale, però avere almeno ogni tanto un brividino lungo la schiena, un sussulto di dignità, farebbe a tanti mestieranti delle (profane) scritture, un gran bene.
Basta adesso, se no rischio un fulmine per le probabili eresie e un cazziatone da voi per avervi annoiate a morte. Scusate!
giovedì 30 giugno 2011
Una lunga estate calda, per favore!

Il primo, ai primi accenni di canicola, me lo trovo davanti in bermuda e canottiera (sic!) che armeggia disperato col telecomando del condizionatore: ovviamente, essendo passati mesi dall'ultimo utilizzo, non si ricorda più come funziona e mi tocca pure aiutarlo ad accenderlo (salvo poi spegnerlo appena si allontana...); il secondo si affaccia alla porta del mio ufficio con aria tra il mesto e il ricattatorio e mi chiede: "posso attaccarlo?": domanda retorica alla quale io, per non dargli soddisfazione, rispondo allargando le braccia e dicendo "se proprio vuoi...". Quando è tornato dal mare la scorsa settimana, esibendo un colorito aragosta e sandali da turista tedesco, prima mi ha salutato (perché è pur sempre una brava persona...), poi mi ha chiesto: "perché non hai acceso il condizionatore?"
Se proprio volete ve lo spiego il perché, anche se so che mi creerò numerose inimicizie, per ragioni uguali e contrarie a quelle che mi sono creata con il post del 1 dicembre 2010: perché io, d'estate, VOGLIO AVERE CALDO!
Lo aspetto per 10 mesi all'anno il caldo; lo desidero ardentemente quando esco di casa con minimo tre strati di roba di lana addosso escluso il cappotto; lo sospiro nei restanti periodi in cui, pur osando canottiera e maglietta, sono pronta a sfoderare dalla borsa, al primo alito di vento, foulard e golfino per tentare, a volte inutilmente, di evitarmi un mal di gola.
E quando, finalmente, arriva, non mi par vero di uscire la mattina in bicicletta senza rabbrividire e sentirmi i capelli che svolazzano sulle braccia nude e di rincasare a mezzogiorno fendendo un'aria densa e calda come un brodo.
Quando riesco a passare un'intera giornata con addosso un abitino leggero senza dover riesumare dalla solita borsa (non si sa mai) nemmeno un coprispalle, quasi quasi mi commuovo.
Non che non mi dia fastidio sentirmi appiccicosa e sudaticcia dieci minuti dopo essere uscita dalla doccia, correre il rischio di salutare qualcuno con l'ascella pezzata e sentirmi le gambe pesanti e i piedi gonfi (fino a qualche anno fa non mi capitava: sarà la vecchiaia?); ma ci sto a sopportare qualche disagio pur di liberarmi, per un breve ma intenso periodo, di qualche strato di abiti, anche se così è più difficile nascondere i chili di troppo.
Perciò, rinchiudere me in una stanza in compagnia di un condizionatore equivale a una tortura, che sopporto a malincuore per amor di pace - domestica e lavorativa - ma da cui fuggo appena possibile.
Lo so che lavorare col caldo è faticoso, lo so che sudare non è elegante, ma l'estate dura un attimo. Perché costringermi a passarla in frigorifero come un sofficino?
Non vi ho convinto? Vabbé, allora buttiamola sul risparmio energetico! Volete mettere quanta elettricità si risparmia tenendo spenti i condizionatori? Non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di fare un referendum sul nucleare...
Calorosi (finalmente) saluti a tutti!
martedì 28 giugno 2011
Sono ancora qua
Ai prossimi "cioseschi" sproloqui!!
lunedì 20 giugno 2011
Crostata anarchica di lamponi

Risultato? Oggi sono bicolore: bianco crema davanti e rosso lampone dietro. In pratica somiglio alla crostata che mi sono inventata qualche giorno fa, quando ho scoperto che in frigo c'era una tazza di lamponi raccolti in campagna. Come tutte le mie ricette è tendenzialmente anarchica: fatta a occhio e a caso. Alla faccia degli chef che ho conosciuto per lavoro e mi hanno giurato che la pasticceria è una scienza esatta...
La base è la mia pasta frolla multiuso, ovvero: 250 g di farina, 150 g di zucchero, 100 g di burro, 1 uovo, mezza bustina di lievito vanigliato, 1 cucchiaio d'olio d'oliva, 1 pizzico di sale. Lo so che le ciose più cuoche di me inorridiranno, ma io mescolo insieme zucchero, farina, lievito e sale, poi aggiungo l'uovo, il burro a tocchetti e l'olio e lavoro con le mani finché non viene una pasta liscia e compatta. Poi lascio riposare. La copertura è composta da una crema pasticcera fatta in economia: 250 ml di latte, 50 g di zucchero, 1 cucchiaio abbondante di farina, 1 tuorlo, 2-3 scorzette di limone. Ho messo a scaldare il latte con le scorzette di limone e l'ho spento prima che bollisse; ho mescolato zucchero e tuorlo e aggiunto la farina, poi ho incorporato il latte e messo tutto sul fuoco, mescolando con pazienza finché la crema si è addensata. L'ho lasciata raffreddare un po'. Ho foderato la tortiera con la carta forno. Steso sopra la pasta frolla come per la crostata, bucherellandola con la forchetta. Poi ho messo uno strato sottile di crema pasticcera e mi son divertita a tuffarci uno ad uno i lamponi, semplicemente lavati e scolati. Poi ho infornato a 170°C per 40 minuti circa.
Poiché non sta bene giudicare da sé le proprie opere, dirò solo che è sparita in due giorni... vedete voi!
martedì 14 giugno 2011
Il pomeriggio è troppo lungo e azzurro...
(Pane e Tulipani)
Care ciose maestre. E' finita la scuola! Non c'è bisogno che ve lo dica io. Lo so che ve ne siete accorte e avrete tirato un sospirone di sollievo. E so anche che, in realtà, non è proprio finita: ne avrete almeno fino a fine mese di riunioni, scrutini e compagnia cantando; e il 1° settembre sarete di nuovo in ballo. Quindi, a chi (me compresa) invidia alle maestre i tre mesi di ferie occorre dire, anzitutto, che sono due e, subito dopo: provate voi a passare 6 mattine a settimana per 10 mesi l'anno attorniati da 25 pargoli, poi ne riparliamo...
Comunque. Sarà perché dopo settimane novembrine, finalmente è tornato il sole, sarà perché quando giro per Parma non incontro più folle di ragazzini raggrumati attorno alle fermate dei bus, ma li vedo in ordine sparso coi palloni nei cestini delle bici diretti ai campetti, o fuori dalle gelaterie con un cono fuori ordinanza, che mi è presa una botta di nostalgia feroce per le mie estati da studente. Sembra strano ma mi mancano soprattutto certi pomeriggi vuoti, in bilico sull'orlo della noia. Quelli in cui non c'erano feste, piscine, gite, genitori da accompagnare a fare qualche commissione. A volte nemmeno amici. Giusto una bicicletta con cui aggirarsi per il cortile; oppure un libro con il quale rintanarsi in un cantuccio fresco di casa.
In uno di questi pomeriggi ho letto per la prima volta Il piccolo principe, nascosta tra i mobili della sala accatastati, causa rifacimento della tappezzeria, in quella che sarebbe diventata la mia camera. In un altro ho imparato a pattinare da sola, avvinghiandomi alle ringhiere dei garages. Non c'ero mai riuscita prima, intimidita, forse, dai troppi consigli e dalle troppe paure di mio padre, che aveva tentato di insegnarmi.
Li ricordo questi pomeriggi, che certamente avrete avuto anche voi, perché credo che sia grazie a queste ore vuote, a questo tempo solo nostro da inventare - o anche, perché no, da sprecare - siamo diventate grandi: abbiamo imparato a fare i conti con noi stesse, a raccontarci storie e coltivare ricordi. O, almeno, per me è stato così. E provo una gran pena per certi piccoli che, appena suonata l'ultima campanella, vengono incasellati in un grest, spediti a un campo estivo o altro e sono privati del lusso di annoiarsi, che da grandi non capita più.
Lo so, lo so che i tempi son cambiati, che i genitori lavorano entrambi e non sanno dove lasciarli e che anche loro, come tutti, troveranno il loro modo di crescere e imparare a conoscersi; ma penso che un po' di tempo veramente libero farebbe anche a loro un gran bene, più che una vacanza studio all'estero...
lunedì 6 giugno 2011
Quei quaderni di una volta

Ciao ciose, finalmente faccio progressi: a quasi un anno dalla creazione del blog, son riuscita a caricare un'immagine!
Qui voglio rendere omaggio a Sarah Kay, personaggio creato da una disegnatrice australiana, che negli anni '80, quando ero alle elementari, abbelliva la copertina dei quaderni di ogni brava bambina che si rispetti.
Quelle spudorate preferivano Lady Oscar o Georgie.
Sarah Kay vive probabilmente a fine '800 in un ambiente bucolico, a contatto con dolci animaletti, ignara della tivù e dei cellulari. Predilige gli abitini in patchwork e le grandi cuffie di stoffa modello Laura Ingalls. Ha molte amiche con cui organizza picnic sull'erba o ricevimenti per il tè; bambole e peluche che si ostina un po' ottusamente a imboccare... poi ha anche qualche amichetto a cui dispensa bacini oscurati dall'enorme (e strategica) cuffia. Il suo è un mondo magico, romantico e incantato che da piccola io adoravo, tanto da collezionare tutti i suoi quaderni... oggi, complici la mia attuale passione per il patchwork e quella perenne per il passato, mi sono imbattuta nel suo sito, e Sarah mi ha risvegliato tanti bei ricordi, manco fosse la madeleine di Proust.
giovedì 26 maggio 2011
Viulenzaaaa!

Ad un tratto la donna si accorge che una zanzara le sta azzannando un braccio con notevole soddisfazione e, di scatto, mette il braccio sotto l'acqua del rubinetto.
Figlia: "Ahhh! una zanzara!
Madre: "L'hai spiaccicata?"
Figlia: "No, l'ho annegata."
Madre: "Prima dovevi strozzarla."
Figlia: "..."
Se ogni tanto mi capita di dire robe strane, insomma, non è solo colpa mia.
PS: non so di chi sia l'illustrazione della zanzara desolata che ho rubato. Se l'autore se la ritrova qui a sua insaputa, prima mi scuso e poi gli faccio i complimenti!
PPS: sia chiaro, mia madre è una persona pacifica.
lunedì 23 maggio 2011
L'ospite atteso

Ci sono, a volte, desideri così profondi che si addensano, fino a farsi bambino.
A Chiara, che, negli anni in cui giravamo l'Italia per convegni, è stata la sorella che non ho mai avuto; poi, per sua fortuna, ha trovato una strada migliore. E a Filippo: la sua strada.
Auguri!
lunedì 16 maggio 2011
Tre donne tra i libri (per non parlare del trolley)

"Le librerie mi fanno da ansiolitico e anche da antidepressivo"
(G. Carofiglio, Ragionevoli dubbi)
Le motivazione che ci hanno spinto a visitare, anche quest'anno, il Salone del libro erano serie e profonde. Non si trattava tanto di tener fede al punto 2 del nostro decalogo, né di trovare un passatempo intelligente per una domenica diversa. Il vero motivo per cui siamo andate a Torino era dar modo a Costi di utilizzare il trolley rosa shocking, che si è fatta regalare "ad uso fiere". Così un inedito terzetto, formato da me e Costi in compagnia di Simo, che si è ormai guadagnata la tessera di ciosa onoraria, è partito all'alba su un treno pieno di pendolari assonnati e, inseguito da nuvoloni neri e scrosci di pioggia (strano, vero?), è sceso alla stazione Lingotto con il sole (strano, davvero!). Qui abbiamo cercato di imbucarci sulla navetta, che credevamo gratuita e non lo era. Scese al volo, siamo risalite con il biglietto quando stava già per partire. Davanti agli ingressi della fiera c'era una bella fila, ma Costi era agguerrita (sarà per il trolley?) e si è diretta decisa all'ingresso riservato agli insegnanti per avere il biglietto scontato. Io e Simo ci siamo messe buone buone ad aspettare. Il sole era caldo e l'aria fredda e limpida: arrivava fin lì dalle Alpi ancora innevate intraviste dal treno. Non è male stare così, in compagnia di persone disposte a perder tempo per i libri. Dopo poco Costi riappare. "Già fatto?" No. E' che all'ingresso riservato non c'è nessuno e la cosa la lascia basita. Poveri insegnanti: li hanno maltrattati tanto nelle ultime finanziarie che non hanno nemmeno la forza di venire al Salone del libro?! La convinciamo a ritentare e ci ritroviamo all'interno dopo il consueto attimo di disorientamento: "Sono all'altro ingresso" "Ehm, quale?". Facciamo un rapido piano d'azione: "Bene. Allora, andiamo dritte e poi proseguiamo per file". A metà della prima fila di stand stiamo già divagando, attratte dal nome sfizioso di una casa editrice, dalle copertine colorate dei libri per ragazzi o da quelle fosche dei romanzi gotici (vero, Simo?). Decidiamo che non è un problema. Tanto è impossibile vedere tutto e, comunque, non ci perderemo: basterà tener d'occhio il trolley rosa shocking. Il metodo è empirico, ma funziona.
Ci eravamo segnate alcuni incontri con scrittori che ci interessavano, poi, anche in questo caso, ci siamo fatte prendere dall'anarchia e ne abbiamo visti altri che a malapena avevamo sentito nominare. Confesso: ci siamo fermate soltanto quando avevamo bisogno di sederci e li abbiamo ascoltati addentando panini e merendine, ma, alla fine, abbiamo scoperto persone interessanti. C'era il giallista arguto (Malvaldi) rammaricato della mancanza di ironia e leggerezza dei nostri tempi; gli scrittori lombardi (Biondillo e Vitali) e napoletani (De Silva e Starnone) che si confrontavano sui temi dell'identità locale. Parlavano bene con intelligenza, eleganza e una certa modestia, piuttosto rara oggi. E' stato bello ascoltarli così, un po' per caso...
Ci siamo incantate a guardare sconosciuti fumettisti disegnare sconosciuti personaggi (ma i poster di Pratt e le tavole di Cavazzano li ho puntati da lontano ...). Siamo state fermate da un poeta che perorava la sua opera prima, da un venditore di programmi per lavagne interattive alla disperata ricerca di maestre, da un giovanissimo editore che realizza libri a basso costo, a cui faceva gli occhi dolci una attempata scrittrice, e da un altrettanto giovane artista che stampava col torchio immagini liberty.
Siamo rientrate cariche di cataloghi ("Avete visto che il trolley serviva!") e con un acquisto di libri relativamente scarso: da uno a tre a testa; perché, come ha osservato giustamente Simo, quando se ne vedono troppi assieme, subito si vorrebbe prenderli tutti, poi, visto che non si sa quale scegliere, si tende a rinunciare. La verità è che a tutte e tre piace stare tra i libri, ma il nostro sogno resta sempre la botteguccia con gli scaffali di legno e un/una libraio/a simpatico/a con cui chiacchierare: avete presente "C'è posta per te"?
Ah, sì, abbiamo anche arraffato qualche gadget (segnalibri, penne, cartoline ecc.), ma il bottino è stato scarso. Sarà la crisi, che ha imposto agli editori di limitare i regali e di dare le ambite borsine di tela soltanto a chi acquistava minimo due libri? O non sarà piuttosto che ci mancava Dani, maestra assoluta nell'arte del gratuito? Ai posteri l'ardua sentenza!
A noi è rimasta una bella stanchezza, un chilo e mezzo di carta in più, la voglia di tornare l'anno prossimo e, beh, un trolley rosa shocking!