venerdì 20 novembre 2020

Les jeux sont faits

Sto facendo le bozze a un corso online sulla sicurezza sul lavoro. E ne ho concluso quanto segue.

1. Se le stesse cose presentate nel corso con ricco corredo di simpatiche animazioni - che, in teoria, dovrebbero servire a tener desta l'attenzione ma, in realtà, fanno solo venire voglia di mandare avanti veloce (peccato che il sistema lo impedisca) - le avessero semplicementre SCRITTE, con i loro bravi titoli, sottotitoli, qualche elenco puntato e qualche immagine, sarebbero state altrettanto chiare e molto più veloci da imparare.
Senza contare la possibilità, utilizzando un supporto cartaceo, di sottolineare, prendere appunti ecc.

2. La sicurezza sul lavoro, in sè una cosa egregia e necessaria, sta raggiungendo livelli di complessità assolutamente surreali: in pratica, chiunque di noi, se applicasse le norme alla lettera, non potrebbe fare il proprio mestiere.

L'impressione che ricavo sia dalla forma in cui è "somministrato" il corso, sia dal suo specifico contenuto, dunque, è la stessa: da anni i mezzi di informazione e di comunicazione ci trattano come se fossimo tutti dei bambini pigri e capricciosi, incapaci di stare attenti per più di due minuti e privi di buon senso: individui da stupire e blandire, da convincere e irretire, piu che soggetti a cui spiegare e con cui dialogare.

E mi verrebbe da dire - anche alla luce delle cronache recenti - che forse non hanno tutti i torti: perché le folle di negazionisti del covid e di seguaci del felpato di turno certo mettono in dubbio l'intelligenza e la capacità critica di molti. 

Però sarebbe troppo facile e anche autoassolutorio risolverla così: ci sono tanti scemi al mondo ed io, quindi, se voglio insegnare loro qualcosa o obbligarli a rispettare una norma, mi devo adattare al loro livello.

Mi chiedo, invece, se, al contrario, questo continuo gioco al ribasso, questa semplificazione estrema dell'apprendimento e dell'informazione, che devono essere sempre proposti come una cosa facile e divertente, non siano una delle cause e non una conseguenza di questa situazione. 

Questo post è il festival delle subordinate!
Ecco, immagino che proprio la sua forma contenga in sè la mia risposta alla domanda di cui sopra; ma nel caso non fosse sufficientemente chiara, posso fare io pure uno sforzo di semplificazione: la gamification, nonostante i suoi nobili intenti, è una ca*ata pazzesca!

lunedì 7 settembre 2020

L'instagrammer di Voghera

Leggo i commenti indignati di chi, giustamente, si scaglia contro l’ignoranza esibita alla manifestazione dei negazionisti: persone che qualcuno chiamerebbe capre, se quel qualcuno non fosse, ahimè, d’accordo con loro…
Io mi chiedo, però, da dove venga tutta questa ignoranza e se sia corretto liquidarla semplicemente come tale.

Si presume, infatti, che queste persone abbiano assolto l’obbligo scolastico e sappiano leggere e scrivere. Quindi, forse, dietro questa ignoranza c’è una responsabilità della scuola, che ha abdicato da tempo alla sua funzione di formare cittadini e mira piuttosto a formare giovani lavoratori, con qualche sapere tecnico-pratico in più e molte capacità logico-critiche in meno.

Si presume che queste persone, sapendo leggere e scrivere e possedendo di certo uno smartphone e un televisore e forse anche un computer, abbiano accesso a varie fonti di informazione. E penso, quindi, all’enorme responsabilità delle testate giornalistiche più importanti, che ospitano pubblicità ingannevoli e clickbaiting sui loro siti; che non verificano le fonti e non correggono le bozze, infarcendo i loro pezzi di errori di forma e contenuto, e rendendoli, di fatto, indistinguibili per un lettore medio da ciò che si trova nei siti di bufale, nati e costruiti per essere tali.

Si presume che queste persone abbiano un medico di famiglia, che magari li visita per telefono, li tratta con sufficienza e dà loro risposte evasive, spingendoli, senza rendersene conto, tra le braccia del primo pseudoscienziato che promette loro salute a caro prezzo.

Si presume che abbiano avuto a che fare con vari tipi di funzionari pubblici, ottenendo attese infinite, risposte non chiare, una burocrazia farraginosa che, nata per garantire correttezza di procedure e rispetto delle leggi, finisce invece per respingerli ed essere percepita come inutile e ostile. Stessa cosa potrebbe dirsi della politica tradizionale…

Quindi, prima di deprecare l’ignoranza altrui, farei un bell’esame di coscienza e mi chiederei: cosa ho fatto per fomentarla? Cosa ho fatto per arginarla?
Perché persino io, nel mio piccolo, ogni volta che per disattenzione, fretta, abitudine trasmetto un messaggio trasudante luoghi comuni e stereotipi e contenente scorrettezze di forma o contenuto, contribuisco ad abbassare il livello generale della comunicazione tra individui e a far sì che sempre più persone, le quali fino a qualche anno fa avrebbero avuto strumenti sufficienti per affrontare il mondo, oggi non riescano più a comprendere la differenza tra un giornalista e un imbonitore, un politico e un capopopolo, un medico e un santone.

L’ignoranza non è un blocco di granito da scalfire, ma una palude in cui tutti possiamo sprofondare piano piano senza accorgercene anche con una laurea in tasca.
Pensiamoci, prima di puntare il dito contro il prossimo e di sentirci tanto al di sopra di quella che un tempo era la proverbiale casalinga di Voghera ed oggi è diventata l’instagrammer di Mondello.

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La pandemia mi ispira lo sproloquio. Anche per questo, oltreché per molte e ben più drammatiche ragioni, auguratevi e auguriamoci che finisca!

martedì 18 agosto 2020

L'eroina (no, non quella)

Leggevo poco fa un racconto di Pavese nel quale (tanto per cambiare) una donna spegne con la sua "carnalità" i desideri metafisici dell'uomo (che poi, nella realtà, spesso accada il contrario potrebbe essere oggetto di lunghe - e polemiche - discussioni). E ho realizzato, con un certo dispiacere, che qualcosa di simile accade anche in Inviti superflui di Buzzati: racconto che amo profondamente e di cui posso citare le prime righe a memoria (è molto probabile che anche qui io le abbia già citate). 

Il problema è che, quando lessi il racconto la prima volta (e le successive), non mi sfiorò nemmeno l'idea che, in quanto donna, io avessi motivo di identificarmi con la scostante coprotagonista della storia. Io ero, ovviamente, lo scrittore, che immagina mondi di fiaba oltre i vetri appannati delle case. 

Io ero, fin dai tempi in cui mi si leggevano le favole, l'eroe, non la strega cattiva, né la principessa da salvare. E che l'eroe fosse, nove volte su dieci, un maschio, era una cosa che mi preoccupava molto poco. 

Adesso, che ho un'altra età e un'altra consapevolezza e che anche attorno a me si respira (per fortuna) un'altra aria, questa rappresentazione spesso negativa e quasi sempre stereotipata della donna mi appare in una luce più chiara e molto più fastidiosa. Come mi appaiono fastidiosi i versi di certe canzoni di Tozzi che da bambina cantavo a squarciagola: tu puoi pure camminare, ma non dare per scontato che io ti segua; e se mi abbracci mentre stiro, non è detto che non ti ritrovi una bella scottatura triangolare sulla fronte; e, soprattutto, scoiattolo impaurito lo vai a dire a qualcun altro, echeccavolo! 

Ma anche in quel caso, beninteso, io ero il cantante, non la sua innamorata ingenua, passiva, paziente e magari pure cornuta.

Ero Bastiano, non l'algida Imperatrice e nemmeno Donna Aiuola, tanto materna da essere inquietante. Ero Frodo, non Arwen (e nemmeno Aragorn: fin troppo figo per i miei standard)...

Di contro, non sono mai stata Rossella, né Emma, né Anna (a pagina quindici già facevo il tifo per il treno); no, non sono mai stata nemmeno le donne della Austen, perché, pur comprendendo e apprezzando la loro ironia, sensibilità, intelligenza, già da adolescente facevo una dannata fatica a immedesimarmi in una vita fatta quasi solo di balli, mondanità e attesa di un amore decente, figuriamoci ora!

E quindi? E quindi sarei curiosa di sapere a quante altre donne è capitato e capita tuttora di riconoscersi nei personaggi maschili dei romanzi e dei racconti (e dei film e dei fumetti e delle canzoni...) e se e come e quanto questo le ha turbate o le turba. E sarei curiosa di sapere a quanti maschi, invece, è capitato di identificarsi in personaggi femminili e se questo ha provocato loro qualche turbamento.

Immagino che il primo caso sia più frequente del secondo, perché per secoli - e ancora oggi - le parti migliori (più varie, dinamiche, divertenti, avventurose) nei film, nei libri, e pure nella vita, sono riservate agli uomini, mentre ai personaggi femminili tocca spesso il ruolo di spalla. E se/quando le donne sono protagoniste, ancora non riescono del tutto a levarsi di dosso un lungo retaggio di ruoli, reazioni, sentimenti stereotipati, che forse già in passato le rendeva meno amabili e meno adatte all'identificazione, figuriamoci ora! 

Ben vengano, dunque, tutti questi fermenti culturali volti a una rappresentazione più veritiera della vasta gamma del maschile e del femminile e di tutto ciò che sta nel mezzo, anche se sarà una strada dannatamente lunga e faticosa: perché gli stereotipi sono comodi e le distinzioni nette sono ottimi espedienti narrativi, da cui è difficile staccarsi, soprattutto in un tempo in cui si tende a semplificare per vendere.

Solo due cose temo. Una sta già accadendo: è il revisionismo fatto sull'onda dell'emotività, che preferisce condannare anziché comprendere e storicizzare gli errori del passato. Che io ricordi, Dante non ha detto cose carine su ebrei, musulmani e omosessuali: che facciamo? Contestualizziamo o sostituiamo nei programmi scolastici la Divina Commedia con un moderno romanzetto mediocre ma politicamente corretto?

La seconda credo potrebbe verificarsi in una fase più avanzata del processo che attualmente è ancora agli inizi: ovvero, quella di arrivare ad avere eroi fatti su misura con cui identificarsi senza alcuno sforzo di immaginazione.

Provo a spiegarmi meglio: ben vengano protagonisti di libri, film, fumetti di ogni sesso, colore, stazza, orientamento, carattere; ma non vorrei mai che questa infinita varietà portasse le persone ad identificarsi solo con ciò che trovano più simile a sé. Perché anche questa, credo, sarebbe un'enorme sconfitta del potere creativo ed educativo dell'immaginazione, che consiste proprio nel valicare i confini di generi e ruoli per trovare altri modi di rappresentare sé stessi e rapportarsi con il diverso.

Perché non è detto che pur vedendo rappresentate nei libri e nei film più protagoniste donne grasse e bruttine di mezza età io debba per forza immedesimarmi con loro. Potrei farlo, se, oltre al sesso e all'aspetto fisico, troverò in quel tal personaggio altre affinità. Oppure potrei trovarne di più, che ne so, con un ventenne di colore, pugile di mestiere... E, viceversa! 

Perché lì sta il bello: rappresentare la varietà dovrebbe favorire la libertà di scelta delle singole persone, non ingabbiarle in una nuova, solo un po' più vasta, omologazione. 

mercoledì 10 giugno 2020

Socializzazione e altre storie

Sono viva. Non sto tanto bene, ma sono viva. Riattivo questo blog solo perché ho 'sta cosa che mi preme dentro e se la pubblico altrove mi inimico metà dei miei contatti, ma se non la scrivo da qualche parte non me ne libererò mai più.
Quindi pazientate.
Poi me ne tornerò buona buona in un angolo.
Pronti? Via!
***
Durante il lockdown ho scoperto con estremo piacere il podcast con le registrazioni delle lezioni di Alessandro Barbero.
Avendo la memoria di un criceto, non è che adesso io mi ricordi la vita di Costantino o la battaglia di Caporetto, però una cosa mi è più chiara di prima: oltre che di conoscenze scientifiche, noi, in generale, manchiamo anche di prospettiva storica.
Quindi, non solo mi incazzo quando leggo i dati apparentemente contraddittori circa le ultime ricerche sul Covid, che sembra dicano tutto e il contrario di tutto, alimentando il complottismo, e invece, come mi è stato fatto notare giustamente da un amico scienziato, sono semplicemente studi parziali, che illuminano solo una fetta di verità; ma ho cominciato a incazzarmi anche quando qualcuno parla di necessità di tornare alla normalità.
Che cos'è la normalità?
Gli aperitivi, i viaggi, i centri estivi, le vacanze...
Tutto giusto, tutto bellissimo.
Ma anche la normalità è relativa nel tempo e nello spazio.
Quello che per noi oggi è normale non lo era per i nostri nonni. Quello che per noi qui è normale non lo è per chi vive in molti altri posti del mondo. Ciò che per noi qui e ora è normale non lo è per molte persone che per molte ragioni (malattie, disabilità, fragilità psicologiche e sociali) hanno sempre fatto e continueranno a fare una vita ben diversa dalla nostra.
Quindi attenzione quando invocate la "normalità" per voi e, soprattutto, per i vostri bambini.
Perché la normalità è quella che voi/noi abbiamo costruito attorno a loro credendo, in base alle nostre attuali conoscenze, che fosse la cosa migliore. 
E magari tra qualche decennio scopriremo che anche la "socializzazione", di cui i poveri pargoli sono stati brutalmente privati dalla pandemia, provocando loro danni incalcolabili, in realtà, è un mito. 
E scopriremo che chi alle elementari ha studiato quattro lingue, fatto dieci sport e frequentato centinaia di altri bambini ogni giorno non è diventato più intelligente, ma si trova a vent'anni già stanco, incapace di imparare cose nuove e desideroso di ritirarsi per il resto della vita in un eremo nel mezzo di un bosco.
O magari no. 
Ma visto che oggi non possiamo saperlo, piantiamola di confondere le cose necessarie per loro con quelle che fanno più comodo a noi e allo stile di vita tipico della società occidentale di questo decennio. E di pretendere che tutto possa tornare in fretta "normale" dopo la morte di 33 mila persone.
Amen.