lunedì 22 novembre 2021

Quando mi sale il comunismo (o chi per esso)

Gentaglia lo volete un predicozzo non richiesto per peggiorarvi ulteriormente il lunedì mattina?
Di recente ho visto condividere con entusiasmo su LinkedIn la frase di non so quale economista, che diceva che finché si pagherà chi non lavora e si tasserà chi dà lavoro il mondo andrà a catafascio.
Ora, posto che ci percepisce indebitamente il reddito di cittadinanza o la pensione di invalidità o altre cose simili è un delinquente e che certamente la tassazione sul lavoro e sull'impresa è bel lungi dall'essere giusta (non me ne intendo, ma se tanti imprenditori se ne lamentano, dubito che siano tutti dei maledetti sfruttatori: qualcuno lo farà in buona fede, ecco).
Premesso questo, devo dire che l'affermazione di cui sopra continua a sembrarmi, con rispetto parlando, una colossale boiata. 

Non è vero che non c'è lavoro è che la gente non si adatta!
Sì, ma anche no. Perché certi lavori richiedono una certa prestanza fisica o capacità intellettive che non tutti hanno (mi ci vedete con la mia ernia ad andare a scaricare camion o consegnare pacchi in bicicletta? O con le mie pessime abilità matematiche, a occuparmi di contabilità? No, ecco, e come me ci sono parecchie migliaia di persone che, anche volendo, non potrebbero...).
Perché certi lavori richiedono di spostarsi in un'altra città e non tutti possono. Non perché sono pigri, ma perché, magari, hanno genitori anziani o figli piccoli da gestire, un disabile a carico o cento altre situazioni che rendono molto difficile sradicarsi dal proprio contesto di relazioni familiari e sociali per cominciare una vita ex novo da un'altra parte.
Per non dire del fatto che molti lavori non ti danno uno stipendio sufficiente per pagarti vitto e alloggio in un'altra città e riesci a camparci solo se vivi ancora assieme ai tuoi, o in una casa che i tuoi ti hanno comprato quando ancora era possibile con un lavoro normale mettere da parte dei soldi.

Ehi, puoi sempre fare il pendolare!
Vedi punto 1. Spesso non è questione di pigrizia o scarsa volontà, ma è che proprio ci vuole prestanza fisica e solidità mentale per uscire di casa alle sei e rientrare alle dieci e farsi ore di treno/pullman/autobus/auto/metro ecc. per raggiungere il posto di lavoro, rinunciando di fatto a una vita sociale.
Non è un caso che, dopo aver provato lo smartworking a causa del covid, molti non vogliono più tornare indietro: non sono dei pigri bastardi egoisti: hanno solo scoperto che se puoi lavorare in un modo che ti consente di conciliare meglio i tempi di vita e di lavoro perché non farlo? Perché l'impegno e il sacrificio vanno bene, ma non sempre, non per tutti e solo se e quando ne vale davvero la pena.

Eh, ma non pretenderai mica il posto fisso?!
Ma perché no? Al netto di certi lavori per i quali cambiare è quasi fisiologico, ce ne sono ancora molti altri per cui sarebbe non solo possibile, ma anche auspicabile tornare ad avere una certa stabilità. Perché ci sono competenze che si maturano in anni di esperienza e che nessun corso di formazione iperspecializzato potrà sostituire.
E non mi riferisco solo a lavori di alto livello, ma anche un buon cameriere, un buon commesso impara nel tempo.
E il fatto che ora, entrando in un negozio, si trovino solo giovani sottopagati e scoglionati, perché già sanno che tra sei mesi-un anno verranno cacciati non è che favorisca il piacere dell’acquisto… E non è certo colpa dei giovani, non solo, almeno.

Eh, ma se non trovi lavoro puoi sempre inventartelo!
Ma anche no! Ci sono persone che sono perfetti esecutori e pessimi imprenditori. Ci sono persone che hanno cento talenti e altre che ne hanno uno solo o nessuno. C’è chi si realizza nel lavoro e chi invece lo concepisce solo come un mezzo per guadagnare quel che gli serve per fare altro nel tempo libero. E non c’è nulla di sbagliato in questo.
È ovvio che quasi nessuno troverà il lavoro perfetto, ma il fatto che dopo tanti tentativi molte persone non riescano a trovarne nemmeno uno decente, forse non è solo colpa loro, ma di un sistema assurdo che pretende dalle persone cose che loro, anche volendo, non potranno mai dargli.

Eh, ma è colpa della scuola perché non forma i lavoratori!
Ma grazie al cielo! Lo scopo della scuola è formare cittadini, i quali certo dovranno lavorare, ma dovranno anche fare altro: occuparsi di politica, di volontariato, avere un’idea del mondo in cui si trovano a vivere e di quello che è stato prima di loro, farsi una famiglia e degli amici, viaggiare, andare al cinema o a teatro, o a un museo, avere interessi culturali, hobby ecc. Insomma, essere individui il più possibile preparati ad affrontare ogni aspetto della vita, mica solo il lavoro. Anche perché, diciamolo: possiamo anche cambiare programma scolastico ogni anno, cercando di prevedere quali saranno le competenze più richieste nel mondo del lavoro da qui a cinque-dieci anni, quando i ragazzi termineranno il loro percorso di studi; ma ormai lo sanno pure i sassi che persino i migliori economisti fanno fatica a prevedere come andrà l’economia l’anno prossimo, figuratevi immaginare il futuro!
Piuttosto che inseguire le tendenze, non sarebbe meglio fornire basi solide, uguali per tutti, da cui partire per costruire un percorso che sarà per forza di cose imprevedibile e peculiare per ciascuno?
Senza contare che non tutti hanno le stesse capacità e che i tipi di intelligenza sono diversissimi. E che si può consigliare a un ragazzo/una ragazza un percorso di studi che - secondo noi, in questo momento, potrebbe essergli più utile per il suo futuro, ma non c’è niente di peggio che obbligare qualcuno/a a studiare informatica o cinese se a lui/lei piacciono, che so, la fisica teorica e il tedesco.

E vogliamo aprire l’enorme parentesi del lavoro per le donne (“Ma lei ha intenzione di fare figli?” “Firmi un po’ queste dimissioni in bianco…”) o per chi non è più giovane, o rientra in qualche categoria protetta?
Quindi, con l’attuale sistema di lavoro che ci vuole tutti sani, tutti giovani e senza alcun legame famigliare è ovvio che servano degli strumenti per evitare che chi a queste condizioni non può lavorare muoia di fame.

Perciò, prima di venirmi a parlare di poveri imprenditori e lavoratori fannulloni, fate in modo che ci sia lavoro per tutti, donne vecchi, disabili, persone con limitate capacità cognitive e persone brillanti; che ci sia lavoro nelle grandi città e nei paesini sperduti della provincia e che sia lavoro pagato il giusto e il più possibile stabile, per permettere alle persone di avere un minimo di speranze per il futuro e di fare progetti.
Poi, se volete, ne riparliamo.

martedì 16 novembre 2021

In prospettiva

Quando è stato introdotto il vaccino contro l'influenza io ero ancora piuttosto giovane, ma ho cominciato a farlo quasi ogni anno perché, pur non avendo particolari patologie, sono sempre stata soggetta a malanni di stagione e, soprattutto, vivevo ancora con i miei genitori anziani, di cui una gravemente malata.
 

Nei molti anni in cui l'ho fatto, ho visto ridursi sensibilmente il numero e la frequenza delle influenze. Il che non significa, beninteso, che io non mi sia mai ammalata e che in un paio di occasioni io non sia stata anche parecchio male, ma in un paio di occasioni, appunto, non ogni inverno e più volte in un inverno, come accadeva prima.
E pur avendo fatto il vaccino, non è che andassi a sternutire e tossire in faccia al prossimo, anzi, ai primi sintomi di raffreddore e mal di gola, salvo casi di urgenza e necessità, mi rintanavo nella mia cameretta, rinunciavo a uscire con le amiche e me ne stavo a casa dall'università o dal lavoro, mi lavavo più spesso le mani e cercavo di stare il più possibile distante dalle altre persone, perfettamente consapevole di avere una responsabilità nei confronti degli altri.
E se anche da noi, come in alcuni paesi orientali, fosse già stata diffusa l'abitudine di andare in giro con una mascherina per evitare di spargere microbi a destra e a manca sull'autobus, a scuola, in ufficio o al cinema, lo avrei fatto senza alcun problema.
 

Non c'è nulla di strano o di eroico in questo: si tratta solo di educazione, buonsenso, rispetto degli altri. Cose che a tutti dovrebbero aver insegnato da bambini a scuola o in famiglia. Tutto qui.
Spiegatemi perché non dovrei farlo ora?
Spiegatemi in che modo fare questo è un attentato alla mia libertà e a quella altrui.
 

E, no, vi prego, non subissatemi di articoli in cui si fanno notare le contraddizioni nella legislazione, i dubbi sulla trasparenza e i sospetti che qualcuno si stia arricchendo alle spalle degli altri. Perché queste cose le vedo anch'io e posso, in piccola parte, pure condividerle.
 

La mia domanda è molto più semplice e priva di dietrologie: se mi vengono date delle regole e degli strumenti (non perfetti, d'accordo) per far stare meglio me stessa e gli altri perché non dovrei seguirle/utilizzarli?
 

E no, non venitemi a parlare di “siero sperimentale” perché un vaccino non è un siero (e questo ormai dovrebbero saperlo pure i muri) e qualunque medicina mai ideata sulla faccia della terra è comunque un “male minore” non privo di effetti collaterali a breve o lungo termine.
Buon Dio! Sono figlia di una generazione che si è bevuta litri di Bactrim prima che lo ritirassero dal commercio! Proprio per questo sono consapevole che le conseguenze - nel bene e nel male - delle scelte fatte oggi le potremo sapere solo tra molti anni e forse non tutte.

E anche questo è capitato e sempre capiterà per qualunque fatto storico di una certa portata come quello che stiamo senza dubbio vivendo: chi ci è immerso fino al collo, inevitabilmente, non capisce perché gli manca una visione d’insieme, perché è travolto dall’emotività, perché conosce e giudica un evento globale in base a ciò che vede e tocca con mano o in base alle notizie che circolano nella sua bolla mediatica, la quale - e anche questo ormai dovrebbe essere chiaro - non è mai obiettiva.
 

Non sapere tutto, avere una visione parziale degli eventi, però, non significa non poter fare una scelta.
Anche questo è già successo e sempre succederà.
Io ho scelto la cautela e responsabilità. Altri la ribellione e la negazione.
Vedremo in futuro - se sopravvivremo - chi avrà avuto ragione.

venerdì 24 settembre 2021

Periodo ipotetico della libertà

 


Qualche giorno fa un cliente mi ha chiesto di pubblicare un avviso sul suo sito e sulla pagina Facebook, nel quale invitava le persone a NON fare una determinata cosa e ne spiegava il motivo.

Prima di pubblicare suddetto avviso, l'ha fatto anche leggere a un paio di esperti perché fosse chiaro, e mi ha fatto correggere una frase che poteva suonare ambigua. L'ho corretta e ho pubblicato.

Su Facebook diverse persone hanno commentato l'avviso dicendo:

- Perché anziché un avviso non avete fatto un divieto? Se non vietate la cosa, non potrete impedire alle persone di farla ugualmente.

- Il testo è ambiguo: le persone non lo capiranno o lo interpreteranno a modo loro.

Entrambi i commenti, dopotutto, erano sensati e posti in tono costruttivo più che agressivo, quindi va bene così.

Però li ho trovati particolarmente significativi per due ragioni:

- Il cliente mi aveva chiesto esplicitamente di scrivere un consiglio e non un ordine, per stimolare il senso di responsabilità delle persone e invitarle a comportarsi bene ed essere ragionevoli, senza bisogno di imporre divieti e minacciare sanzioni. L'intenzione, secondo me, era lodevole; ma evidentemente molti pensano che un invito non basti più e che il buonsenso e il senso civico siano andati bellamente a farsi benedire e, onestamente, visto quanto è successo e sta succedendo in questo tempo di pandemia, mi verrebbe da essere d'accordo con loro. Però è davvero scoraggiante pensare di vivere in una società in cui tutti strepitiamo se qualcuno ci toglie un pezzettino di libertà in nome del bene comune, ma nessuno è disposto a rinunciare a nulla per gli altri se non gli viene implicitamente imposto dall'alto, salvo poi lamentarsi dell'imposizione... e così via, in loop.

- La frase era, in effetti, un pochino complessa, ma non incomprensibile: esprimeva una eventualità futura con la formula "Sta per succedere questo, quindi potrebbe accadere che". Né a me né al cliente era apparsa strana, ma molti lettori hanno intepretato l'eventualità come una certezza nel presente: "Non è vero! Non sta succedendo quello che dite! Perché raccontate balle?". Il che è piuttosto triste perché dimostra, ancora una volta, quanto si sia persa la capacità di interpretare le sfumature del linguaggio, che sono spesso anche sfumature del pensiero.

E alla fine tutto torna: perché è chiaro che se hai bisogno di un divieto esplicito per non fare una cosa che pure sai che potrebbe danneggiare te e gli altri, vuol dire che sei anche poco avvezzo a muoverti nel campo delle possibilità e delle loro conseguenze, che si esprimono tramite quelle cose contorte e bellissime che sono i periodi ipotetici. E che siamo tutti bravi a riempirci la bocca di futuro, ma non riusciamo più a immaginarlo.

domenica 6 giugno 2021

L'onda che non affrontai

Per chissà quale remota ispirazione, ho fatto il cambio di stagione riascoltando, dopo molto tempo, il cd di Notre Dame de Paris, che vidi dal vivo quando uscì, nei primi anni 2000, e che ho molto amato. Se mi prendete in buona posso ancora cantarvene dei brani piuttosto lunghi a memoria, ma non vi conviene: che ultimamente anche quel poco di voce che avevo sta andando per sprelle... 

Comunque, mentre ripegavo maglioni e riesumavo magliette, ho pensato che in quel musical io sono sempre stata Quasimodo, non Esmeralda. Al limite Gringoire o Clopin, in rari momenti persino Frollo (credo che "L'onda che non affrontai" sia una delle più potenti e, nel mio caso, condivisibili, definizioni della passione amorosa che io abbia mai letto o ascoltato); ma non certo la protagonista, che pure in questa versione dell'opera è meno scema di quella del libro (che avrei preso volentieri a testate!).

Mi era difficile già vent'anni fa immedesimarmi in una donna bellissima, capace di attrarre a sé tutti gli sguardi e animata dal desiderio di amare ed essere amata, figuratevi quanto sia poco probabile che ci riesca ora, che sono ancora meno bella, desiderabile (e desiderante) di quanto non fossi allora.

Mentre il gobbo brutto e sfigato che coltiva un amore impossibile, il mediocre poeta animato da altri ideali e meno alti istinti, il saltimbanco ribelle e l'integerrimo moralista turbato dalla sensualità del reale, beh quelli posso ancora capirli benissimo.

Per fortuna la mia ernia mi impedisce di arrampicarmi su un campanile a caso a sfogare la mia disperazione suonando campane. Potrei invece, senza grossi problemi, mettermi a conversare con un gargoyle, ma quelli parlavano nel cartone animato della Disney, non nel musical, e nel cartone, come da tradizione, erano tutti simpatici, anche la capra. 

Buonanotte, e sogni rindondanti. 

lunedì 15 febbraio 2021

Il re del presente

Non si nomina il passato. È peccato pressoché mortale affermare che dieci anni fa - forse anche cinque - si facessero (non solo, ma anche) cose più belle: già quelle dell’anno scorso non hanno più significato.
Solo il nuovo importa, che sia migliore o peggiore non conta. Bisogna andare sempre e solo avanti.

Non si dice mai a un cliente che si è data la priorità a un altro cliente, anche se è vero. Anche se la priorità è dettata non da qualche privilegio soggettivo, ma da puri motivi tecnici e pratici. Perché bisogna fingere che ogni cliente sia unico e che noi siamo sempre e solo a sua disposizione: come se fosse un bambino egoista e capriccioso, non una persona adulta che sa bene che nell’organizzazione del suo come dei lavori degli altri è inevitabile porsi delle priorità, avere delle scadenze, dover risolvere rapidamente imprevisti; e possa sentirsi abbandonato, anziché rassicurato, dal fatto che un suo fornitore si comporti esattamente come lui.

Non si parla mai di soldi. Non si può mai dire che ad un prezzo minore corrisponde un servizio più scadente. Bisogna inventarsi giri di parole, perigliose arrampicate sugli specchi, per dire che sì, in effetti, il budget è un po’ risicato però faremo il possibile e la qualità non ne risentirà quasi, forse, più o meno…
Tanto poi ci sarà sempre il coglione che sforerà le ore previste per non consegnare al cliente una ciofeca, e pazienza se non rientra nei costi, perché c’è una dignità da mantenere in qualunque professione. Perché lo sai che quella cosa l’hai fatta tu e ti dispiace se fa schifo, anche se il cliente non avrebbe diritto ad altro che a quello schifo. Lui sì, forse, ma tu no. E nemmeno chi ne dovrà fruire: loro non se lo meritano.

Ma, soprattutto, non si parla del passato.
Il passato è l’inutile e l’innominabile, più degli altri clienti, più dei soldi.
Perché il passato ci rivela che il re del presente è nudo.
E che anche il re del futuro va perdendo consistenza.