sabato 20 dicembre 2014

Time warp

Piombo trafelata, arruffata e carica di mercanzie varie nell'erboristeria del centro commerciale vicino casa. Ho una missione da compiere: acquistare cinque pacchettini di tisana frutta&spezie da regalare alle amiche di mamma per Natale.
L'operazione è complessa: le tisane vanno preparate una per una, estratte da un bel barattolo di latta verde scuro e trasferite in un sacchettino trasparente pesandole sulla bilancia perché siano tutte uguali e della quantità richiesta. Per fortuna - mia, un po' meno dell'erborista - il negozio è deserto. Così, dopo aver deposto le borse ai piedi del bancone, ho tempo di guardarmi attorno, annusare campioncini e… ascoltare! Sì,  perché a un certo punto mi accorgo che c'è musica in sottofondo: non è la radio, è un cd, e mi pare pure di conoscerlo. Poi l'illuminazione: "Scusa, ma è The Rocky horror picture show?" chiedo. L'erborista s'illumina: "Oh, sì, che bello, finalmente qualcuno che lo conosce!"
Ci sorridiamo e ci attacchiamo reciprocamente un bottone coi fiocchi (d'altronde è quasi Natale…).
Comincio confessando che, in realtà, mi sono limitata a guardarlo in streaming meno di due anni fa, dopo averne sentito parlare e che l'ho trovato deliziosamente folle.
E lei, che scopro avere solo un anno più di me, racconta, invece, di averlo assieme a sua madre e ai suoi fratelli quando aveva sei-sette anni. Allibisco e lei si sente in dovere di spiegare che, beh, effettivamente non era uno spettacolo adatto a una bambina e che non c'aveva capito granché (meno male!), ma era rimasta molto affascinata dalla musica, dalle canzoni, dall'atmosfera luccicante e surreale; quindi racconta di avere una mamma di quindici anni più giovane della mia e decisamente "rock", che l'ha cresciuta a latte & Guns'n'Roses e la portava a musical e concerti. In un contesto del genere, ovviamente, anche il Rocky horror può diventare il fulcro di una tranquilla serata domestica; mentre io penso che se l'avessi visto solo un paio d'anni fa ne sarei stata inorridita, anziché divertita, e che non solo i miei - ammesso e non concesso che ne conoscessero l'esistenza - non me lo avrebbero mai fatto vedere; ma che io stessa, oggi, non oserei proporglielo. E, mentre con l'erborista andiamo avanti a disquisire di Queen, e altri "classici" del genere, raccontandoci pezzi delle reciproche vite, mi viene da ridere. E da pensare.
Penso che io ho sempre avuto tempi dannatamente lunghi per arrivare a comprendere le cose e adattarmi ad esse.
E' successo con la musica: ho impiegato una vita a passare dallo Zecchino d'oro al pop sanremese (con divagazioni spazianti dall'opera lirica ai cori alpini) al rock; fino a scoprire che riesco a digerire con piacere il Bowie più sperimentale di Outside e i persino i Placebo. No, l'heavy metal e il rap ancora non li reggo, ma non si sa mai...
E' successo con le mode: ho impiegato anni per decidermi a infilare le mie cosce prosciuttiformi in un paio di pantaloni a vita bassa (non troppo, ovviamente) o in un paio di leggins; ho avuto bisogno di vedermeli intorno addosso alle altre per anni prima di decidermi che non erano poi così strani e che non ero poi così grassa da non potermeli permettere. E ci sono voluti due anni di passaggi giornalieri davanti alle vetrine colorate di Kiko per andare al lavoro, uniti ai consigli gentili di amiche che, per una volta, non mi dicevano che "dovevo" ma che "se mi andava di farlo perché no…", e un bagno a mia completa disposizione e nessuno tra i piedi ad osservarmi, per osare un poco d'ombretto e un mascara (waterproof, che se no dopo cinque minuti, distratta come sono, me li ritrovo ovunque meno che sugli occhi!).
Succede con le persone: ho impiegato anni (e ancora, certo, non ho finito) a diventare aperta e tollerante nei confronti di chi ha fatto (o si è trovato a fare) scelte di vita completamente diverse dalle mie. Da adolescente, me ne rendo conto, ero decisamente talebana: c'erano il bianco e il nero, la via giusta e quella sbagliata e, benché di certo non mi sarei messa a far crociate contro nessuno, tendevo a dare giudizi taglienti su chi non si comportava non tanto come me (che non mi sono mai ritenuta un modello di virtù), quanto come a me era stato insegnato ci si dovesse comportare. Ora, con qualche anno di più addosso, e avendo avuto modo di frequentare - e apprezzare - un maggior numero di persone di ogni tipo, sono propensa a credere che ognuno faccia come può, come riesce, come crede di far meglio per acchiappare un minimo di felicità e raggiungere un equilibrio di sopravvivenza. Curiosamente, devo confessare che sono arrivata a questo non solo grazie agli incontri con persone reali; ma anche grazie all'incontro - non meno reale, dopotutto - con personaggi fittizi scoperti grazie a una televisione e un computer finalmente a mia completa disposizione, con nessuno lì a giudicare se mi mettevo a guardare cose strane. E' ridicolo, lo so, detto da una che ha passato buona parte dei suoi studi immersa nei classici (tra le cose migliori che mi siano capitate nella vita), ma anche appassionarsi a un paio di serie tv piene di caratteri decisamente fuori dall'ordinario, ma ben scritti da ottimi autori e ben recitati da attori che, a volte, ho scoperto essere più folli dei loro personaggi, è stata un'esperienza illuminante quasi quanto un corso di formazione alla "diversity", di quelli che oggi van di moda nelle aziende, e decisamente più divertente!
Detto questo, e considerando i miei tempi, che sono tanto più lunghi quanto più la cosa da affrontare è profonda e significativa, mi sorge il sospetto che per arrivare ad aprirmi e fidarmi di un'altra persona tanto da accoglierla nella mia vita come un possibile compagno, dovrò aspettare d'essere all'ospizio… E, altra cosa che ho capito solo di recente - e non senza fatica - credo sia molto meglio così.
Ok, ok, ora basta! E menomale che dovevo solo comprare cinque pacchettini di tisana!
Saluti logorroici (come ai vecchi tempi).


giovedì 18 dicembre 2014

Savage chickens


Lui disegna galline selvagge, ironiche e irriverenti, su post-it dal 2004: non siamo sole in questo spiumato universo!
Enjoy…
http://www.savagechickens.com




giovedì 20 novembre 2014

Galline spaventose

"Ygnacio aveva il terrore degli animali, meno che delle galline. Tuttavia, in campagna osservò da vicino una gallina viva, se la immagino cresciuta fino alla dimensione di una mucca, e si rese conto che era un drago molto più spaventoso di qualsiasi altro della terra o dell'acqua."
(Gabriel Garcia Marquez, Dell'amore e di altri demoni).

Letto nella sala d'attesa dell'ospedale. Perché avere un libro in borsa, a volte, è l'unico modo per sopravvivere…

Saluti latitanti.

martedì 14 ottobre 2014

La piena dei ricordi

Ad ogni pioggia più preoccupante delle altre il pensiero dei miei corre sempre ai primi anni Ottanta, quando tracimò il canale che ci scorre a un paio di isolati e l’ondata di piena si bevve in un sorso melmoso garage e cantine.
Mio padre ricorda con una punta di divertimento la visione surreale della schiuma bianca fuoriuscita dalla scorta di detersivi stivata in garage; mia madre ricorda, invece, con un poco di condivisibile rammarico, il lungo e strano quadro di un Cristo che, regalato loro da amici per le nozze, non aveva trovato posto sopra il letto della casa nuova e, deposto ingloriosamente in cantina, finì sbiadito nel fango.
Io, nata da poco, non ho memoria di quel fatto, se non quella che mi è stata trasmessa dai miei ed è andata assumendo, nel tempo, come tutti i racconti, contorni quasi mitici.
Ci ho pensato anche ieri mentre, chiusa in ufficio, mi arrivavano, pure quelle a ondate, notizie della fuga del Baganza, di ponti e sottopassi chiusi e relativo caos dei trasporti, prima che saltasse la centralina della Telecom facendoci piombare tutti in un isolamento telematico che, se possibile, ci ha impensierito più della piena.
Poi, rincasando, l’ho vista con i miei occhi, ieri sera, l’acqua torbida che passava a una spanna dal colmo degli archi del Ponte di Mezzo. E l’ho anche attraversato il ponte, schivando i curiosi assiepati lungo le balaustre, sentendo un brivido salirmi per le gambe al pensiero di affidare la mia vita alla resistenza di una manciata di eroici piloni di pietra e ringraziando mentalmente l’abilità dei costruttori, gente d’altri tempi, per fortuna!
Ho guardato anch’io nell’acqua inquietante – impossibile non farlo – ma la cosa che più mi ha impressionato è stato l’odore.
M’immaginavo qualcosa greve e torbido, visto il rimescolarsi di ogni sorta di detriti strappati dalle rive dall’Appennino fino in città. Invece, sorprendentemente, dalla corrente grigio-marrone salivano ventate umide e fresche di sottobosco e, non so perché, di timo.
Timo? Sul serio? Beh, me lo sono chiesta anch’io, abituata da una vita di raffreddori allergici e non a fare molto poco affidamento sul mio olfatto. Eppure l’ho sentito, stupendomene parecchio. E ho respirato a fondo, a occhi socchiusi, per esserne certa.
Non so voi, ma a me l’idea che un’onda di piena profumi di buono ha sconvolto più dell’onda stessa e mi ha portato via buona parte dell’apprensione, che è ritornata, ovviamente, vedendo in tv le immagini spaventose dei container alla deriva che sbattevano contro il ponte di via Po, i gorghi nelle strade e i negozianti allibiti col fango a mezza gamba; ma, come la piena per mio padre continuerà ad essere popolata di schiuma bianca di detersivo e per mia madre di quadri che si disfano; la mia, appena smetterà d’essere cronaca comune e diventerà ricordo privato e piccola mitologia domestica, saprà sempre di timo. E farà meno paura.

martedì 30 settembre 2014

Salutare inquietudine appesa

"L’han veduta alcuni/ lasciare il quadro; in certi noviluni/
s’ode il suo passo lungo i corridoi..."

(Guido Gozzano, La Signorina Felicita)

L'ho ripescata dal fondo di un armadio nel quale non mettevo il naso da alcuni anni, e che col mio naso se l'è presa, scatenandomi una bella reazione allergica come non mi capitava da tempo.
Così, con gli occhi lucidi di raffreddore - e anche di altro - tra vecchi quaderni di scuola, cimeli degli scout, scatole di minerali e conchiglie e una cospicua parte della mia collezione di Topolino, srotolando un largo foglio di carta ingiallita, me la sono ritrovata tra le mani: la ragazzina dagli occhi senza pupille.
Me la ricordo da quando avevo, forse, quattro anni. Stava appesa sulla parete opposta al letto nella prima camera in cui abbia mai dormito da sola in un vero letto, che mi sembrava, ovviamente, grandissimo. Anche la stanza mi sembrava grandissima, ma non lo era, visto che faceva parte di una casa minuscola, ricavata dal piano superiore di quello che un tempo era stato un mulino, dai muri spessi e con il bagno in cortile. Ci ho passato le prime estati della mia vita in quella casa e credo di avervene già parlato. Forse vi ho anche già detto che, chissà per quale motivo, a quella casa, nella quale ho passato a malapena un mese nelle estati da 0 a 5 anni, sono legati i miei primi e più vividi ricordi.
E finché campo continuerò a chiedermi come e quanto questi ricordi abbiano influito su quella che sono oggi o, al contrario, se mi siano rimasti così impressi proprio perché già si sposavano con il mio (pessimo) carattere: praticamente è come disquisire dell'uovo e della gallina.
Comunque sia, in quella stanza arredata di poco o niente, mia madre, anima d'artista, aveva pensato di appendere il poster di un quadro di Modigliani. E io non ebbi mai il coraggio di dirle che quella strana ragazzina, che mi guardava con le iridi completamente azzurre, senza pupille, mi faceva paura. Ed era pure in buona compagnia!
Esattamente sopra la mia testa, infatti, stava un altro quadretto più piccolo: profili di barche e scogli dipinti a china su uno spesso cartoncino oblungo.
Vi garantisco che nelle notti di temporale, coi bagliori dei lampi che filtravano tra gli scuri malchiusi, era un'attimo che quelle innocue barche si trasformassero in galeoni zeppi di pirati sull'orlo del naufragio: uno spettacolo che io osservavo rannicchiata nel letto lungo troppe volte più di me, consapevole dello sguardo freddo e inquisitore dell'altra inquilina della stanza che, benché fosse semplicemente stampata su carta e appesa al muro con un paio di chiodini (ci sono ancora i segni sul foglio), non era per questo meno reale.
Se però v'immaginate che quelle fossero solo notti di incubi ad occhi aperti e sciocche paure infantili, riflettendoci ora, a distanza di oltre trent'anni, credo che vi sbagliate.
Se davvero quei quadri, messi in camera mia con le migliori intenzioni, mi avessero fatto solo paura, penso non avrei esitato a chiedere a mia madre di toglierli. Evidentemente c'era in loro anche qualcosa che mi affascinava. La ragazzina, dopotutto, era bella, di una bellezza mai vista nella vita reale e, a guardar bene, i suoi occhi non erano così inespressivi; al contrario, erano due pozzi profondi spalancati su quella che forse già allora sarebbe diventata una delle mie più consuete e longeve compagne di vita: l'inquietudine. Anche le barche, perfettamente immobili nel loro mare di carta, ma pronte ad animarsi di notte, erano, infondo, le proverbiali due facce della stessa medaglia. E la paura non era soltanto una cosa da cui tenersi al sicuro - come insegnano oggi ai bambini genitori falsamente apprensivi - ma una battaglia da affrontare nella fantasia, per poi provare a conviverci nella realtà.
La ragazza dagli occhi vuoti non era un mostro, così come non lo sono quelli che abitano comunemente sotto i letti e negli armadi dei bambini: era, semplicemente, una creatura estranea, magica e misteriosa, come la maggior parte del mondo visto con gli occhi di un bambino (e, ahimè, non solo di un bambino); era un modo di dar voce alla visione decisamente vaga e fantastica che avevamo del nostro passato e del nostro futuro. Accettarne la presenza, nelle notti tranquille in cui ci si spiava sospettose, ma non ostili, dai due capi della stanza, come in quelle agitate, nelle quali appariva decisamente minacciosa, era una magnifica avventura: un'esperienza decisamente più varia e stimolante che se avessi avuto appeso al muro il sorridente faccione di Peppa Pig, la quale, peraltro, ha la stessa prospettiva impossibile di certi ritratti di Picasso e, dunque, a qualche bambino pure lei potrebbe sembrare inquietante nonostante tutte le precauzioni dei genitori.
Sarà perché sono costretta a conviverci da una vita, ma l'inquietudine, quando non si trasforma in panico, ovviamente, non è solo un male: è un'indecifrabile amalgama di timore e speranza che mi fa stare sempre all'erta e, talvolta, mi permette di notare e di sentire cose che, forse, se fossi un tipo calmo e pacifico mi lascerei scorrere addosso senza goderne.
Accettare l'inquietudine con il supporto di una buona dose di fantasia è, quindi, una delle migliori lezioni apprese nella mia primissima infanzia. E di questo devo rendere grazie anche a lei, alla ragazza dagli occhi aperti su qualcosa che io non potevo vedere… non ancora.
Per questo, ora che l'ho ritrovata, l'ho srotolata con cautela e le ho sorriso con circospezione, ma con altrettanta dolcezza. E le ho promesso che le comprerò una cornice e le troverò un posto in camera mia, nella mia casa, sulla parete di fronte al mio letto esattamente come allora. E torneremo a guardarci nelle notti insonni, occhi marroni un po' miopi e occhi completamente e intensamente azzurri: non vuoti, ma spalancati e pronti per essere riempiti, senza mai colmarsi, di vita e di memoria.

mercoledì 10 settembre 2014

Porta dell'altrove

Mi fa strano dover raccontare di una vacanza senza ciose.
Poi ci penso e capisco che no, in realtà, questi tre giorni a Venezia (sì, ancora!) strappati al caos di impegni, acciacchi e maltempo di questa anomala estate, e condivisi con l'inedita - e piacevole - coppia Sara & Elisa, hanno radici vecchie di anni, che con le ciose hanno molto a che fare.
Nel marzo del 2011, quando io Dani & Costi passammo il nostro primo weekend a Venezia, ci concedemmo il lusso di un tour alternativo della città assieme a Walter, il fotografo-blogger-cuoco-filosofo-musicista-guida turistica (ho dimenticato qualcosa?) che, quando non è lui stesso in giro per il mondo, è impegnato ad accompagnare gente di tutto il mondo a scoprire gli angoli nascosti della sua città.
Ricordo che ci fermammo in un campo arioso, sufficientemente ampio perché i bambini ci si radunassero a giocare a calcio, sul quale si affacciavano l'imponente, barocca e bianchissima chiesa dei gesuiti e l'annesso enorme convento, già dei Crociferi, poi trasformato in caserma e quindi abbandonato. "Che peccato!" commentammo osservando le finestre vuote, oltre i ponteggi.
Immaginatevi il mio stupore quando, alzati gli occhi dalla cartina e sospirando di sollievo per aver finalmente raggiunto, con minime divagazioni, la residenza universitaria-hotel in cui lavora Elisa e presso la
quale avremmo alloggiato, mi sono resa conto che era lo stesso palazzo!
Entrando nel chiostro pieno di luce, restaurato con rispetto, e osservando la vera da pozzo, l'alloro altissimo in un angolo, le sedie di metallo bianco del bar e il lato b degli angeli svettanti sul timpano della chiesa, abbiamo capito che già dormire lì dentro, tra mura vecchie di secoli, sarebbe stato un piccolo privilegio. E, di nuovo, Venezia ha fatto la magia.
In attesa che Elisa finisse il turno al lavoro, siamo uscite per dedicarci allo sport ufficiale dei turisti non occasionali: perdersi per calli, campi, salizade, sotoporteghi ed altri ghiribizzi della toponomastica cittadina. Quando ci siamo decise per sfinimento a sederci al tavolo di un ristorante per recuperare energie, Sara ha realizzato di avere già fatto un sorprendente numero di foto a palazzi, altane, terrazze fiorite incastrate in luoghi improbabili, ponti, patere, lampioni e persino campanelli fuori ordinanza ed altre fantasie architettoniche. Realizzare di essersi lei pure innamorata - o reinnamorata - della città è stato il passo immediatamente successivo.
Ritornate all'albergo e recuperata Elisa, riuscita finalmente a liberarsi dall'orda di turisti in attesa di check-in, abbiamo deciso di puntare sulla Ca d'Oro.
Che sia uno scrigno di meraviglie è abbastanza ovvio già guardandola da fuori, ma affacciarsi sul Canal Grande dalle elaborate cornici di pietra dei suoi balconi, che disegnano merletti di luce sul pavimento, dopo aver ammirato Mantegna, Guardi, Tiziano, e quel che resta degli affreschi di Giorgione al Fondaco dei Tedeschi (no, ma ci pensate che quei mercanti venuti dal freddo trattavano i loro affari tra capolavori!), è meglio di ogni aspettativa.
Alcune sale, in teoria, sarebbero chiuse per l'allestimento di una mostra, ma siamo pressoché sole e l'orario di chiusura è vicino, così i custodi decidono che, anche se ridiamo come quindicenni e ci facciamo pure i selfie, abbiamo un'aria sufficientemente civile ed educata da permetterci di dare una sbirciatina.
Ritornando su Strada Nova, Elisa ci blocca: una signora sta aprendo la porta di Santa Sofia, chiesina antichissima e quasi invisibile se non per il campanile, che spunta di sbieco tra le facciate delle case. Da quando abita a Venezia non l'ha mai vista aperta. C'infiliamo dentro al volo a recitare i vespri con uno sparuto gruppetto di fedeli, tra cui una ragazza con flauto e chitarra. Respiriamo un angolo di pace e intimità nella città più turistica del mondo, ed è un regalo che non dimenticheremo.
Concludiamo la serata in un'osteria defilata che Elisa conosce. Quasi tutti gli avventori parlano veneto e nell'attesa di una sacrosanta frittura di pesce e con gli occhi pieni di meraviglie, ho la malaugurata idea di mettermi a disegnare sulla tovaglina di cartapaglia; l'oste sorride comprensivo e, più tardi, andando in bagno, scopriamo che alcune di quelle stesse tovagliette sono state incorniciate e appese, perché sopra ci ha disegnato Mauro Corona: quanto basta per vergognarsi all'istante.
L'indomani chiedo a Sara di andare all'Arsenale. Lungo la strada inciampiamo nei giardini della Biennale (prima o poi si farà anche quella!) e nella relativa Serra: elegante struttura ottocentesca di vetro e metallo, recentemente recuperata e affidata ad una cooperativa, ospita uno sfizioso bar che serve prodotti biologici in deliziose confezioni, spazi per mostre ed esposizione di oggetti d'artigianato artistico, piante, ovviamente, e... Meringa: un gatto grigio-beige acciambellato su un lungo tavolo, talmente bello e immobile da parere un soprammobile; poi apre un occhio e si lascia coccolare e fotografare con l'elegante distacco di una diva del cinema.
All'Arsenale, inutile dirlo, vado con uno scopo preciso: vedere i leoni! Sono greci, sono antichi, sono belli e un poco misteriosi e tanto basterebbe, ma il più grande, un energumeno di tre metri elegantemente accucciato sulle zampe posteriori, è addirittura leggendario e sono anni che voglio guardarlo negli occhi. Viene dal Pireo e, con un po' di fantasia, sui suoi fianchi s'intravvedono davvero le rune scolpite dai mercenari scandinavi nell'XI secolo: a conferma che Corto Maltese non dice bugie!
Toltami questa piccola personale e leggermente delirante soddisfazione, passeggiamo un poco nel quartiere - pardon, sestiere! - vicino, e finiamo nella chiesa di San Giuseppe in Castello. Anche qui siamo quasi sole, e il giovane custode-guida-bigliettaio non si fa pregare a raccontarci qualcosa.
E' un classico: prendete una città sommersa di turisti a vari gradi di fretta e maleducazione che si accalcano lungo gli stessi percorsi e provate a sconfinare appena e a comportarvi civilmente, vi si apriranno porte che nemmeno immaginate...
Decidiamo di concludere la vagabondante mattinata prendendo un traghetto per il Lido. Per la seconda volta ci capito una settimana prima dell'apertura del Festival del Cinema, in pieno cantiere.
Passeggiamo a braghe arrotolate, piedi scalzi e scarpe in mano sulla spiaggia, e, quando decidiamo di risalire - dopo equilibristici, e vani, tentativi di toglierci la sabbia dai piedi - pensiamo bene di farlo nei pressi dell'Excelsior, vergognandoci come ladre di mescolarci ai vacanzieri stilosi tra le cabinette che fanno tanto primi del Novecento.
Abbiamo appuntamento con Elisa in Piazza San Marco: "Dove?" "Dai Tetrarchi?" propongo io. "Dove?" Ritento: "Ehm, sotto la colonna con il leone?!" "Va bene!". Direi che con un riferimento del genere perdersi è impossibile persino per me.
Approfittiamo dei venti minuti che mancano per portare a termine un'altra missione: acquistare la mia dose di sopravvivenza di tè alla rosa e bergamotto del caffè Florian, da centellinare nelle occasioni speciali.
Avendo speso più di 10 euro per una scatolina da 100 g ci guadagniamo il diritto di considerarci clienti, il che comporta un chicco di caffè ricoperto di cioccolato in omaggio e l'uso del bagno, che dobbiamo però contenderci con una comitiva di corpulente e aggressive signore dell'est. Intercettiamo gli sguardi sconsolati del personale e sorridiamo comprensive.
Con Elisa puntiamo dritte a Torcello: altra meta a lungo sognata. Dritte, oddio, si fa per dire: a Venezia è impossibile andare dritti. Pertanto ci fermiamo accanto ad una vera da pozzo a chiedere ad un signore dal palese accento locale consiglio su dove prendere il vaporetto. Lui ci risponde, cordiale, ma poi, sventurato, si premura di aggiungere: "Ma che ci andate a fare a Torcello? Non c'è niente da vedere". Mi trattengo a stento dal pestargli un piede.
Attraversiamo una laguna color ambra. Peccato che indichi che l'ora è tarda e chiese e museo son già chiusi quando li raggiungiamo; ma pazienza: c'è una tale pace lungo la strada che si snoda tra un canale dalle acque immobili, color smeraldo, e case e ville dietro le quali si apre una campagna selvaggia; le cicale si sgolano nella calura e le pietre dei monumenti hanno un che di tiepido e dorato, accogliente, nella sera.
Ci concediamo, ridendo, un'inevitabile sessione di foto in pose poco signorili sul cosiddetto "Trono di Attila" e sul "Ponte del Diavolo", in compagnia di un gatto piuttosto nero e scontroso, spuntato dal nulla, che fa molto atmosfera…
Rientriamo al tramonto e abbiamo tempo di ripulirci e riassestarci prima di andare a cena in un altro posticino delizioso, sempre suggerito dalla nostra tutor-receptionist preferita.
L'ultimo giorno Venezia ci dà la sveglia con raffiche di vento che fanno vibrare finestre e altane e sbandare pericolosamente i gabbiani più temerari, che s'alzano ugualmente in volo fendendo l'aria di sbieco, con le piume arruffate. Prepariamo meste le valigie e aggiungiamo strati di vestiario prima di avventurarci all'aperto.
Prima tappa: l'antro caotico e creativo di uno stampatore a due passi dall'albergo, che avevamo adocchiato fin dal primo giorno. Porto a casa una stampa, ovviamente, e il proprietario sparisce cinque minuti buoni per incartarmela con certosina precisione: cartoncino rigido tagliato di misura perché non si pieghi, carta da pacco ben stesa, ripiegata e fermata con lo scotch perché non si rovini. Peccato che, nel frattempo, sia entrata altra gente che comincia a sbuffare chiedendosi che diamine di fine abbia fatto lo stampatore. E io non so se sentirmi un po' in colpa per l'attesa o lusingata per la cura che sta riservando al mio acquisto.
Seconda tappa: Ca' Pesaro, collezione d'arte moderna e d'arte orientale, curioso ma godibilissimo insieme di Rodin e katane, Wharol e scacchiere di giada, Medardo Rosso e… cestini da picnic in legno laccato vecchi di secoli. No, chiariamo, il museo d'arte orientale è separato dal resto, ma è un attimo far confusione, soprattutto dopo due giorni in cui non ci siano risparmiate chilometri e con addosso un temibile mix di stanchezza e mestizia per la partenza. Mentre ci aggiriamo per le sale, fuori si scatena una vera e propria tempesta: cielo livido, pioggia quasi orizzontale, i doccioni che vomitano cascate d'acqua grigia dai tetti sui quali si aggrappano piccioni inzuppati.
Spiove in tempo per andare a pranzo in un take away arabo-indiano, dal quale usciamo sazie e profumate di spezie per un ultimo giro di shopping, equamente diviso tra souvenir non troppo pacchiani e alimenti zuccherini, alcuni dei quali non vivranno abbastanza da raggiungere Parma.
Torniamo a riprendere le valigie, salutiamo Elisa (grazie, grazie, grazie!) e speriamo vivamente che il vaporetto non se la prenda troppo placida, perché, come da copione, rischiamo di perdere il treno. Sia chiaro: restare un altro paio d'ore (o un altro paio di mesi…) a Venezia non dispiacerebbe né a me né a Sara, ma decidiamo di fare le brave bambine; mentre una estrae i biglietti l'altra controlla il numero del binario e ci imbarchiamo sane e salve con giusto un minimo di fiatone.
E, come da copione, appena ci siamo lasciate alle spalle la striscia di asfalto, binari e laguna del Ponte della Libertà, già ci prende la voglia di ritornare.
Qualche giorno dopo, Sara mi racconta che, mostrando a un'amica il mezzo migliaio di foto fatte in soli tre giorni, questa le ha fatto notare che per la maggior parte si trattava di porte e finestre. Sorrido, ma, a pensarci, la cosa non mi stupisce troppo: a parte il fatto che le finestre dei palazzi veneziani sono quanto meno pittoresche, la città stessa è una porta: porta d'oriente nei secoli passati, porta d'Italia, ora, per milioni di turisti d'ogni dove, e, ovviamente, con la sua natura unica, diversa da ogni altra città, è un covo di storie e una porta per l'altrove. E se siete particolarmente fortunati da bussare alla porta giusta, potrebbe persino capitarvi di ritrovarvi in compagnia di una stregonessa nera di nome Bocca Dorata e del suo amico marinaio, ironico e affascinante come solo le creature di carta e inchiostro possono essere. Chissà, io ci spero ogni volta...


mercoledì 20 agosto 2014

A Cremona senza violini e senza torrone

Che a noi ci piace essere originali e distinguerci dalla massa dei turisti intruppati a percorrere gli itinerari stabiliti infarciti di luoghi comuni.
Ehm, no, in realtà non è andata proprio così...
Nonostante quest'anno pare sia più facile organizzare un G8 che far coincidere i rispettivi giorni di ferie e farne uscire una vacanza, almeno al gitino di ferragosto non si poteva rinunciare.
Scoraggiate da previsioni meteo più variabili del mio umore nei giorni peggiori, abbiamo abdicato all'idea di un picnic sperso in Appennino e abbiamo ripiegato per la classica città d'arte, vicina ma a noi pressoché sconosciuta: Cremona. Con le opportune divagazioni, ovviamente.
Imbarco Dani alle 8.15, pensando a quanto starà gongolando nel frattempo Costi che, per una volta, non dovrà calare verso Parma per ritrovarci e partire, ma, vista la meta, verrà recuperata direttamente sulla sua nuova soglia di casa, ammesso e non concesso di ricordare come arrivarci!
Superata la prima prova, ci dirigiamo da lei guidate, verso Busseto e, da lì, sconfiniamo nel piacentino in cerca di Sant'Agata: la dimora più amata da Verdi, spirito romantico e anima concreta di contadino.
Quando la troviamo siamo le sole a turbare la passeggiatina della distinta signora che, scopriremo di lì a poco, ci farà da guida, e la sacrosanta pigrizia ferragostana di un giovanissimo bigliettaio riccioluto, che ci accoglie comunque sorridendo. E sempre da sole ci godiamo la visita guidata alle poche stanze aperte al pubblico (nella villa ancora abitano gli eredi del Maestro) e al grande giardino con tanto di laghetto, sormontato da un ponticello orientaleggiante degno di un quadro di Monet, grotta finta, boschetto di banani ed eleganti sedie in ferro smaltate di bianco, anch'esse d'epoca.
Nelle stanze ci colpiscono, a parte la rigogliosa collezione d'acari che mette alla prova me e Dani, i libri in lingua originale, i dagherrotipi e le statuine napoletane racchiuse in campane di vetro, talmente gozzaniane da commuovermi; la scrivania strategicamente disposta di fronte al letto nella camera di Verdi, in caso di ispirazioni notturne, le valigie e le cappelliere di cuoio con le sbiadite etichette degli hotel, una lettera di Cavour e un cappello pieghevole da viaggio. Invidiamo anche i set di ceramica in dotazione agli hotel, confrontandoli con la prosaicità delle saponettine e cuffiette da doccia dei tempi nostri, salvo realizzare che gli oggetti in ceramica sarebbero un po' più scomodi da ficcarsi in valigia...
Entriamo in Cremona dalla parte del Po e ci concediamo un necessario caffè e una passeggiata nel parco lungo il fiume, rapido e grigio per le piogge di questa assurda estate. È mezzogiorno e ci sono già famigliole impegnate in succulenti picnic. Tra il verde aleggia un vago sentore di grigliata, di cui ci tratteniamo a stento dall'individuare la fonte. Arriviamo, invece, fino alle ex Colonie Padane, ennesimo esempio di "luogo perduto": architettura palesemente fascista, ma con un che di morbido e marino, che rende bella persino l'architrave monumentale che separava l'edificio principale da quelle che un tempo erano piscine. Ci aggiriamo nell'italico abbandono, condividendo la solitudine con enormi oche, tartarughe e un paio di gatti, unici abitanti del luogo ai quali una coppia di attempati sposini porta da mangiare. E anche noi pensiamo che è ora di raggiungere il centro e, magari, trovare un ristorante.
La città è piacevolmente semideserta e, dopo un paio di tentativi, adocchiamo in un borghetto che dà sulla piazza principale i promettenti tendoni di una trattoria. Ci va bene e, quando decidiamo di rimetterci in moto, pensiamo che è il caso di posticipare la salita dei 502 gradini del Torrazzo, l'altissimo campanile, simbolo di Cremona, a una fase digestiva più avanzata ed entriamo nel Battistero. La forma ottagonale e il marmo rosa lo rendono assai famigliare a noi parmigiane. Lo stesso vale per il Duomo, con i suoi echi romanici all'esterno, i leoni rosati a sostenere le colonnine del protiro e le decorazioni cinquecentesche all'interno.
Alla fine ci decidiamo ad annaspare in cima al campanile, dove ci accoglie una vista della città e della piana verde che la circonda. Un'ansa del Po luccica tra gli alberi e, mentre riprendiamo fiato, assistiamo al siparietto di una allegra famigliola nella quale, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, è la madre che insiste: "Dai, su, facciamoci un altro 'selfie'!" mentre il figlio cerca invano di dissuaderla.
Discendiamo mettendo a dura prova i nostri polpacci: mai sentito il detto "Bisogna mettere il freno alle galline" per indicare un percorso particolarmente ripido? Ecco, qualcosa del genere...
Abbandoniamo la splendida piazza, che nel frattempo si va riempiendo di turisti e famigliole cremonesi, e puntiamo, finalmente, al museo del violino. E qui cominciano i problemi. Le nostre cartine, vecchie di qualche anno, nominano un "Museo stradivariano", mentre i cartelli turistici lungo le strade parlano di un "Museo del violino", ovviamente in due direzioni diverse.
Ci fermiamo a riflettere sulla panchina di un bel parco, vicino alla fermata del trenino che porta a spasso i bambini. Per un attimo meditiamo di dirottare il suddetto trenino e farci portare là dove vorremmo andare; poi, per fortuna, il buonsenso ha la meglio e abbordiamo una panchina di vecchiette ciarliere chiedendo lumi. La più anziana ci dà, convinta, indicazioni precise; seguendole ci ritroviamo in effetti davanti a un museo musicale, peccato che abbia appena chiuso. Dal portone accostato se ne esce uno smilzo custode in bicicletta, che ci spedisce più o meno da dove siamo venute.
Ed eccolo, finalmente, il Museo del violino! L'edificio ha l'aria di essere stato restaurato di fresco e ci si presenta con un'ampia piazza, un enorme violino-scultura e un altrettanto enorme uomo fatto tutto di note, entrambi metallici. Peccato che il museo non sia altrettanto accogliente: quello pure è in chiusura e non c'è tempo nemmeno per una visita veloce.
Ci coglie un attacco di mestizia e pensiamo di consolarci nella più pura tradizione ciosesca: ovvero, torniamo in piazza e ci prendiamo un solenne coppone di gelato in un locale con i tavolini all'ombra del Torrazzo, che avevamo adocchiato fin dal mattino.
Però, almeno un torrone a mo' di souvenir riusciremo a portarcelo a casa?
Pare di no: le sfiziose gastronomie e pasticcerie che incontriamo per la strada, infatti, hanno giustamente deciso di festeggiare il Ferragosto e l'unico negozietto aperto è un bazar ad uso turistico che vende di tutto e di più, compresi torroni al prezzo di tartufi d'Alba o giù di lì.
Pazienza. Sono quasi certa che se frugo in ripostiglio dovrei riuscire a trovare uno Sperlari rimasto dalle passate festività ancora in  ottime condizioni. D'altronde, come dice Costi, e come ormai tutti voi lettori di questo blog sapete bene... dopo ferragosto è già Natale!
Saluti croccanti e mandorlati.

mercoledì 6 agosto 2014

Gandalf & le galline

Per la serie "Galline al cinema", o, nel caso specifico, "Galline nel backstage", guardate che bella questa foto: è sir Ian McKellen, 75 anni, centinaia di ruoli all'attivo tra cinema e teatro, tra cui, appunto, Gandalf nel Signore degli anelli, "beccato" in una pausa della registrazione del suo prossimo film, nel quale interpreterà, se non ho capito male, nientemeno che Sherlock Holmes.
Sarò un po' di parte, ma lo trovo delizioso...

martedì 29 luglio 2014

Sassolini

"Alone is what I have: alone protects me."
(Sherlock, BBC, stagione 2, episodio 3)

Seriamente, signora, che potresti essere mia madre se solo lei si fosse sposata più giovane e non avesse dovuto penare sette anni prima di sfornare quella arruffata creatura che sarei diventata io; seriamente, dicevo, tu che a più di cinquant'anni ti trovi sola, con un matrimonio fallito tra accuse e dispetti, due figli che ti fanno disperare e allievi che non riesci a tenere a bada se non urlando, vuoi dare a me lezioni di vita e di sentimento?
Per fortuna, una delle poche cose che ho imparato negli anni è non tanto a non giudicare le persone - perché il confronto con gli altri è il modo in cui, bene o male, si prova a costruire sé stessi, per imitazione o contrasto - ma, almeno a provare a comprenderle e ad amarle lo stesso, consapevole che quasi certamente  io, nei loro panni, non avrei saputo fare di meglio.
Per questo mi limito ad ascoltarti e a risponderti a monosillabi, senza girarmi a guardarti, con la scusa, peraltro vera, di un enorme mazzo di lavanda da ripulire stelo per stelo con santa pazienza.
E strappo con più violenza del necessario foglie in eccesso, rametti sbilenchi e fiori spezzati, e ormai ho le dita di un curioso colore gialloverde e sono talmente immersa nel profumo fresco e forte da sentirne quasi il sapore sulla lingua. Solo così, quando te ne esci, candida, dicendo che, nonostante tutto, non ti dispiacerebbe avere un altro uomo, mi limito a dire che, sì, capisco: che è difficile star soli quando si è abituati fin dall'adolescenza a stare in coppia e che quasi sicuramente è vero che vale sempre la pena di amare qualcuno. Ed evito, invece, di aggiungere che io, al contrario di te, ho imparato a star sola fin dall'adolescenza: ad esser considerata - e alla fine a considerarmi - qualcosa di piuttosto neutro e asessuato, incapace di attirare l'attenzione di chicchessia, o, il che è anche peggio, capace di attirare soltanto l'attenzione di persone così superficiali da provarci indistintamente con tutte, me compresa, o così in disperata ricerca di qualcuno da "accontentarsi" persino di me. Anche a questo, col tempo, si fa l'abitudine. E si finisce addirittura per affezionarsi alla propria condizione, esattamente come tu sei affezionata all'idea di dover essere per forza innamorata di qualcuno.
Però, mentre io, col tempo, e con la consapevolezza che la tua condizione sia, in qualche modo, più naturale della mia, mi sforzo di capire il tuo punto di vista, non accade quasi mai il contrario: ovvero che qualcuno provi a capire il mio senza limitarsi a consigliarmi, semplicemente, di trovarmi un moroso. E questo un po' mi addolora.
Allora, per favore, lasciami sbagliare da sola e sappi che la tua storia, così come le molte altre storie di amori cominciati bene e finiti male, nell'odio o nell'indifferenza; tutte le storie di inganni, autoinganni e illusioni, mi piovono addosso da anni ma, disgraziatamente, non scivolano via come acqua: si vanno accumulando un po' alla volta, come pezzi di pomice sui tetti di una città squassata da un vulcano.
Quindi perdonami se non riesco a ringraziarti per aver aggiunto anche tu un altro sassolino alla mia già vasta collezione. Lo so che non hai fatto apposta, che avevi buone intenzioni, ma, per una volta, voglio provare a togliermelo questo sassolino... 

lunedì 14 luglio 2014

Fare l'idioma (ipsa dixit parte seconda)

Come preannunciato/minacciato, eccovi la seconda (e non ultima!) parte delle frasi normalmente usate dalla chiocciante accolita che si raduna sotto le protettive ali di questo piumato - e per fortuna anonimo - blog.
Più o meno…

1) Siamo donne calienti e mediterranee* (Costi)
Indica che noi ciose, con rarissime eccezioni, di una taglia 42 non sappiamo che farcene. In compenso, sappiamo esattamente come comportarci davanti a una fetta di sacher, una porzione di patatine, una pizza fumante eccetera eccetera...
2) Infondo era solo una storia di corna (AAVV)
L'infelice uscita di una guida turistica al castello di Gradara, che definì così la drammatica vicenda di Paolo e Francesca, rischiando il linciaggio da parte di un gruppo di ciose infuriate. Ci è rimasta talmente impressa da essere usata, altrettanto a sproposito, per troncare gli eccessi di romanticismo che a volte, inevitabilmente, ci colgono.
3) Intubiamo? (Costi)
Uso improprio di terminologia medica, derivante da esposizione troppo prolungata a serie tv d'argomento medico (da ER a Grey's anatomy ecc.). La domanda, in genere, viene pronunciata fissando intensamente l'interlocutore, il quale ha appena lamentato un disturbo di gravità variabile dall'unghia incarnita all'influenza. La reazione è immediata e taumaturgica: "No, no, grazie, sto già meglio!"
4) Tre volte! (Cri)
Si esclama con tono deciso e il corrispondente numero di dita sventolanti in aria. E' un modo tuttosommato gentile per esprimere con ironia e fermo disappunto che non si ha la benché minima intenzione di fare una cosa. Ad esempio: "Cri, vieni a vedere il prossimo horror ai 'Giardini della Paura'?" "Tre volte!".
5) Camomillizzati/ camomilliziamoci (Costi)
Frase del repertorio paninaro anni '80 (eravamo piccole, sì, ma c'eravamo, e l'imprinting, evidentemente, è rimasto) riesumata e sfoderata in caso di crisi di nervi, non necessariamente derivante da squilibri ormonali...
6) Organizziamo una serata "Harry Potter" (o "Signore degli Anelli")? (Chiara & Costi)
Pare un innocuo invito, in realtà è una velata minaccia rivolta ai mariti/fidanzati delle ciose (santi subito!) nel caso tentino di intromettersi in qualche nostra serrata sessione di chiacchiere. In genere, la prospettiva di passare due ore abbondanti in compagnia di elfi, nani e stregoni basta a convincerli a rinunciare per qualche ora alla compagnia delle loro dolci e pennute metà. In caso contrario, nessun problema: nella Terra di Mezzo c'è spazio anche per loro e… in bocca al Nazgul!

To be continued…?

*Scusate, come mi ha fatto notare l'autrice, avevo dimenticato l'aggettivo "burrose", che rende ancor meglio l'idea!

martedì 8 luglio 2014

Due (E adesso?)

Non lo so per esperienza diretta, ovviamente, ma immagino - immaginare mi piace, lo sapete - che il momento più terribile e più bello di ogni matrimonio non sia il sì ma sia, ore dopo, quando anche l'ultimo degli amici e dei parenti se n'è andato, e i due si ritrovano a guardarsi negli occhi e, passata la tensione, l'allegria, lo stordimento, cominciano ad accorgersi del fastidio del riso che è andato a infilarsi ovunque sia umanamente possibile, delle impronte di scarpe inopportune sul bordo dello strascico, del mal di piedi, della stanchezza, della fame. E si rendono conto di ricordare a stento il sapore del poco che hanno sbocconcellato, tra un giro tra i tavoli, uno scherzo, un bacio imposto ad alte grida, un taglio di cravatta e una quantità tendente a infinito di sorrisi dispensati prima con gioia, poi con abitudine, infine per sfinimento...
Immagino, e forse sbaglio, visto che mi addentro a tentoni in un campo che, come sapete, mi è praticamente ignoto, che in quel primo momento di vera solitudine tra neo marito e neo moglie, a entrambi venga da chiedersi, in modo esplicito o implicito: "E adesso?".
Perché è a festa finita che comincia il vero viaggio. E non sto parlando, ovviamente, di quello di nozze...
E' il primo momento in cui si fanno i conti con qualcosa di grande, bello e spaventoso come l'eternità.
Perché anche ora che siamo colmi di disillusione fino alla punta dei capelli, cinici, prosaici e materialisti (me compresa), in qualche modo lo sappiamo che l'amore avrebbe il diritto di durare sempre: è la sua natura. E sappiamo che se e quando finisce qualcosa si spezza dentro di noi e, pure se ci illudiamo di poterlo riplasmare a nostro piacimento, sappiamo che, in realtà, non è di creta, ma di cristallo. E non c'è Superattak che tenga.
Questo vale di più, suppongo, per chi davvero comincia da quel giorno in poi a vivere insieme, ma credo qualcosa cambi anche per chi, come ormai capita spesso (e lo capisco), al matrimonio ci arriva dopo anni di convivenza.
Perché anche se fanno di tutto per convincerci del contrario, da qualche parte di noi lo sentiamo ancora bruciare il valore di una promessa, che sia fatta davanti a un sindaco o a un prete, e abbiamo coscienza del dolore che può provocare - a noi, all'altro/a e agli altri - non essere in grado di mantenerla.
E adesso? E adesso non vi resta che giocarvela, Meg & Fra. E sono certa che ci riuscirete.
Avete il passo lungo e tranquillo dei montanari, senza scatti brucianti né corse inconsulte, discreto, poco appariscente, forse, lontano anni luce da quello che sfoggiano gli amori da rotocalco; ma per questo assai più adatto ad andare lontano, a scalare le montagne dell'abitudine, dell'ordinarietà, persino del dolore, conservando fino al termine del cammino quel tanto di forza che basta per potervi ancora stupire l'uno dell'altra.
Auguri!

martedì 17 giugno 2014

Lessico familiare (Ipsa dixit)

L'ultima volta che io, Costi & Dani, il temibile trio, ci siamo incontrate nel giardino incantato di quest'ultima, insospettabilmente incastrato tra le case dell'Oltretorrente e con tanto di lucciole, tra una chiacchiera e l'altra, abbiamo osservato che, negli anni, abbiamo accumulato un notevole e variopinto repertorio di frasi celebri: alcune sono state pronunciate "una tantum" ma talmente azzeccate da meritare di essere ricordate; altre sono entrate ormai nel repertorio di tutte le ciose, come una sorta di "lessico familiare", da utilizzare all'occorrenza quasi come un segno di riconoscimento che, al di là del significato più o meno serio o faceto, strampalato o arguto, racconta molto di ciò che siamo e che siamo diventate camminando insieme.
Ecco dunque l'idea di raccoglierne qualcuna. Non tutte sono originali, lo sappiamo, ma tutte sono diventate nostre perché hanno avuto, in qualche modo, la ventura di incarnare lo spirito ciosesco che aleggia in tutte noi.
Comincio senz'ordine, come mia cattiva abitudine, ma invito le mie colleghe crestate e piumate a rimpolpare a piacere l'elenco e a segnalarmi lacune e aggiornamenti.

1) Dopo Ferragosto è già Natale (Costi)
Utilizzabile a piacere dal 16 agosto al 23 dicembre, provoca reazioni diverse tra le ciose: ad alcune s'illuminano gli occhi al pensiero della stagione fredda alle porte e delle relative festività; mentre getta altre nel più totale sconforto da fine dell'estate. Da pronunciare con cautela…

2) Siamo giovani ormai da tempo immemorabile (Dani)
E' la frase da cui è nata l'idea di inaugurare questa nuova categoria del nostro blog. Pronunciata nella sera di cui vi dicevo sopra, parlando del fatto che ormai ci capita sempre più spesso di trovarci a lavorare con gente molto più giovane di noi e a dover incassare elegantemente il colpo. Usatela con la dovuta dose d'autoironia una volta superati i trent'anni.

3) Dal caos nasce una stella (Costi)
E' l'espressione più calzante - e poeticamente consolatoria - spesso usata per descrivere lo stato (pietoso) delle stanze d'albergo occupate da due o tre di noi durante le vacanze o le gite; ma può valere anche per le nostre camere (o, addirittura, case) colme di libri, fotografie e ricordi, o per i nostri armadi, soprattutto a ridosso del cambio di stagione. Può indicare anche che il pensiero creativo ama sguazzare nel disordine: noi ne siamo la prova!

4) Calpurnio Pisone! (Cri)
Di base è un insulto, nato dai trascorsi classici dell'ideatrice: è un modo decisamente arzigogolato di trasformare la ben nota e diffusa parolaccia iniziante per "ca" in qualcosa di totalmente diverso, tanto da lasciare spiazzato l'eventuale interlocutore e insinuargli più di un dubbio sulla vostra sanità mentale.
PS: non chiedete a Cri chi fosse C.P., ma cercatelo su Google, perché lei non se lo ricorda più!

5) Radunate il ciosame (o ciosume)! (Francesca)
E' l'appello deciso e marziale della nostra presidentessa. In genere è usato per chiamarci a una foto di gruppo in occasione di matrimoni, battesimi ed altre festività alle quali siamo ben liete di partecipare.
Si rivela, invece, perfettamente inutile nel caso occorra invitarci a sedere attorno a una tavola: in genere... siamo già lì!

To be continued...

venerdì 6 giugno 2014

Scent of a woman?

Le petunie si ricordano solo a sera di possedere un profumo e, di questa stagione, lo spargono con discrezione accanto a quello, assai meno discreto, di tigli, ligustri, rose e gelsomini : praticamente un aerosol di primavera, talmente dolce che basta chiudere gli occhi e respirare a fondo per sentire il miele tra le labbra...
Le petunie, invece, sono timide o, forse, semplicemente smemorate.
Comunque sia, quando le sento, mi capita di pensare se anche a me, per caso, non sia capitata la loro stessa sorte: forse anche a me toccherà aspettare fino a sera per riuscire, finalmente, ad essere la persona che vorrei.
E mi starebbe anche bene - infondo mi piacciono le petunie - se non temessi di appassire nell'attesa.

sabato 24 maggio 2014

Motori & sentimento


Nei miti altrui è bene entrare in punta di piedi. Lo so da quando una compagna di classe delle medie se ne uscì a dire che Vasco Rossi era bello. La guardai allibita, perché già mi era difficile digerire che fosse bravo, ma bello proprio no! Da allora, però, ho cominciato a capire un po' di cose e a diventare più tollerante. Anche perché a me piace la gente capace di coltivare passioni, pure quelle che fatico a comprendere. E ancor di più mi piace quando qualcuno ha voglia di condividerle con me: la ritengo una dimostrazione d'amicizia e di fiducia bella come poche altre. E, poiché sono anche curiosa, può capitare che qualche passione altrui mi si appiccichi addosso e mi piace parecchio, perché oltre alla gioia di scoprire qualcosa di nuovo, c'è anche il piacere di condividerlo con qualcuno a cui voglio bene.
Poi, è chiaro, se mi venite a dire che collezionate tarantole non aspettatevi grandi slanci d'entusiasmo…
Tutto questo pippone era solo per raccontarvi, con vergognoso ritardo, quel che mi è capitato lo scorso primo maggio, quando Dani ha proposto all'urbi et orbi un "pellegrinaggio" a Imola in occasione dei vent'anni dalla morte di Ayrton Senna e io ho risposto all'appello, anche se in vita mia ho guardato mezzo gran premio solamente perché costretta, e non ho la più pallida idea di cosa sia una chicane...
Una volta accomodate sul treno Dani, con perfetta coerenza, estrae dalla borsa "Suite 200. L'ultima notte di Ayrton Senna" di Giorgio Terruzzi, che pare sia ben scritto e ha pure una bella copertina, e si attira gli sguardi di altri due passeggeri parecchio nerd diretti alla nostra stessa meta. Io viaggio con le "Lezioni americane" di Calvino, ma una sbirciatina al libro di Dani non me la lascio scappare. D'altronde la sottrazione di libri altrui durante i viaggi o le vacanze è uno sport che mi riesce bene, vero Costi?
Attraversiamo un buon tratto di pianura padana in una giornata di nuvole e sole. Arrivate a Imola raggiungiamo a piedi l'autodromo. Dani ricorda la strada: sempre dritto oltre il (grazioso) centro della città e poi lungo un viale alberato fiancheggiato da casette vagamente liberty alternate a palazzine moderne, con gruppi di vecchietti seduti a conversare sulle panchine: una bella immagine della migliore provincia italiana.
Annusiamo la vicinanza dell'autodromo dall'infittirsi della gente, spesso rossovestita e/o sfoggiante bandiere brasiliane, e dal rumore di motori. Non ho mai messo piede in un autodromo e confesso di essere un tantino intimidita, ma l'impatto è positivo: c'è il monumento alla Ferrari, ovviamente, che, ad essere sinceri, col suo cumulo d'auto, pare più l'insegna di uno sfasciacarrozze, e l'alta torre grigia e rossa che sovrasta la pista con l'immancabile cavallino sul terrazzo. Tutto attorno c'è un parco lungo il fiume, dove si mescolano imolesi che portano a passeggio cani e/o bambini e preparano il picnic sulla riva e persone che, come noi, si concedono un giro largo per visitare da fuori la curva maledetta e il monumento al pilota. In entrambi i luoghi, appesi alla recinzione ci sono fiori, bandiere, poster, pensieri in tutte le lingue. Anche Dani, giustamente, lascia il suo.
La statua di Ayrton è bella: se ne sta seduto su un plinto di bronzo, arruffato e malinconico come appare in molte fotografie, guarda la pista oltre gli alberi e sembra quietamente rassegnato all'entusiasmo dei fan che gli si raccolgono attorno. C'è persino un tizio in tuta e casco da pilota che pretende, con scarso successo, di essere un suo sosia, ma è talmente convinto che nessuno oserebbe infrangere il suo sogno…
Entriamo. La folla è varia e colorata: ci sono famiglie con bambini, giovani e anziani, italiani e stranieri.
Ci accolgono auto, ovviamente, di tutte le epoche, compresa una fragorosa Fiat del 1910 che pare un incrocio tra un missile e un trattore e un bolide blu di cui (tipicamente femminile, lo so) non ricordo marca né modello, ma soltanto lo splendido colore. Quando Dani mi informa che, volendo, era possibile prenotare un giro di pista con la propria automobile non posso fare a meno di immaginarmi a bordo della mia vecchia utilitaria verde con tanto di casco mentre mi faccio superare (e insultare) da Ferrari, Porsche, Audi e altre diavolerie a motore: sarebbe stato surrealmente divertente!
Attendiamo il momento il cui è prevista una specie di cerimonia sul luogo e all'ora dell'incidente addentando una molto romagnola piadina con salsiccia sulle gradinate della pista; da lì vediamo passare ex piloti e giornalisti, che Dani riconosce. Passa anche la banda e quella che ha tutta l'aria di essere una "processione laica" può iniziare. Le auto si fermano e percorriamo qualche centinaio di metri a piedi lungo la pista: è strano vederla così, piena di gente che procede lenta anziché di macchine.
L'erba ai lati della striscia d'asfalto è morbida, tagliata di fresco, le recinzioni e i muretti di confine hanno un che di minaccioso, quasi quanto i nuvoloni che ci incombono sulla testa mentre si tengono i discorsi ufficiali in un turbinio di flash e di tablet e smartphone levati altri sopra le teste. L'atmosfera è mesta - nessuno dimentica che si tratta di ricordare una vita ad alta velocità finita a 34 anni - ma anche gioiosa, da festa di paese.
Finita la cerimonia, torniamo ad aggirarci tra i paddock (mai entrata in un paddock prima: era già tanto che sapessi come si chiamava!) e il museo, visitando tutto il visitabile: auto e cimeli del campione e soprattutto tante, tantissime fotografie. E tanto le auto sono tirate a lucido, tanto Ayrton nelle foto ha un che di stropicciato e vagamente dolente persino quando sorride sul podio. Al di là del talento e della brutta fine che lo hanno reso un eroe, basterebbero quelle immagini, così disarmanti, a spiegare perché, dopo vent'anni, sia rimasto nel cuore di tante persone. Mettiamo anche noi la firma su uno dei pannelli della mostra, accanto a parecchie centinaia d'altre, prima di andarcene.
Rifacciamo all'inverso la lunga passeggiata per la stazione, fermandoci però a fare un giro attorno al duomo e alla rocca, trovando tempo anche per un sacrosanto gelato.
No, Dani, no, davvero, non mi sono affatto annoiata come tu premurosamente temevi, anzi: ho visto cose nuove e interessanti, ho imparato qualcosa e ho trascorso decisamente una bella giornata. E questo mi pare sia già più che sufficiente. Ah, no, dimenticato: mi hai permesso di condividere con te un ricordo importante, uno dei tuoi miti e questo, se possibile, è ancor meglio di tutto il resto. Grazie.
Saluti rombanti!

venerdì 2 maggio 2014

La belle e-coque!

G. Kienerk: Il dolore, il silenzio, il piacere.
E così, dopo Campigli e Klimt, la nostra immersione nel ribollire dei movimenti artistici tra Ottocento e Novecento si è conclusa alla mostra del Liberty a Forlì.
Immersione nel vero senso della parola, vista l'acqua che veniva mentre si passeggiava per il centro semideserto della cittadina emiliana, inzuppandoci d'umidità almeno quanto ci siamo inzuppate di cultura. Ma va bene così: pioggia, gita e ciose è un trittico consueto e accettabile, visto che, se c'impegniamo, possiamo far venire anche la grandine!
Temevamo la coda e invece, benché le sale più piccole fossero piuttosto gremite, siamo riuscite ad entrare subito e a girare per bene la mostra, che si apriva, con mia grande gioia, con un quadro di Edward Burne-Jones e due citazioni poetiche: D'Annunzio - inevitabile, vista l'epoca dei quadri e la loro sottile sensualità, insieme elegante e inquietante - e il "mio" Guido Gozzano, con il suo ritratto della "preraffaellita", serio, sì, ma fino a un certo punto. E di Guido e Gabriele (sic) erano in mostra anche alcune prime edizioni dei libri, con illustrazioni fatte dai migliori artisti italiani che abbracciarono il nuovo stile. Stile che, complice l'espandersi di una società industriale, non è rimasto confinato negli atelier, ma ha riguardato la letteratura, l'architettura, l'arredamento (mobili e suppellettili, ceramiche, pizzi e vetrate), la moda e la pubblicità. Che meraviglia le locandine delle opere di Verdi e Puccini, i manifesti di località turistiche, lampade a gas e prodotti di bellezza: "novissime cose" di un tempo che faceva di tutto per essere moderno.
E, ancora una volta, donne: tante, maggiormente consapevoli del loro ruolo nella società e, forse proprio per questo, viste dai pittori con un misto di timore e reverenza: non più - o non solo - angeli o demoni, ma... entrambe le cose. Ocio!
E tanta mitologia, giusto per gradire, classica e persino nordica, in omaggio alle radici decisamente europee di questa tendenza dell'arte.
E natura, che da sfondo quasi realistico della figura umana tende a diventare protagonista dell'opera col suo rigoglio decorativo contorto e trabordante, elegante come pizzo, soffocante come edera.
Curiosamente ci siamo ritrovate, noi tre donne ad ammirare due trittici composti da tre donne con significati simbolici: quello di Kienerk e quello del "nostro" Amedeo Bocchi. Sulla figura centrale del primo, che è stato scelto per le locandine della mostra, abbiamo cominciato a sproloquiare fin da quando ci ha accolto all'uscita dalla stazione in un vistoso manifesto: "Mmmmh, perché tiene le mani davanti alla bocca? Non è molto rassicurante..." "Già, forse sta trattenendo un insulto a noi visitatori". "No, secondo me ha mal di denti". "No, secondo me è costipata...". E avanti di questo passo, finché non abbiamo scoperto che la fanciulla in blu notte era "Il silenzio", mentre le sue vicine di cornice erano "Il dolore" e "Il piacere". Nelle tre tele di Bocchi, invece, le tre donne sono "La colta", "La saggia" e "La folle" e ci è sorta spontanea la domanda: "Ma io... con quale mi identifico?" Dopo essere state tentate dirispondere all'unanimità "Con la terza!", abbiamo convenuto che c'è un po' di tutte loro in ognuna di noi. O viceversa?"
A. Bocchi: La colta, la saggia, la folle.
Dopo tre ore di lenta e dolce cottura, e rimpiangendo un poco di non avere il tempo e la pecunia necessarie per partecipare al laboratorio di ricamo, siamo riemerse affamate e ci siamo rifugiate (a un'ora inconfessabile) in un bar-trattoria dove, pur fuori tempo massimo, ci hanno sfamate a suon di crostini, pasta ben condita e fumante, dolce e caffè.
Nell'attesa, con ancora negli occhi un turbinio di forme sinuose, spirali, fiori e piume, e davanti al naso un'innocente tovaglietta di carta giallastra, mi sono messa a disegnarci sopra con la biro, imitando con scarso successo le chiome infinite e corpose delle fanciulle (che invidia!), e le ricche decorazioni dei fondali, fingendo di avere 6 anni anziché 36.
Dopo aver deciso a malincuore di abbandonare il rifugio caldino del bar, siamo tornate in centro, dove siamo riuscite a visitare l'abbazia di San Mercuriale, in un angolo della grande piazza, e il Duomo, leggermente defilato, alle spalle del Municipio. Entrambe le chiese passate - come tante altre - per innumerevoli vicissitudini e ricostruzioni; ma se, per la prima, ci sono andati con mano più leggera e l'impianto antico resta leggibile nel pavimento in cocciopesto, che digrada verso l'altare, e nella penombra spoglia delle arcate; con la seconda, invece, ci sono andati più pesanti e il guazzabuglio di forme e stili si armonizza solo per (ehm)... Grazia di Dio?!
Abbiamo rinunciato alla visita alla Rocca per raggiunti limiti di stanchezza e di umidità e per non rischiare di perdere il treno del ritorno. Il problema è che, arrivate in stazione, abbiamo scoperto che il treno si era perso non si sa bene dove e perché. E i minuti di ritardo si sono andati accumulando, annunciati un po' per volta con sadica profusione di scuse, e sono arrivati a 50! Ci siamo consolate con un tè bollente. Quando il convoglio, figlio di buona locomotiva, si è deciso a comparire era, ovviamente, gremito. Siamo riuscite a sederci soltanto a Bologna e, toccato finalmente il suolo parmigiano, ci ha accolto un clima assai poco primaverile, e siamo rincasate invidiando le nostre colleghe dipinte che se ne stanno al calduccio di sfondi dorati ed eterne primavere...
Saluti floreali!

mercoledì 23 aprile 2014

Icone, anfore, clessidre, angeli pallidi e inquieti: le donne di Klimt e Campigli

Carte scoperte, per cominciare: fino due settimane fa del pittore Massimo Campigli ignoravo l'esistenza. Da domenica scorsa, dopo la visita alla mostra a lui dedicata alla Magnani Rocca, devo dire che mi è simpatico, ammesso che il termine, più adatto a indicare il rapporto con un amico, possa essere usato per descrivere l'apprezzamento per un artista.
Però, come sapete, io amo le curiose coincidenze e appena ho appreso che questo tedesco-fiorentino, che fu anche soldato e giornalista, cominciò a pensare di darsi alla pittura folgorato da una visita al museo etrusco di Villa Giulia a Roma non potevo non rimanerne colpita.
Anch'io ho amato quel museo, visto all'ora di chiusura una settimana dopo aver compiuto venticinque anni (la bigliettaia mi fece ugualmente lo sconto riservato ai giovani: è stata l'ultima volta!). E' una bellissima villa rinascimentale che un eccentrico collezionista, nell'Ottocento, allestì a museo in un angolo defilato del parco di Villa Borghese, ricolma di vasi greci, sarcofagi etruschi, ori antichi e altre meraviglie. Eravamo praticamente sole allora, io e mia cugina, e ricordo i custodi che ci chiudevano le porte alle spalle in silenzio, appena ci decidevamo ad uscire da una stanza. E ricordo i sorrisi indecifrabili - tipici dell'arte etrusca - sulle labbra di dei e defunti, accomunati da una strana eleganza di forme essenziali e geometrizzate, antiche ed eterne.
Anche le donne di Campigli sono così: stilizzate, geometriche, innaturali, eppure eleganti. Un curioso riassunto di epoche e stili che vanno dalle civiltà arcaiche (minoici, egizi, etruschi) alle arti tradizionali africane fino ad arrivare ai suoi contemporanei: Picasso, De Chirico, De Pisis. Con quest'ultimo condivide i colori chiari e polverosi, che paiono visti attraverso una tenda in un giorno particolarmente assolato.
Dipinge quasi esclusivamente donne, Campigli. I critici dicono che sia per via della sua curiosa biografia: figlio di una ragazza madre tedesca, che lo affidò ai nonni in Italia per evitare scandali e lo andava a trovare di tanto in tanto facendosi chiamare zia. Le sue donne, dunque, sarebbero dee madri, inafferrabili eppure (e proprio per questo) adorate.
Hanno petti e fianchi larghi e vitini innaturalmente sottili, ma sono quanto di più lontano possibile dalle pin-up o dalle donne grottesche e discinte disegnate, che so, da Fellini, che mi sta anche per questo un po' antipatico (chiedo scusa ai cinefili).
Le donne di Campigli, mi pare, non sono oggetto di desiderio, non in maniera esplicita almeno, piuttosto di ammirazione curiosa e un poco timorosa: sono anfore e clessidre che contengono misteri insondabili; attraggono, ma, allo stesso tempo, con la loro rigidità e la profonda fissità degli sguardi, mettono in guardia dall'avvicinarsi troppo, dal pretendere di capire e giudicare.
E così anche un'adolescente dei suoi tempi, pur somigliante all'originale, diviene una dea senza tempo, che ti guarda con occhi fissi e sgranati come le steli del Fayum: il caschetto, pur perfettamente riconoscibile, diviene un'aureola quasi bizantina e il vestito dalle geometrie optical anni '60-'70 diviene un'armatura degna di una divinità precolombiana, dipinta, però, con colori chiari e gessosi, da affresco medievale.
Ben diverse sono le donne di Klimt, viste a Palazzo Reale Milano dopo una lunga coda sotto l'acqua (e ti pareva!), affrontata da me e Dani con quieta rassegnazione e il conforto di due bomboloni abbondantemente zuccherati. Neppure in loro mancano i riferimenti al passato, perlopiù biblico o mitologico: c'è Eva, che con la sua pelle bianchissima, gli occhi felini e i lunghissimi capelli dorati (che invidia!) ruba la scena a un Adamo che emerge, terreo, dallo sfondo; c'è Giuditta, elegantissima e sfuggente, che regge la testa del povero Oloferne come fosse una pochette (fa un po' Daverio detta così...); ci sono sinuose ninfe di fiume dalle chiome improbabili e ammalianti figure non meglio definite, circondate da fuochi fatui. Sono anch'esse figure divine, in un certo senso, ma in un modo del tutto diverso: sono inquiete e inquietanti, un poco perverse e pericolose; creature da cui sarebbe bene stare alla larga, se non fossero dannatamente affascinanti. Anche in questo caso, forse, centra qualcosa la compagna del pittore: una stilista assai moderna e anticonformista.
Comunque sia, si va dalle donne angelo di Campigli alle tentatrici di Klimt: un classico anche in letteratura da cui ancora fatichiamo a staccarci. Forse perché, infondo, un po' ci piace. Ammettiamolo: una volta nella vita anche a noi, arruffate e prosaiche donne del ventunesimo secolo, piacerebbe essere guardate con gli occhi di questi due pittori e sentirci antiche, inafferrabili e affascinanti, deliziosamente pericolose; poi, per fortuna, ci passa, e ci godiamo la visione di queste nostre sorelle bidimensionali appese alle pareti con la consapevolezza di possedere, almeno, tutto un altro spessore. E non sto parlando dei chili di troppo!

mercoledì 16 aprile 2014

Hai abbracciato la tua gallina oggi?

Scusate, ho un post quasi serio in sospeso da giorni, ma questa non potevo esimermi dal pubblicarla!
Una botta di tenerezza piumosa prima di Pasqua ci sta anche bene. Che dite?

martedì 8 aprile 2014

Hens on stage!

Oh, questa proprio non me l'aspettavo! Tanto che me ne sono uscita con un'esclamazione di stupore nel bel mezzo dell'autobus, guadagnandomi, tanto per cambiare, qualche più che giustificato sguardo di compatimento. Ma ne valeva la pena perché, leggendo il Coriolano di Shakespeare (se avete letto i post precedenti sapete che non è affatto una scelta casuale), ho trovato questi versi:

"Thou hast never in thy life
Show'd thy dear mother any courtesy,
When she, poor hen, fond of no second brood,
Has cluck'd thee to the wars and safely home,
Loaden with honor."


"Tu non hai mai, nella tua vita/ mostrato alla tua cara madre alcuna cortesia, / mentre lei, povera chioccia, che non si affezionò a una seconda covata, / ti ha accompagnato starnazzando alla guerra, e poi sicuro a casa,/ carico di onori."

Direi che sono perfetti per la nostra raccolta di "galline famose". E' la scena terza dell'atto quinto. A parlare è Volumnia, la madre di Coriolano, che da lei ha preso un caratterino alquanto indomito.
Per capirci, in una delle sue prime apparizioni, l'augusta matrona se ne esce con la seguente frase: "Ho un cuore poco malleabile come il tuo, ma ho un cervello che mi guida ad usare la mia rabbia per un vantaggio migliore".
Quindi, quando si definisce "povera chioccia", usando la parola "hen", proprio come noi in questo blog, non c'è molto da crederle. O meglio, diciamo che della chioccia, proprio come proviamo a fare noi, essa coglie gli aspetti migliori: è intelligente, decisa (a volte persino spietata) e capace di tener testa non solo al figlio, ma anche alla maggior parte degli uomini presenti sulla scena. E' ferocemente legata all'onore della sua famiglia, ma dotata di sufficiente buonsenso per sapere quando è il caso di rinunciarvi.
Niente male, no?
E bravo il vecchio Will!


mercoledì 2 aprile 2014

Uomini & donne

"We're all stories, in the end. Just make it a good one!" 
(Doctor Who)

Perdonatemi il titolo da Maria de Filippi!
Latito, lo so, e me ne scuso. O forse non dovrei? Magari è un sollievo per gli sventurati lettori. Fatto sta che mi secca non mantenere gli impegni, anche quelli non scritti come quello di portare avanti questo blog. Il fatto è che avere una tv e una rete adsl a propria completa disposizione istigano a perdersi tra strane scoperte in streaming e seconde serate.
Comunque sia non perdiamoci in prologhi. Stanotte (ieri notte per chi legge) parliamo di uomini.
Smettete di ridere, per favore! Benché questa frase pronunciata da me suoni un ossimoro, proviamo ad essere seri.
Mi ha molto colpito, nel commento di Chiara (grazie!) al post precedente, l'aver scoperto che suo marito è un nostro lettore. La cosa mi fa piacere, ovviamente, ma un po' mi impensierisce, in senso buono, però.
Mi sono sempre chiesta, fin dall'inizio di questa avventura, in che modo un blog scritto da donne potesse essere letto dagli uomini. E, poiché l'idea generale è che, laddove si scrive e si parla alle donne gli argomenti principali debbano essere vestiti, trucchi, scarpe, pettegolezzi, cucina, bambini e uomini (preferibilmente belli, ricchi e famosi), non necessariamente in quest'ordine, vado particolarmente fiera del fatto che, negli anni, in questo pollaio le cose siano andate un po' diversamente.
Abbiamo parlato di ricordi, di viaggi, di libri, di film, musica; condiviso dubbi, riflessioni, esperienze e qualche sana sciocchezza. Insomma, abbiamo fatto un bel minestrone che di certo non è servito a rendere il nostro blog popolare: per quello era meglio specializzarsi in qualcosa di più definito e appetibile; ma non credo che questo ci sia mai importato. E le 10-15 (ma a volte anche 2 o 3) visite giornaliere sono più che sufficienti, anzi, a me personalmente stupiscono ancora...
Certo, abbiamo parlato anche di cucina, ma senza indossare i panni di una Parodi Padana. Abbiamo parlato di bambini (figli, alunni, amici) senza però infiocchettarli, ma mescolando all'indubbia tenerezza una dose massiccia di senso di responsabilità nei loro confronti, non solo in quanto madri, maestre, donne, ma in quanto persone adulte con cui questi piccoli si sono trovati a confrontarsi.
E abbiamo persino, come dicevo, parlato di uomini. Ho parlato di uomini. A volte anche molto male. E immagino che qualcuno degli sparuti lettori dell'altra metà del cielo si sarà pure seccato: "Eccola qui, l'ennesima zitella frustrata che se la prende con gli uomini perché non se la sono mai filata; e va in cerca di qualcosa che non esiste così è sicura di non trovarlo perché ha una dannata paura di mettersi in gioco". Sapete che risponderei a un lettore del genere? "Hai ragione, caro, e ne sono consapevole; ma non è tutto".
Perché, ripercorrendo gli oltre 250 (!) post accumulati qui dentro, mi sono resa conto che di alcuni ho parlato anche bene o, almeno, ho desiderato descriverli qui per fissarli nella memoria e per ringraziarli di avere incrociato in qualche modo la mia strada.
Ci sono i due cavalieri milanesi, anche detti "il diavolo e l'acqua santa"; l'informatico che passa con nonchalance dal codice html alle citazioni di poesie e canzoni, l'attore che mi perse, protettivo, per i carugi di Genova, l'intrigante veneziano (la definizione è un prestito da Hugo Pratt, che a lui piacerebbe), lo zio pittore, la cui memoria mi sono portata nella casa nuova assieme a un paio dei suoi quadri, il mio primo amico d'infanzia, compagno di piratesche battaglie giocate sul parquet delle rispettive camerette; mio padre, ovviamente, e il mio capo, che nomino tanto spesso che a qualcuno è persino venuto in mente possa esserci qualcosa sotto. Sappiate che questo mi addolora.
Da nove anni a questa parte è l'uomo con cui trascorro il maggior numero di ore la settimana e, oltre alle imprese di lavoro, inevitabilmente, abbiamo affrontato insieme momenti di gioia e di tristezza, discutendo, scherzando, litigando, o confessandoci a vicenda a cuore aperto, come persone adulte che, nel tempo, hanno imparato a fidarsi un poco l'una dell'altro. E questo è quanto. E il fatto che sia uomini sia donne fatichino a capire una cosa così semplice mi spaventa e mi rende ancor più cauta e chiusa di quanto vorrei essere.
E, tralasciando volutamente le citazioni di attori, scrittori ed altri personaggi che hanno animato questo blog, ma sempre più con il loro talento che con la loro eventuale (e pur gradita) avvenenza, l'elenco potrebbe continuare, perché di certo ho dimenticato qualcuno.
Mi sono divertita a cercare di render giustizia ai loro gesti e alle loro parole, forse più di quanto non mi diverta quando descrivo una donna, perché, probabilmente, questo è uno dei pochi mezzi che ho per muovere qualche passo, a mio modo, in un universo a me piuttosto sconosciuto.
Ho parlato di loro come colleghi, amici, fratelli, ma soprattutto, come persone. E se con gli uomini a volte è davvero difficile capirsi, con le persone che sanno cogliere la comune umanità dell'altro, fatta di forza e fragilità, si può sempre trovare il modo di comunicare e convivere. Questo per me è l'importante. Spero lo sia anche per loro.

giovedì 13 marzo 2014

Incespicando

Così, in punta d'anima e matita,
si snoda, incespicando, la mia vita.

Non so cos'è: un distico? Via, non facciamo rivoltare Ungaretti e compagni nella tomba!
Comunque sia mi si è appiccicato addosso ieri sera sull'autobus e non se n'è più andato. Così ho pensato bene (o male?) di dedicarvelo.
Ma niente paura: l'ultima volta che ho pubblicato qualcosa del genere è stato tre anni fa. Prometto che lascerò passare almeno altrettanto tempo prima di riprovarci.
Saluti e rime baciate!

giovedì 6 marzo 2014

Angry chickens!

Un'altra gallina letteraria, fanciulle piumate, da aggiungere alla nostra personale collezione di "colleghe" immortalate in libri, film, quadri e canzoni. In realtà si tratta di un pollo, ma non stiamo qui a cercare il pelo nell'uovo, su!
Scusate se ultimamente latito (ma potreste sempre rimediare anche voi, vero?!) e quando non latito mi do ai titoli anglofoni, millantando conoscenze che non ho; ma stavolta non ho resistito alla tentazione di parafrasare il famoso videogioco.
Basta con le premesse. Ecco la citazione.

"Era nervosa, aveva bevuto troppo, e i suoi occhi avevano la fissità un po' irosa di quelli di un pollo".
(John Fante, Chiedi alla polvere)

Siete mai state guardate da una gallina? Immagino di sì. A me è capitato spesso, soprattutto quand'ero bambina, e devo dire che la descrizione di Fante è perfetta: c'è qualcosa di buffo, infatti, in quell'occhiata dal sotto in su con il capo piegato un po' da un lato; ma c'è anche una certa fierezza, tanto che vien facile immaginare che, mentre tu guardi incuriosita lei ("Toh, una gallina!"), lei faccia più o meno lo stesso con te ("Toh, un essere umano"), ma viene anche il sospetto che lei, in realtà, stia pensando: "Va bene, sei grande e grossa, ma non credere di potermi fregare: non sono un'oca io, dopotutto!"
Tornando al libro, diciamolo: il protagonista, nonché narratore interno della storia, mi sta cordialmente antipatico, con le sue frustrazioni da aspirante scrittore squattrinato e nullafacente e, ancor di più, con il suo modo di interagire con le donne che, non si sa bene come, hanno la strana abitudine di entrargli in camera di notte senza nemmeno che lui glielo chieda, salvo poi essere trattate con qualcosa che sta tra l'idealizzazione sensual-letteraria e il più becero maschilismo.
Ok, mi rendo conto che è una recensione molto parziale e limitata di una delle opere più celebri della letteratura americana e ammetto che leggerlo mi ha incuriosito; ma a parità di amori strampalati, devo dire che preferisco molto di più (e capisco assai più facilmente) quello assoluto, poetico e distruttivo del povero Jay Gatsby di Fitzgerald, la cui sfolgorante e contraddittoria New York anni Venti è, a tutti gli effetti, coprotagonista del racconto.
Chissà perché ma gli amori impossibili finiscono sempre per attrarmi di più di quelli reali, forse perché sono gli unici in grado di restare immuni dall'abitudine e dalla disillusione. Purtroppo.
Saluti in punta di penna!

lunedì 3 marzo 2014

Citazioni (postmoderne?)

Tempo fa un amico, leggendo un mio status su Facebook, nel quale ero riuscita, non so bene come, a tirar fuori una frase di senso compiuto unendo i titoli di tre canzoni dei Queen, mi ha scritto che parlare per citazioni è postmoderno.
Ora, ammetto di non avere un'idea esatta di tutte le implicazioni del termine, ma poiché l'amico si occupa di semeiotica in un'università belga, immagino abbia ragione; e, anche se dubito che il suo fosse propriamente un complimento, vi dirò che non mi dispiace: infondo non capita tutti i giorni di essere definiti "postmoderni"; mentre mi è capitato, purtroppo, di esser chiamata in modi assai peggiori.
 Però è vero: mi piacciono le citazioni. Le spargo a piene mani anche nel blog, sia esplicite, sia implicite, divertendomi a volte a infilare tra le mie povere parole quelle, ben più ricche di storia, senso e dignità, di qualcun altro. Mi capita anche di pensarle, talvolta, e, raramente, anche di dirle, quando qualcuna sembra adattarsi alla perfezione a una situazione che sto vivendo.
Suona un po' snob, me ne rendo conto: "eccola qua la tipa che si riempie la bocca di frasi altrui per far vedere che ne sa..."; ma in realtà, per me, la faccenda è completamente diversa.
Intanto sono perfettamente consapevole che quel poco che mi ricordo e che posso, all'occorrenza sfoderare, è ben misera cosa rispetto a quel che potrebbe fare chi davvero ne sa di poesia e di letteratura (ma anche di musica e di cinema!), e che per una citazione che sono in grado di cogliere leggendo qualcosa o ascoltando qualcuno, ce ne sono almeno il triplo destinate a sfuggirmi perché ne ignoro la fonte.
Detto questo, per me le citazioni, quando riesco a ficcarne qualcuna in un contesto perlomeno coerente, non sono affatto uno sfoggio di bravura. Sono, invece, qualcosa di bello da condividere; qualcosa in grado di spiegare assai meglio di me quel che provo o di aiutarmi a descrivere meglio - con parole già ben pensate e ben scritte da altri - quello che, altrimenti, mi sarebbe assai più difficile raccontare.
Certo, sono anche un modo per inserire, in un certo senso, le nostre piccole vite in qualcosa di un poco più grande e intrigante: perché se qualcuno ha già compreso e definito una situazione o un sentimento vuol dire che anche lui (o lei) l'ha provato, in tempi recenti o remoti. E questo fa sentire assai meno soli e sguarniti.
Le citazioni, inoltre, hanno il potere quasi magico di farci vedere anche le cose più banali con occhi diversi, dando loro maggiore dignità.
Provate a sedervi in un cortile circondato da una siepe e a recitare a mente L'infinito di Leopardi, o a passeggiare per Genova con in testa la "Litania" di Caproni (ma van bene anche le canzoni di De Andrè), e non farete nessuna fatica a capire cosa intendo: il nostro orizzonte si amplia e anche i particolari apparentemente insignificanti possono farsi portatori di meraviglia.
E poi le citazioni fanno compagnia: perché, nonostante sia molto facile oggi avere accesso in un balzo a un gran numero di informazioni, le frasi (e le scene, e le immagini, e le note) che ci ricordiamo a memoria, sono quelle rimaste incise da qualche parte del cuore, e non ci abbandoneranno mai anche e soprattutto nelle occasioni in cui avere un computer, un tablet o uno smartphone con accesso superveloce a internet si rivela perfettamente inutile per affrontare e risolvere un problema (o tentare almeno di non venirne travolti).
Per questo siamo autorizzati a "prenderle a prestito" al momento del bisogno, come sosteneva Il Postino dell'omonimo film.
Per questo venerdì, al lavoro, quando un insospettabile ingegnere se n'è uscito non con una citazione ma, addirittura, con una specie di "adattamento" di un verso di Ungaretti, che ho riconosciuto subito, sono stata fortemente tentata di abbracciarlo.
Perché un'altra cosa bella delle citazioni è che ci possono fornire una chiave d'accesso alle persone, sorprendente, ma delicata, che ci permette di svelare qualcosa di loro che non immaginavamo e, se siamo particolarmente fortunati, anche di comprenderlo profondamente, senza bisogno di complesse spiegazioni. Infatti, se non è poi così strano aver fatto letture simili, avere gli stessi gusti musicali o cinematografici, essere in grado di citare - e riconoscere - le stesse frasi può dire molto sulla sensibilità di una persona e sul suo modo di guardare il mondo. Vi pare poco? A me no davvero!
Perché per conoscere i gusti delle persone basta fare un po' d'attenzione e avere buona memoria (e dato che io son distratta e smemorata, in genere, faccio danni); ma per conoscerne l'anima, a volte, non basta una vita e sarebbe dannatamente più importante.
Inutile dire che l'informatico di cui sopra non l'ho abbracciato: io sono sempre io purtroppo.
Però sono certa che gli sarò grata a lungo per quello che ha fatto senza nemmeno saperlo.
E anche questa è una cosa che mi piace, quasi quanto una bella citazione, che sia o no postmoderna...

mercoledì 12 febbraio 2014

Occhi

"Se voglio veramente 'vedere' qualcuno, devo chiedergli di chiudere gli occhi per riuscire così a guardarlo nella sua totalità. Il magnetismo degli occhi è così forte da impedire di vedere più in là." (Fernando Botero)

Questo post è dedicato a Dani dagli occhi nocciola, che me lo ha "ispirato" (scusami, se puoi), a Costi ed Elis dagli occhi d'ebano, a Fra dagli occhi castani, a Moki dagli occhi dorati e a Chiara dagli occhi di miele. E sì, anche alle nostre occhicerulee Betta e Meg, pure se per loro il problema non si pone. Da Cri, che ha gli occhi del più banale marrone possibile...

"Mi piacerebbe avere gli occhi azzurri". La frase, buttata lì non mi ricordo più in quale contesto, mi fa sorridere di stupore: "Anche a me!" rispondo d'impeto. E penso che a volte, a unire le persone, più che le affinità di carattere o di gusti, possano essere i sogni, magari proprio quelli apparentemente più strampalati, che solo ai veri amici si trova il coraggio di confidare, scoprendo, magari, di condividerli.
Desiderare di avere gli occhi azzurri è qualcosa di molto diverso da un semplice "mi piacciono le persone con gli occhi azzurri".
Ok, un po' è vero anche questo, ammettiamolo; ma poiché siamo ciose e non civette, né oche, nessuna di noi oserebbe mai giudicare una persona soltanto per il colore degli occhi, o per qualsiasi altro, diciamo così, particolare anatomico...
Immaginare di guardare il mondo attraverso un paio di iridi celesti e poterle, all'occorrenza, spalancarle in faccia a qualcuno, adirate o amorevoli, dunque, non è una semplice annotazione estetica, ma un desiderio di far coincidere, in qualche modo, quel che ci sentiamo dentro con quel che di noi appare fuori; il che, purtroppo, non è sempre facile.
Perché a noi, dopotutto, piacerebbe essere persone limpide e luminose, belle da vedere e da ascoltare, insomma, amabili da ogni punto di vista. E ci piacerebbe anche essere capaci osservare gli altri con uno sguardo altrettanto benevolo e positivo.
Riuscirci, ovviamente, è un altro paio di maniche. Per questo, complici forse gli eroi che ci piacevano da bambine e tutti i significati che quel colore porta tradizionalmente con sé, ci siamo fatte l'idea che vedere ed essere viste con un buon paio d'occhi chiari (anche verdi e grigi andrebbero bene: non siamo così fiscali), forse renderebbe le cose un pochino meno difficili. O forse no. Perché siamo ormai troppo cresciute e non abbastanza ingenue per non sapere che dietro facce d'angelo si possono nascondere persone spregevoli (e, per questo, ancor più pericolose), e viceversa.
Ripeto, però, questa non è una faccenda fisica, ma uno stato mentale. E, chiaramente, le lenti a contatto colorate non valgono, perché sarebbero un inganno e, dunque, il contrario del nostro desiderio di autenticità e trasparenza che, credo, si nasconda dietro questo strano sogno assurdo e impossibile; ma sapere di essere almeno in due a sognarlo è comunque una piccola, rassicurante soddisfazione...

PS: la foto è un primo piano dell'attore del post precedente: ve l'avevo detto che aveva dei begli occhi, no?
PPS: c'è anche il capitolo "mani", ora che ci penso, per chi avesse voglia di... dare un'occhiata.

lunedì 3 febbraio 2014

Fairy tale for a fair actor

Oggi vado fuori schema.
Ricordate quando, tempo fa, pubblicai la favoletta della "Gallinella rossa"?
Ora beccatevela in inglese recitata da questa curiosa creatura dal cognome impronunciabile, strano viso, begli occhi e voce profonda…
Fa tutto un altro effetto, vero?
PS: Per Dani e Moki. Sì, è l'attore che fa il cugino un po' scemo ne "I segreti di Osage Country"...