giovedì 29 gennaio 2015

Opinioni di un clown

Più di una persona mi ha detto che, quando le piglia il malumore, va a leggersi quel che scrivo su Facebook per tirarsi su. La cosa, ovviamente, un po' mi stupisce, un po' mi lusinga, un po' mi impegna a continuare a fissare per iscritto le cose buffe e/o strane che mi capitano e condividerle con gli altri, perché, diamine, se questo serve per far sorridere qualcuno anche solo per un attimo a me pare sia incredibilmente bello…
A pensarci, anche in tempi pre-telematici, mi sono sempre divertita a mettere su carta il lato buffo degli avvenimenti: dai resoconti improbabili delle gite al diario che ho tenuto per anni d'estate in campagna. Per un tacito accordo preso con me stessa, le mie mestizie raramente sono finite tra le pagine di quei vecchi quaderni di scuola attaccati l'uno all'altro con lo scotch. Così, poiché ho una pessima memoria, rileggendoli pare che le mie estati dai 14 ai 30 anni siano state particolarmente felici e avventurose, perché anche accalcarsi in sei su una Fiat Uno per andare a pattinare o portare la pioggia ogni santa volta che si tentava di andare in piscina, prese per il verso giusto, possono trasformarsi in avventure...
Su quel diario non scrivo più dal 2008. E non è un caso. Pochi giorni fa l'ho portato via dalla casa ormai in disuso e l'ho ficcato tra i topolini e i fumetti della mia libreria: un gesto talmente definitivo da farmi ancora male.
Dal 2009 ho cominciato a sproloquiare qua dentro. In questo caso, il tono è stato assai più altalenante e ai tentativi (non so quanto riusciti) d'esser divertente o, perlomeno, piacevole, s'è alternata l'espressione del mio più sincero malumore; ma pur sempre intrappolato entro gli schemi - per me decisamente salvifici - delle convenzioni proprie della scrittura, che impongono di essere in grado di dare un'ordine razionale persino ai pensieri più malinconici e contorti: altrimenti si rischia l'incomprensibilità. Ora faccio fatica a scrivere anche qui. E non è un caso.
Nel 2008 mia madre si fece un mese d'ospedale, durante il quale la malattia progressiva che la assilla da trent'anni ha fatto passi da gigante, sbattendomi in faccia chiaramente quale sarebbe stato il mio futuro di figlia unica e single. Ora lo stesso concetto, che ho provato per anni ad ignorare, m'è stato ribadito con, se possibile, maggior chiarezza dal mese d'ospedale che s'è fatto mio padre prima di Natale. E, ogni volta, è più difficile uscirne, e ci vuole più tempo a tirarsi su per i capelli e convincersi, in qualche modo, che la tua vita stia andando da qualche altra parte che non sia solo a ramengo.
E anche la scrittura, che per me è sempre stata un'ancora di salvezza, una terapia al mio senso d'inutilità e d'impotenza, diventa ogni volta un po' più difficile.
Dal 2013 sproloquio anche su Facebook. Mi sono iscritta, volutamente, in giorno assurdo: quello in cui persino il Papa ha deciso che "grazie, scusate, ma per me può bastare così: avanti un altro!".
E, ancora una volta, su uno strumento in qualche modo più facile e immediato, mi è venuto naturale percorrere, per quanto possibile, la strada dell'ironia: sempre meglio far ridere che far piangere, dopotutto. Meglio questo del niente, finché mi riuscirà. Finché la vita non mi elargirà un'altra mazzata sufficientemente grossa da togliermi anche le forze di scrivere le tre righe di uno status, visto che le 30-40 righe di un post già mi riescono peggio del solito.
Ma pazienza. E benedetta sia ogni volta che riesco a indossare sopra il mio - già sufficientemente buffo e grosso - il naso rosso da clown e regalare a qualcuno (e anche un po' a me stessa) un momento di serenità: è l'unica preghiera che ancora riesco a fare.
Soltanto che è vero quello che si dice dei clown. E darei non so cosa per non esserlo.