lunedì 29 aprile 2013

Là dove lo "gnocco fritto" suona

Come fare ad accorgersi che si sono varcati i confini della provincia di Parma per inoltrarsi in quelli di Reggio Emilia o Piacenza?
Semplice: basta leggere i menu delle trattorie: se ti propongono gnocco fritto anziché torta fritta hai fatto il salto. Per il resto, per le strade basse di campagna, attraversando paesi e periferie, si respira la stessa aria di pianura agricolo-industriale e ci si perde più o meno per le stesse rotatorie, fiancheggiate da campi d'un verde luminoso, in una rara giornata di sole di questa primavera avara.
Piacenza è bella, la mattina del 25 aprile, sotto un cielo turchese, con piazza Cavalli colta nel pieno delle celebrazioni. Ho in mano una guida rossa del Touring, recuperata fortunosamente in cantina prima di mettermi in viaggio. Un carabiniere in servizio ci si avvicina e attacca bottone. Evidentemente abbiamo scritto in fronte "Turiste". Chiede se per caso stiamo cercando la chiesa di San Sisto, che nessuno trova. Confessiamo candide di ignorarne l'esistenza e che, in realtà, stiamo cercando la galleria d'arte moderna, ma, già che ci siamo, ci facciamo spiegare entrambe le strade (dimenticandocele cento metri dopo, ma questa è un'altra faccenda...).
Evitiamo di dirgli che anche della (bellissima) Galleria Ricci Oddi, che ci si rivela luminosa di meraviglie italiane e straniere dalla fine dell'Ottocento alla metà del Novecento, abbiamo appreso l'esistenza meno di tre ore prima, cercando su internet "Piacenza-mostre" e scoprendo che, quella mattina l'entrata era gratuita; ma i viaggi migliori, ormai lo sappiamo, funzionano così: sono loro che fanno te, non viceversa, come direbbe il solito Rumiz.
Dani ritrova con gioia e sorpresa persino un Carl Larsson, a me ignoto, ricordo delle sue scorribande nordiche; io ritrovo con commozione un'intera parete di tele di Amedeo Bocchi.
Dopo pranzo torniamo verso la macchina e scopriamo che l'enorme edificio accanto al quale l'abbiamo parcheggiata è nientemeno che Palazzo Farnese. Somiglia alla nostra Pilotta e, in effetti, anche quello è zeppo di musei. Tempo per visitarli non ce n'è, ma ci infiliamo ugualmente in un paio di sale alle cui pareti si racconta la storia della Madonna Sistina di Raffaello (ora a Dresda), quello con i celeberrimi angioletti, e scopriamo - con vergogna - di non avere mai saputo, noi, "cugine parmigiane", che era stato dipinto per una chiesa di Piacenza, ovviamente proprio quella San Sisto che ci aveva nominato il carabiniere la mattina. Ormai non possiamo sottrarci: quella chiesa va vista!
La troviamo percorrendo borghetti semideserti nella controra festiva, ed effettivamente meritava una visita. Poi puntiamo verso gli Appennini. Azzecchiamo dopo minimi, direi fisiologici, smarrimenti, la Valtrebbia e costeggiamo il fiume verde-grigio e impetuoso su fino a Bobbio: la troviamo colma di motociclisti, camperisti e famigliole in gita che fan su e giù sul Ponte Gobbo e per le vie del centro. Anche qui ci perdiamo per borghetti ancora più stretti alla ricerca di una chiesa. La chiesa! L'abbazia di San Colombano che, in realtà, ci delude un po': i secoli e rimaneggiamenti l'hanno resa un po' estranea a se stessa, ma nella cripta, al cospetto della tomba del monaco irlandese che fondò monasteri in Francia e in Italia, pensiamo che il Medioevo non era poi così buio e l'Europa, forse, un concetto meno astratto di quanto sia ora.
Scendiamo dai monti maledicendo le buche (e la scarsa ammortizzazione della mia auto) e ci immettiamo di nuovo sulla via Emilia, ancora perfettamente orientata est-ovest, tanto che il sole ormai basso ci occhieggia dallo specchietto retrovisore.
E anche questo 25 aprile la nostra gitina ce la siamo fatta, nonostante tutto...

lunedì 22 aprile 2013

Le nonne della domenica

Nella cucina-ingresso-salotto di un bilocale, attorno a un minuscolo tavolino quadrato coperto di plastica rossa siedono, una per lato, quattro donne, tre delle quali hanno superato i 90.
C'è la padrona di casa, mite e bianca, ex infermiera, che non si lamenta quasi mai dei suoi acciacchi e tenta di consolare le altre dei loro; l'unica cosa che la rattrista - oltre ai guai delle persone care - è la memoria che va e viene nei momenti meno opportuni. Si dichiara sinceramente stanca di una vita così lunga e aspetta tranquillamente la fine, senza rancori.
C'è la vicina peruviana, dritta, asciutta, sempre elegante, pelle olivasta, capelli tinti; è rimasta vedova giovane e ha fatto mille mestieri per crescere i suoi quattro figli che, uno alla volta, sono venuti in Italia. Ora che c'è venuta anche lei se la coccolano a turno, spartendosela con i molti nipoti. Sta bene qui perché ha un nome che testimonia lontane origini italiane e, anche se così non fosse, si troverebbe bene ovunque pur di stare assieme ai suoi cari.
Poi c'è l'altra vicina, brontolona indomabile, sempre un po' male in arnese, che non ama stare in casa ma ancor più detesta se qualche parente tenta di portarla fuori; quando non fa troppo freddo s'aggira caracollando in cortile (ogni tanto cade e un passante gentile la raccatta) e si di verte a raccogliere oggetti ancora buoni che altri scartano, non per miseria, benché non viva nel lusso, ma per dispiacere: perché la mamma le ha insegnato che non bisogna buttare niente. A volte racconta della sua prima comunione, celebrata in Duomo negli anni '30: dei calzettoni gialli e degli scarponi che le aveva fatto indossare sua madre e della padrona di casa impietosita che la rivestì da capo a piedi per non farle fare brutta figura. Lo racconta in un misto di italiano e dialetto e la peruviana le risponde in fretta in un misto di italiano e spagnolo; mentre la padrona di casa - sorda come una campana - scuote la testa, esclamando dispiaciuta che non c'ha capito nulla.
Nel mezzo di questa scena, io, seduta sulla quarta sedia, con i miei 35 compiuti da poco, abbasso la media d'età, tengo d'occhio il gatto bianco e rosso che mi fruga irriverente nella borsa e tento di fare l'interprete, sintetizzando all'una quel che ha detto l'altra, a voce sufficientemente alta per farmi sentire dalla terza (e da mezzo condominio).
A questo già notevole terzetto va aggiunta la signora del piano di sopra, coeatenea e decisamente più stordita, che mi guarda le mani in cerca di un anello che non c'è e mi chiede se, dall'ultima volta che ci siamo viste - sette giorni prima - per caso mi sono sposata; mi augura buona Pasqua a Natale e viceversa e mi domanda come sta il parroco tre volte nel giro di cinque minuti. E io per tre volte le rispondo, con piccole variazioni sul tema, intercettando l'occhiata sorridente ed esasperata della badante.
Devo ammettere che con tutte loro mi diverto parecchio. Sono le "nonne della domenica", in mancanza delle mie, morte quando avevo una 7 e l'altra 12 anni. Ci conosciamo da qualche anno ormai, ma siamo poco più che estranee, eppure, non faccio fatica a capirle.
Capisco le loro lamentele, le loro piccole manie e abitudini, persino i loro acciacchi, anche perché, spesso, sono simili ai miei.
Anch'io, infatti, non sto mai perfettamente bene, sono decisamente brontolona e quanto a manie, beh, ne possiedo una discreta collezione; ma c'è di peggio: anch'io ho una pessima menoria, anch'io a volte son stordita, tanto che due giorni fa ho chiesto a Costi quanto le dovevo per il regalo di Chiara e lei mi ha guardato allibita e mi ha fatto notare che il regalo a Chiara, in realtà, l'avevo pagato io ed era lei a dovermi la sua quota...
Anch'io preferisco parlare del passato che immaginare il futuro; anch'io detesto vedere buttar via le cose e, quel che è peggio, anch'io condivido, a volte, la loro stessa stanchezza, che non è solo fisica ma, in qualche modo, passatemi il termine, esistenziale. Per questo sono molto affezionata a loro, anche se ci vediamo per soli 20 minuti ogni domenica.
A questo punto mi sorge un dubbio: anch'io, in realtà, ho 90 anni. Dentro.
E non è un pensiero rassicurante...
Saluti canuti.

lunedì 15 aprile 2013

Auguri bucolici

A tutte le ciose che hanno compiuto gli anni tra marzo e aprile (ovvero 5 su 9!), dedico questa foto di "galline prataiole", grassocce, felici e moderatamente diffidenti, a passeggio - beate loro - in un prato verdissimo e poco intenzionate a farsi immortalare.
Buona primavera!

lunedì 8 aprile 2013

Discrepanze

"Chiunque può scrivere un racconto - un cattivo racconto; voglio dire, chiunque abbia sufficiente diligenza, carta e tempo; ma non tutti possono sperare di scrivere un romanzo, anche cattivo. È la lunghezza che uccide." (R. L. Stevenson, L'arte della scrittura)

Per ragioni che non sto qua a dirvi (ho un minimo di dignità da difendere!), ho da poco scoperto che esiste un "genere letterario", se così si può definire, chiamato "fanfiction".
Trattasi, in breve, di riprendere i personaggi di un libro, di un film, di un cartone animato, di un videogioco e costruire con loro nuove storie, immaginando prequel, sequel, missing moments e persino crossovers, ovvero "incroci" più o meno improbabili con personaggi di altre serie, film o libri o, insomma, ci siamo capiti...
In realtà, la cosa non mi ha stupito. E' un gioco che io e le mie compagne di classe eravamo abituate a fare fin dalla più tenera età e risponde a un desiderio che si ha fin da quando cominciano a raccontarci le favole: sapere cosa succede dopo la parola "fine" e, se nessuno ce lo dice, provare a immaginarcelo.
Chiaramente, era uno dei miei giochi preferiti.
Una delle ultime volte che l'ho praticato ero alle medie e c'inventammo la sezione femminile dei "Cavalieri dello Zodiaco".
Va bene, ora smettete di ridere e abbiate la pazienza di seguirmi nel mio strampalato ragionamento.
Allora la cosa si portava avanti dal vivo, raccontandoci a turno pezzi di storia, o, al massimo, scrivendola su bigliettini che giravano loscamente di banco in banco. Ora si usa internet, ma le regole del gioco, a occhio, non sono tanto diverse: anche in questo caso, a quanto ho capito, si crea una comunità di persone appassionate dello stesso libro, film ecc., che si scambiano pareri e recensioni e, a volte, scrivono nuove puntate, o capitoli, a due, tre, quattro mani...
Il valore di quel (poco?) che ho letto è parecchio discontinuo: c'è gente che sa il fatto suo e costruisce storie ben scritte, mantenendo coerenza e verosimiglianza con i personaggi e le ambientazioni di partenza; e c'è chi spara congiuntivi a caso e s'inventa le vicende più inverosimili.
Curiosamente, ho l'impressione che gli autori di fanfiction siano per lo più "autrici": ragazze e giovani donne tra le superiori e l'università.
In effetti, anche nei miei ricordi d'infanzia il gioco era più in voga tra le bambine che tra i maschietti, che pure si divertivano a impersonare l'eroe di turno, ma in forme in genere più caciarone e meno strutturate.
Ovviamente, tra i temi affrontati trionfa l'amore: si approfondiscono le storie che nell'opera a cui ci si ispira sono, magari, appena accennate; si fanno finir bene quelle che nell'originale bene non finivano; si "gioca" con molta libertà con le coppie creandone di nuove e imbastendo a volte anche strani triangoli (troppe telenovelas?).
Allora mi sorge uno dei miei dubbi balzani: non è che le donne sono più abituate a raccontarsi storie perché la vita addossa loro più limiti e più responsabilità e le storie sono, dopotutto, un metodo di fuga dalla realtà rapido, economico e indolore?
E non è che queste storie che si raccontano (ci raccontiamo) sono per lo più storie d'amore perché, soprattutto in questo campo, partiamo con aspettative troppo alte che vengono puntualmente deluse?
Insomma: prima ci crescono a supereroi e principi azzurri... poi ci dicono (o ce ne accorgiamo da sole, dolorosamente): "mi spiace, non ce ne sono più, sono rimasti solo i buzzurri!"
Ok, ok, questa è un po' eccessiva, ma suonava bene. Scusatemi (soprattutto gli eventuali uomini all'ascolto)!
Comunque sia credo che sogno e realtà, in qualche modo, siano molto più distanti per noi che per i nostri amici e compagni e, per questo, noi perdiamo molto tempo e molte forze a tentare di farli coincidere, o per lo meno ad avvicinarli, perché dopotutto, facciamo fatica a rinunciare ai sogni.
O, forse, siamo semplicemente più logorroiche?!
Chissà...
Se a questo punto vi state chiedendo se c'ho provato anch'io a scrivere fanfiction, tranquillizzatevi: non l'ho fatto. Immagino sia parecchio divertente, ma non ho tempo e credo di non essere mai stata in grado di portare avanti decentemente storie complesse, anche se mi piacerebbe tanto.
E poi, come mi ha ricordato via FB un amico che non vedo da tempo e ho scoperto sta scrivendo un fantasy: "Noi siamo responsabili dei nostri personaggi".
E io ne ho già una manciata, inventati più meno nello stesso periodo in cui mi fingevo una cavalieressa stellare, che ho lasciato in un mare di guai dai quali non ho più la forza di tirarli fuori. E me ne dispiace.
Dovessi rimettermi a scrivere storie, avrei quantomeno il dovere di ricominciare da loro...

mercoledì 3 aprile 2013

Macchine immaginarie e città ideali

Lo sapete, vero, che Leonardo da Vinci era mancino ed è nato in aprile?
Va bene, il primo particolare tira palesemente acqua al mio mulino, ma il secondo può riempire d'orgoglio almeno tre ciose, una delle quali, quest'anno, ha azzeccato un'invidiabile tripletta: pasquetta, compleanno e pesce d'aprile in un solo giorno. Vero, Moki?
Per celebrare l'evento ha optato per un giretto a Milano in pennuta compagnia.
Le previsioni tendevano al diluvio universale, ma, come ormai sapete, Milano ci vuole un po' di bene - e noi a lei - e le due gocce che ci siam prese erano il minimo che potevamo aspettarci. Così abbiamo passeggiato un po' per il centro, sfiorando il Quadrilatero della moda e buttando occhiate perplesse alle vetrine di arredamento e abiti di design, chiedendoci come diavolo ci si possa sedere su sedie ergonomiche quanto un puntaspilli e facendo scommesse sul numero di vesciche che possono venirti indossando ballerine fluo di pura plastica.
Costi, che appena scesa dal treno ha cominciato a pensare a dove si poteva andare a pranzo, ha trovato una nutrita - anzi, affamata - schiera di sostenitrici; però, dopo la pausa ristoratrice, e visto che il tempo, sorprendentemente, reggeva, è stata costretta a un'altra passeggiatina digestiva e anti-senso di colpa fino al Castello Sforzesco, attorno al quale alberi ancora invernali facevano ombra a timide violette.
Poi eccoci nella Galleria gremita di turisti che fotografavano, per par condicio, sia i mosaici del pavimento che le ardite coperture del soffitto (ok, l'ho fatto anch'io, come vedete...). La nostra meta era la mostra delle macchine di Leonardo, ricostruite in legno e corredate di copie dei manoscritti da cui sono state tratte e di percorsi esplicativi multimediali e interattivi.
A parte il fatto che ci siam trovate a litigarci l'uso dei touch screen con bimbetti d'età prescolare assai più abili di noi, tutte quante siamo rimaste molto colpite dal fatto che più della metà delle opere esposte non avevano, di fatto, alcuna utilità pratica: Leonardo le ha descritte nei dettagli, ma, molto probabilmente, aveva ben chiara l'idea che non avrebbero mai funzionato, almeno non nella sua epoca, con i materiali e le conoscenze che aveva a disposizione. Dunque non sono altro che studi teorici, esercizi di stile e di intelligenza? E' possibile, e già così avrebbero comunque un loro valore; ma forse no. Mi piace pensare che Leonardo sapesse e sperasse che, prima o poi, le sue intuizioni sarebbero state realizzate con altri mezzi e altri materiali. Mi piace credere che avesse - a differenza di tanti politici e ricercatori di oggi - uno sguardo più libero, ampio e lungimirante, benché vivesse in un mondo molto meno interconnesso del nostro. Queste invenzioni impossibili sono state il suo mezzo per mettere un piede nel futuro in modo creativo e propositivo, dicendo alle generazioni che sarebbero venute dopo di lui: "Guardate un po': io sono arrivato fin qui. Ora tocca a voi!" E il fatto che abbia progettato una città ideale basata su una viabilità perfettamente organizzata e con l'acqua corrente nelle case dà la misura di quanto fosse "avanti".
Fra, la nostra scienziata, si è cimentata con successo nella costruzione del ponte autoportante, mentre alla cinefila Dani è venuto in mente il Leonardo di "Non ci resta che piangere" che, frastornato dai racconti dei protagonisti giunti dal futuro, alla fine inventa il treno a vapore.
Prima di rientrare, abbiamo fatto il solito giro beneaugurante attorno e dentro il Duomo, sovrastato da un cielo grigio, ma sempre fascinoso.
Dopotutto un bel modo per festeggiare il compleanno, no?
A proposito... e a me dove mi portate?!
Se continuo a stare come sto, propongo la più vicina discarica!
Ma questa è un'altra storia...