mercoledì 27 aprile 2011

Figuracce al museo delle figurine

Potevamo noi mancare alla tradizionale gita di pasquetta? No, non potevamo. Quindi, con il consueto largo anticipo (un fitto giro di telefonate tra le 21.15 e le 21.30 della sera di Pasqua), la premiata ditta CD&C si è messa in moto alla ricerca di una meta. All'inizio avevo pensato a un giro nei nostri Appennini poi, complici le previsioni non proprio lusinghiere (e ti pareva!), Dani ha proposto una visita ai vicini di casa lungo la via Emilia: Modena e Reggio Emilia, anche perché - testuali parole - ci si può andare in treno. Ho incassato con nonchalance l'allusione al terrore che suscita la prospettiva di un viaggio con me come autista, ho preparato la borsa con i consueti generi di conforto in versione festiva (ovetti di cioccolata) e messo la sveglia. Siamo sbarcate a Modena senza intoppi verso le 11.00. "Che si fa?" "Andiamo al museo?" "Puntiamo alla Ghirlandina?" "Cerchiamo un ristorante?". Eh, no, porca miseria! Abbiamo passato metà del viaggio a lamentarci di quanto siamo ingrassate quest'inverno e cominciamo così? Avanti, su, camminare! La prima cosa che ci appare uscite dalla stazione è la chiesona dedicata ai caduti della prima guerra mondiale. Qui scopriamo che lo stemma di Modena è praticamente identico a quello di Parma. Ci imbattiamo nel giardino pubblico e ci concediamo un po' di campanilismo: "E' più bello il nostro!" Però la palazzina al centro non è male. Dentro c'è una mostra di foto di un'autrice spagnola che ritrae finestre illuminate e vetrine deserte: originale. Raggiungiamo il palazzo dei musei passando per Corso Canalgrande. Ci coglie un sussulto veneziano, prima di ricordarci che tutte le città padane, un tempo, erano attraversate da canali e dunque il nome non è così esotico. Entrate nel cortile il dilemma: Galleria civica o Museo delle figurine? "Suvvia, siamo serie, abbiamo trent'anni!" "Perfetto! Museo delle figurine!" Nello stanzone in penombra, assieme a qualche genitore svogliato che accompagna i figli, Costi ritrova l'album di Kiss me Licia, caro ricordo d'infanzia, e io m'incanto davanti al primo numero di Topolino formato rivista; poi degeneriamo: ci mettiamo a giocare col teatrino delle ombre cinesi e, dopo averci girato attorno tre volte, prendiamo il coraggio a due mani e andiamo a chiedere al custode tre fogli per poterci fare il ritratto sulla "Poltrona di Lavater": un cavalletto con un vetro su cui si può posare un foglio e tracciare il profilo della persona seduta dall'altra parte e illuminata da una lampada. Nessuna di noi ha un nasino francese, ma pazienza. Visitiamo anche la Galleria e ne usciamo giusto all'ora di pranzo. Prima entriamo in Sant'Agostino, dove scopriamo un meraviglioso compianto sul Cristo morto in terracotta. Poi passiamo dal sacro al profano e, visto che le poche trattorie sfiziose aperte sono assediate di turisti, ripieghiamo su una normale pizzeria. Come digestivo ci scoliamo d'un fiato (d'un fiatone, più che altro) i 194 gradini della Ghirlandina. Inutile dire che era ponteggiata fino in cima per restauri: anche questo è un classico delle nostre gite. Mentre ci riprendiamo, dal basso ci giungono le note di una banda, che alterna senza ritegno il silenzio fuori ordinanza ai blues brothers... Visitato anche il duomo con le sculture di Wiligelmo, uno dei primi autori a firmare le proprie opere, e le sale del Comune con la teca contenente la famosa "Secchia rapita". Davanti alla chiesa della Pomposa con la tomba di Ludovico Antonio Muratori ci guardiamo sconsolate: "Chi diavolo era?". Anni di studi umanistici buttati al vento. Urge un ripasso: sacerdote, archivista e bibliotecario, autore della prima Storia d'Italia (1672-1750). Sotto il portico che circonda la deliziosa piazzetta qualcuno ha incollato le sagome di due galline che si rincorrono: ci sentiamo a casa. Entriamo un po' per caso in San Vincenzo, bella chiesa che ospita le tombe degli Este. Costi viene colta da uno dei suoi attacchi filomonarchici.
A Reggio Emilia ci fiondiamo al museo del Tricolore per timore che chiuda: ci pare la degna conclusione di una gita del 25 aprile nel 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Lo visitiamo per benino e ne traiamo un saggio ragionamento: viste le molte anime e il caos da cui è nata la nostra Patria, tuttosommato non c'è da stupirsi che stia come stia. Notiamo che le divise dei soldati risorgimentali esposte nelle teche ci starebbero strettine e rincasiamo senza nemmeno prendere il gelato. Ma non c'è scampo: mio padre mi attende al varco con i cappelletti e il bollito, resti del pranzo di Pasqua. Urgono lunghe passeggiate in montagna!
Saluti rotondi.

domenica 24 aprile 2011

Buona Pasqua!

"Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell'umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo"

(G. Ungaretti, Mio fiume anche tu)

C'è poco da fare: i poeti le cose le sanno dire meglio.
Auguri di cuore.

lunedì 18 aprile 2011

chuao


Dopo essermi seduta comoda sul divano, appena le note di Bach hanno iniziato ad allargare le pareti della mia stanzetta viola e con il sole di questo strano caldo aprile che stava calando, ho aperto una tavoletta di chuao di Pierre Hermé.
Ne sento la dolcezza e il calore e mi sembra di essere tra le persone più fortunate al mondo. Potere delle endorfine? Ma cosa importa… godedetevi con me questo strepitoso cioccolato e questa musica e per un attimo facciamo finta che la vita sia un morbido velluto di cacao e nient’altro.
Adesso che l’attimo è passato e il retrogusto è così tondo e pieno che sembra non attenuarsi mai, ritorno al mio vivere normale e una folla di pensieri iniziano ad alternarsi nella mia testa. Per fortuna le galline vanno a letto presto e io non faccio eccezione, quindi adesso prenderò un bel libro (di ricette, ovvio) e leggerò qualcosa: chissà che complice il cioccolato e qualche foto il sogno non mi porti a Parigi, su una panchina davanti a Saint Sulplice con in mano il pain au chocolat più buono al mondo …

domenica 17 aprile 2011

Due Marii e un Marco

Il primo dei due Marii, di cognome faceva Tommasini. Un comunista d'altri tempi, ex partigiano, che, anche in tempo di pace non ha smesso di fare battaglie: per i disabili psichici (leggi "matti") rinchiusi nel manicomio di Colorno prima, e per gli anziani rinchiusi negli ospizi poi. Dal 2008 a suo nome è stato istituito un premio che, quest'anno, è stato consegnato a un certo Marco... C'è bisogno vi dica il cognome? No, eh. Però stavolta non è colpa mia! Non sono stata io ad andarlo a cercare su per i monti o in paesuzzi spersi, sfidando le intemperie: è stato lui a venire qui e, quindi, abbiate pazienza. E, già che c'era, s'è portato il fratello Mario, psicologo, pedagogista, che si occupa di disabili e dei loro educatori. Perché al fratello deve l'idea di Ausmerzen, lo spettacolo per il quale è stato premiato. Lui, non ha mancato di sottolineare, è solo un'attore che si è occupato per un po' di un argomento, mentre Mario - tutti e due - ha dedicato con continuità la sua vita a "prendersi cura". E la continuità non sempre paga - ha osservato Marco - molto più spesso si paga, con l'isolamento, con la salute. Tommasini era un rompiscatole, raccontava la sorella, con la quale ho "attaccato bottone" nel cortile della Casa della musica. Andava a fare ispezioni a sorpresa per assicurarsi che ai suoi matti dessero davvero da mangiare quel che era previsto nel menu; e non aveva paura di allearsi "persino" con la DC (l'ho detto, erano altri tempi!), in nome di un buon progetto, in grado di ridare dignità agli esclusi. "Era un uomo solido in una società liquida" ha detto Marco, "non uno a cui guardare con nostalgia, però, ma da cui prendere spunto per ritrovare un respiro per il futuro". "E' responsabilità di ciascuno conoscere e decidere da che parte stare" ha aggiunto il fratello, che ha il viso più rotondo e gioviale e riccioli grigi, ma gli stessi occhi chiari e una voce altrettanto piena: "dobbiamo avere il senso della scomodità che si prova ascoltando storie che lasciano aperte domande a cui rispondere".
Marco, a un certo punto, mentre visitava la mostra di fotografie, me lo sono trovata di fianco. Ho fatto in tempo a osservare che portava scarpe a punta da cow boy e che credevo fosse più alto; ma intanto che decidevo se era il caso o no di rivolgergli la parola, lui ha mandato a quel paese i fotografi che lo stavano tormentando. Ho fatto un balzo indietro, nascondendomi dietro una colonna: no, fare la fan non è il mio mestiere. Infatti, ho provato un misto di rabbia e vergogna quando il presentatore della premiazione gli ha fatto l'unica domanda che - diceva se non sbaglio Kapuscinsky - non si dovrebbe mai fare a un giornalista, ma nemmeno a un attore o a chiunque altro si sia invitato a parlare, si spera, per un motivo valido: "Ci dica quello che vuole". Adulazione o impreparazione? In ogni caso, entrambe cose che sarebbe meglio evitare...
PS. Ah, dimenticavo una terza ipotesi: ammirazione un poco ingenua, ma sincera. Ecco, visto il contesto, forse questa è la più probabile, ma il fatto che io ci abbia pensato solo oggi dà la misura di quanto ormai siamo tutti quanti abituati a pensar male del prossimo. E non è bello.

martedì 12 aprile 2011

Dica trentatré!?

Domani cambia il tempo e finirà, purtroppo, questa anomala ondata di caldo estivo che ha messo tutti in allarme e che io, lucertola freddolosa, mi sono goduta moltissimo. Lo so: non poteva durare, ma proprio domani?
Domani dobbiamo chiudere una rivista ed è tutto il giorno che la rileggo e ogni volta ci trovo qualche errore (alcuni anche miei...) e ormai mi bruciano gli occhi.
La mia capa, con uno slancio di sadismo involontario, mi ha appena inviato una bordata di materiale per un nuovo progetto di comunicazione di cui, da domani, dovrò occuparmi e che riguarda, pensate un po', l'invecchiamento!
Oggi pomeriggio ho ricevuto un sms da un numero sconosciuto con un invito per uscire stasera. Peccato fosse il mio parroco in cerca proseliti per il Gruppo liturgico. Quasi quasi ci vado, così, delle due l'una: o mi addormento in sala riunioni sotto lo sguardo compassionevole (almeno quello) di un manipolo di agguerriti vecchietti/e, o me ne esco con una delle mie e creo un po' di scompiglio. In ogni caso, un degno prologo per la giornata di domani...
E va bene, domani compio trentatré anni, ma vi pare il caso di infierire?
Guardate che, se me la vedo brutta, prendo un treno e me ne scappo a Trento con trentatré trentini.
Seeee... domani!

lunedì 4 aprile 2011

Una serata indimenticabile

Sabato scorso ho avuto la fortuna di partecipare a una cena organizzata da "Papersera.net", un giornale dedicato ai fumetti disneyani. L'ospite d'onore della serata è stato il celeberrimo fumettista Don Rosa, famoso per le sue storie incentrate sul personaggio di Zio Paperone.

Lascio qui un'immagine della serata: Don che disegna per i suoi fans fino a tarda notte, generoso e instancabile; per accontentare le richieste di tutti, si è cimentato anche nei ritratti di personaggi che non fanno parte del suo repertorio (nella foto sta disegnando Brigitta, forse per la prima volta nella sua carriera).

Personalmente gli ho chiesto di disegnarmi Daisy, perchè si chiama come me!

Ovviamente dedico questo post alla Cri, che avrebbe meritato più della sottoscritta di conoscere Don Rosa, essendo lei una vera appassionata di fumetti! Io invece, a confronto degli esperti partecipanti, ero una "profana", ma nonostante ciò mi sono divertita davvero.

venerdì 1 aprile 2011

In memoria

Stavolta faccio nomi e cognomi. Si chiamava Maria Pesci, ma tutti la conoscevano come "la Maria del prete". Prima di farvi venire strane idee, chiariamo che il prete era lo zio, spedito negli anni Trenta a far servizio in un microscopico paese d'Appennino e lei, giovanissima, lo seguì per fargli da "perpetua". Sarebbe stato bello chiederle chi decise per lei questo ruolo e se e quanto ne fosse contenta all'inizio. Fatto sta che ne fece la sua vita. Anche quando lo zio morì, e i preti erano ormai merce troppo rara per sprecarne uno in un paese da nulla, lei continuò, di fatto, a fare la perpetua; a curare la chiesa nuova, che aveva voluto e visto nascere sotto i suoi occhi, e la chiesa vecchia: una minuscola meraviglia romanica di disarmante semplicità, in bilico su una scarpata affacciata sul fiume. Dentro, lei e un amico fotografo, avevano allestito una specie di piccolo museo, perché Maria non amava solo la sua chiesa, ma l'intero suo paese e ne divenne la memoria.
La sua casa era piantata nella roccia, come quella della parabola; da un lato guardava la via principale del paese - l'unica a dire il vero - e dall'altro s'affacciava a un burrone boscoso di inquietante bellezza, oltre il quale luccicava, ancora, un'ansa del fiume. Aveva la penombra fresca e l'odore di pietra e fumo delle vecchie case e cassetti ricolmi di ritagli di giornale, lettere, fotografie e libri in cui si nominava, sia pure di sfuggita, il suo paese.
Anch'io l'ho amato. Molto. E' il luogo in cui abitano i primi ricordi e le prime immagini a cui riesco a risalire; e sono profondamente convinta di essergli, in qualche modo, debitrice della parte migliore di me: praticamente un imprinting. E' Pietramogolana. Impossibile non girarsi a guardarlo mentre gli si sfreccia accanto sull'autostrada del mare: uno sperone di roccia nera proteso sul Taro. Nel punto più alto i pochi resti di un castello, all'ombra della rupe le due chiese, sotto le quattro case e attorno campagna. Negli anni Ottanta c'erano anche un'osteria di cacciatori, gestita da un altro personaggio leggendario: la Lina; e un mulino in disuso con la ruota posata contro un muro a marcire e il bagno in cortile: lì ho passato le prime estati della mia vita, a cento metri dal fiume dove andavo a giocare, stringendo sottobraccio un salvagente giallo a papera. Lì ho imparato ad amare il rumore dell'acqua; ho annusato l'odore di colori a olio e trementina dei quadri di mia madre, messi ad asciugare sul davanzale, scoprendo, così, che esisteva l'arte. Ho ascoltato i primi racconti di guerra e di contadini e le prime leggende, a cominciare da quella sul nome del paese, sonoro e vagamente inquietante, a cui devo, forse, il gusto per le parole.
Un luogo arcano e antichissimo, insomma, ma così piccolo che persino una bambina di quattro anni lo poteva capire. Nel passaggio strettissimo tra il campanile della chiesa nuova e la base dello sperone sul quale s'innalzava il castello bastava allargare le braccia per toccare da una parte la roccia e dall'altra i mattoni e cominciare a farsi un'idea della Storia.
Esagero? Non so, ma mi piace pensarla così e ricordare Maria, che di questo mondo è stata a lungo custode. Negli ultimi anni, per una sorta di contrappasso crudele, è stata proprio la memoria a tradirla. D'accordo, aveva novant'anni e credo sia stata serena. Altri sono meno fortunati. In ogni caso comincia male questo mio aprile! Speriamo non peggiori...