domenica 17 aprile 2011

Due Marii e un Marco

Il primo dei due Marii, di cognome faceva Tommasini. Un comunista d'altri tempi, ex partigiano, che, anche in tempo di pace non ha smesso di fare battaglie: per i disabili psichici (leggi "matti") rinchiusi nel manicomio di Colorno prima, e per gli anziani rinchiusi negli ospizi poi. Dal 2008 a suo nome è stato istituito un premio che, quest'anno, è stato consegnato a un certo Marco... C'è bisogno vi dica il cognome? No, eh. Però stavolta non è colpa mia! Non sono stata io ad andarlo a cercare su per i monti o in paesuzzi spersi, sfidando le intemperie: è stato lui a venire qui e, quindi, abbiate pazienza. E, già che c'era, s'è portato il fratello Mario, psicologo, pedagogista, che si occupa di disabili e dei loro educatori. Perché al fratello deve l'idea di Ausmerzen, lo spettacolo per il quale è stato premiato. Lui, non ha mancato di sottolineare, è solo un'attore che si è occupato per un po' di un argomento, mentre Mario - tutti e due - ha dedicato con continuità la sua vita a "prendersi cura". E la continuità non sempre paga - ha osservato Marco - molto più spesso si paga, con l'isolamento, con la salute. Tommasini era un rompiscatole, raccontava la sorella, con la quale ho "attaccato bottone" nel cortile della Casa della musica. Andava a fare ispezioni a sorpresa per assicurarsi che ai suoi matti dessero davvero da mangiare quel che era previsto nel menu; e non aveva paura di allearsi "persino" con la DC (l'ho detto, erano altri tempi!), in nome di un buon progetto, in grado di ridare dignità agli esclusi. "Era un uomo solido in una società liquida" ha detto Marco, "non uno a cui guardare con nostalgia, però, ma da cui prendere spunto per ritrovare un respiro per il futuro". "E' responsabilità di ciascuno conoscere e decidere da che parte stare" ha aggiunto il fratello, che ha il viso più rotondo e gioviale e riccioli grigi, ma gli stessi occhi chiari e una voce altrettanto piena: "dobbiamo avere il senso della scomodità che si prova ascoltando storie che lasciano aperte domande a cui rispondere".
Marco, a un certo punto, mentre visitava la mostra di fotografie, me lo sono trovata di fianco. Ho fatto in tempo a osservare che portava scarpe a punta da cow boy e che credevo fosse più alto; ma intanto che decidevo se era il caso o no di rivolgergli la parola, lui ha mandato a quel paese i fotografi che lo stavano tormentando. Ho fatto un balzo indietro, nascondendomi dietro una colonna: no, fare la fan non è il mio mestiere. Infatti, ho provato un misto di rabbia e vergogna quando il presentatore della premiazione gli ha fatto l'unica domanda che - diceva se non sbaglio Kapuscinsky - non si dovrebbe mai fare a un giornalista, ma nemmeno a un attore o a chiunque altro si sia invitato a parlare, si spera, per un motivo valido: "Ci dica quello che vuole". Adulazione o impreparazione? In ogni caso, entrambe cose che sarebbe meglio evitare...
PS. Ah, dimenticavo una terza ipotesi: ammirazione un poco ingenua, ma sincera. Ecco, visto il contesto, forse questa è la più probabile, ma il fatto che io ci abbia pensato solo oggi dà la misura di quanto ormai siamo tutti quanti abituati a pensar male del prossimo. E non è bello.

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