Carte scoperte, per cominciare: fino due settimane fa del pittore Massimo Campigli ignoravo l'esistenza. Da domenica scorsa, dopo la visita alla mostra a lui dedicata alla Magnani Rocca, devo dire che mi è simpatico, ammesso che il termine, più adatto a indicare il rapporto con un amico, possa essere usato per descrivere l'apprezzamento per un artista.
Però, come sapete, io amo le curiose coincidenze e appena ho appreso che questo tedesco-fiorentino, che fu anche soldato e giornalista, cominciò a pensare di darsi alla pittura folgorato da una visita al museo etrusco di Villa Giulia a Roma non potevo non rimanerne colpita.
Anch'io ho amato quel museo, visto all'ora di chiusura una settimana dopo aver compiuto venticinque anni (la bigliettaia mi fece ugualmente lo sconto riservato ai giovani: è stata l'ultima volta!). E' una bellissima villa rinascimentale che un eccentrico collezionista, nell'Ottocento, allestì a museo in un angolo defilato del parco di Villa Borghese, ricolma di vasi greci, sarcofagi etruschi, ori antichi e altre meraviglie. Eravamo praticamente sole allora, io e mia cugina, e ricordo i custodi che ci chiudevano le porte alle spalle in silenzio, appena ci decidevamo ad uscire da una stanza. E ricordo i sorrisi indecifrabili - tipici dell'arte etrusca - sulle labbra di dei e defunti, accomunati da una strana eleganza di forme essenziali e geometrizzate, antiche ed eterne.
Anche le donne di Campigli sono così: stilizzate, geometriche, innaturali, eppure eleganti. Un curioso riassunto di epoche e stili che vanno dalle civiltà arcaiche (minoici, egizi, etruschi) alle arti tradizionali africane fino ad arrivare ai suoi contemporanei: Picasso, De Chirico, De Pisis. Con quest'ultimo condivide i colori chiari e polverosi, che paiono visti attraverso una tenda in un giorno particolarmente assolato.
Dipinge quasi esclusivamente donne, Campigli. I critici dicono che sia per via della sua curiosa biografia: figlio di una ragazza madre tedesca, che lo affidò ai nonni in Italia per evitare scandali e lo andava a trovare di tanto in tanto facendosi chiamare zia. Le sue donne, dunque, sarebbero dee madri, inafferrabili eppure (e proprio per questo) adorate.
Hanno petti e fianchi larghi e vitini innaturalmente sottili, ma sono quanto di più lontano possibile dalle pin-up o dalle donne grottesche e discinte disegnate, che so, da Fellini, che mi sta anche per questo un po' antipatico (chiedo scusa ai cinefili).
Le donne di Campigli, mi pare, non sono oggetto di desiderio, non in maniera esplicita almeno, piuttosto di ammirazione curiosa e un poco timorosa: sono anfore e clessidre che contengono misteri insondabili; attraggono, ma, allo stesso tempo, con la loro rigidità e la profonda fissità degli sguardi, mettono in guardia dall'avvicinarsi troppo, dal pretendere di capire e giudicare.
E così anche un'adolescente dei suoi tempi, pur somigliante all'originale, diviene una dea senza tempo, che ti guarda con occhi fissi e sgranati come le steli del Fayum: il caschetto, pur perfettamente riconoscibile, diviene un'aureola quasi bizantina e il vestito dalle geometrie optical anni '60-'70 diviene un'armatura degna di una divinità precolombiana, dipinta, però, con colori chiari e gessosi, da affresco medievale.
Ben diverse sono le donne di Klimt, viste a Palazzo Reale Milano dopo una lunga coda sotto l'acqua (e ti pareva!), affrontata da me e Dani con quieta rassegnazione e il conforto di due bomboloni abbondantemente zuccherati. Neppure in loro mancano i riferimenti al passato, perlopiù biblico o mitologico: c'è Eva, che con la sua pelle bianchissima, gli occhi felini e i lunghissimi capelli dorati (che invidia!) ruba la scena a un Adamo che emerge, terreo, dallo sfondo; c'è Giuditta, elegantissima e sfuggente, che regge la testa del povero Oloferne come fosse una pochette (fa un po' Daverio detta così...); ci sono sinuose ninfe di fiume dalle chiome improbabili e ammalianti figure non meglio definite, circondate da fuochi fatui. Sono anch'esse figure divine, in un certo senso, ma in un modo del tutto diverso: sono inquiete e inquietanti, un poco perverse e pericolose; creature da cui sarebbe bene stare alla larga, se non fossero dannatamente affascinanti. Anche in questo caso, forse, centra qualcosa la compagna del pittore: una stilista assai moderna e anticonformista.
Comunque sia, si va dalle donne angelo di Campigli alle tentatrici di Klimt: un classico anche in letteratura da cui ancora fatichiamo a staccarci. Forse perché, infondo, un po' ci piace. Ammettiamolo: una volta nella vita anche a noi, arruffate e prosaiche donne del ventunesimo secolo, piacerebbe essere guardate con gli occhi di questi due pittori e sentirci antiche, inafferrabili e affascinanti, deliziosamente pericolose; poi, per fortuna, ci passa, e ci godiamo la visione di queste nostre sorelle bidimensionali appese alle pareti con la consapevolezza di possedere, almeno, tutto un altro spessore. E non sto parlando dei chili di troppo!
mercoledì 23 aprile 2014
Icone, anfore, clessidre, angeli pallidi e inquieti: le donne di Klimt e Campigli
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