martedì 25 dicembre 2012

Dolcissimi auguri

Dimenticatevi i cake designer che infestano la tv.
Qui si fa quel che si può, ma con affetto...
Auguro a tutti un dolcissimo Natale.
E anche un buonissimo 2013, già che ci siamo.

martedì 18 dicembre 2012

A proposito di galline e di galli...

E’ da un po’ che cerco di pubblicare finalmente qualcosa di allegro, anche in vista delle prossime festività! Dopo la tristezza dei miei ultimi post ci voleva! L’ho fatta forse più tragica del previsto, ma è stato veramente triste soprattutto vedere la sofferenza degli altri… Comunque in tutto questo la gioia di una vita che nasce, che cresce, anche se non sostituisce la persona cara che viene a mancare, dà un forza che non ci si aspettava di avere. A me è successo così come succede, credo abbastanza normalmente, che vedendo crescere un bambino, ritorniamo un po’ bambini anche noi, almeno quanto basta per crescere insieme a lui. Così, tra le varie canzoncine che canto al mio piccolo, ho ritrovato questo canto popolare veneto, Me compare Giacometo, che avevo cantato durante il mio primo saggio di musica in terza elementare. Il canto ha per protagonista un galletto e, naturalmente, le galline del pollaio. Ho detto che si trattava di una cosa allegra, in realtà il galletto in questione fa un brutta fine…ma il mio bimbo ride da matti quando gliela canto, complici il ritmo allegro e la naturale simpatia del dialetto veneto (a proposito: se tra i simpatizzanti c’è un veneto D.O.C. potrebbe fare una traduzione esatta del testo…ma in ogni caso credo che sia ben comprensibile!)
Allora buona lettura!

Me compare Giacometo
el gaveva un bel galeto,
quando el canta el verze el beco
che'l fa proprio inamorar,
quando el canta el canta el canta
el verze el beco el beco el beco
che'l fa proprio proprio
proprio innamorar.
Un bel giorno la parona
per far festa agli invitati
la ghe tira el colo al galo
e lo mette a cusinar,
la ghe tira tira tira
el colo al galo galo galo
e lo mette mette mette a cusinar.
Le galine tutte mate
per la perdita del galo
le rebalta el caponaro
par la rabia che le gà,
le rebalta balta balta
el caponaro naro naro
par la rabia rabia rabia
che le gà.

lunedì 17 dicembre 2012

Stordita!

Io e Costi ci aggiriamo in libreria con i biglietti del cinema in tasca. Io le racconto del libro che mi è capitato allo scambio prenatalizio con le colleghe del circolo di lettura e che non è affatto male: è "La libreria del buon romanzo" di Laurence Cossé. Di solito sono scettica nei confronti dei libri che parlano dell'amore per i libri: ultimamente ne hanno pubblicati a manciate, quasi quanto quelli sui vampiri; ma questo è piuttosto intrigante. C'è di mezzo un giallo e un paio d'amori impossibili (che, chissà perché, son quelli che preferisco...).
"Finisce bene?" Chiede Costi, appassionata di happy ending.
"Insomma..." rispondo.
"La libreria chiude?"
"No."
"Muore qualcuno?"
"Sì."
Poi lei mi parla del libro di De Luca che sta leggendo, "In nome della Madre": un'originale rilettura della storia di Maria.
E io, testuale: Ah, davvero? interessante. E come va a finire?!"

Silenzio sconcertato. Rapido scambio di sguardi e... giù a ridere forte tra due scaffali della libreria affollata.
Prima o poi verrò scomunicata.

P.S. L'immagine è la copertina del singolo "I'm going slightly mad" dei Queen, che mi pareva in tema...

martedì 11 dicembre 2012

La gallina in giallo

Per la serie "galline famose" nel cinema, nell'arte e nella letteratura, ecco come inizia l'ultimo romanzo di Marco Malvaldi:

"Per capire bene che posto sia Montesodi Marittimo, la cosa migliore è riportare alcuni numeri.
Ottocentododici: è il numero degli abitanti del paese, il che mette gli esseri umani in netta minoranza rispetto al numero di galline (millesettecentoventisei) regolarmente censite in paese. E' una fortuna che, con l'eccezione della signorina Conticini, le galline non abbiano diritto di voto, altrimenti in paese molte cose cambierebbero."

S'intitola "Milioni di milioni" e, come i precedenti, è un giallo: protagonisti sono un genetista e un'archivista, spediti nel paesino toscano di cui sopra che, a dispetto del nome, è inerpicato su per una montagna, per scoprire come mai gli abitanti siano particolarmente forzuti. Nel bel mezzo di una eccezionale nevicata, che isola per alcuni giorni il villaggio, accoppano una vecchia maestra, che ospitava il genetista il quale, un po' per curiosità, un po' per evitare d'essere incolpato, s'improvviserà detective assieme alla collega di studi.
Il libro è piacevole, si legge in un pomeriggio e in alcuni punti fa ridere di gusto; leggero finché si vuole, ma non banale. Qua e là, Malvaldi si diverte a seminare qualche citazione letteraria e qualche riflessione spesso condivisibile, senza calcare la mano. E' un toscanaccio irriverente ed è pure uno scienziato, un chimico per la precisione, e non perde mai l'occasione per far fare pessime figure a preti e credenti in generale: a volte ci va giù pesante, a volte non gli si può dar torto; ma questo fa parte della sacrosanta libertà di un autore di inserire nelle sue storie ciò che pensa e ciò che gli piace ed è chiaro che se la gode parecchio a farlo. E lo capisco, anche quando non mi garba quel che dice.
L'abbiamo anche ascoltato dal vivo a Torino due anni fa, ricordate? E anche allora ci era piaciuto; io l'ho anche incrociato quest'estate a Langhirano al Festival del prosciutto, ma aveva appena finito di parlare (sigh): pare infatti che sia un estimatore della buona cucina, e anche questo si vede dai suoi libri, non solo in quello che ha dedicato all'Artusi. Una ragione di più per apprezzarlo, no?
Ve ne lascio un altro paio di spezzoni.

Margherita (la filologa) a Piergiorgio (il genetista) al termine di una accesa discussione: "La scienza trova la verità, va bene, ma devi ammettere che la letteratura aiuta a sopportarla".

Dialogo tra Piergiorgio e il sindaco di Montesodi: "Lei ha un vizio da cittadino. Dice sempre 'la gente'." Piergiorgio tacque, non sapendo cosa dire. "Sa cosa diceva un mio amico di Livorno? 'La gente, son persone'. Ecco, accetti un consiglio da politico: smetta di dire 'la gente'. Dica 'le persone'. Può sembrare una questione dialettica, ma non lo è, mi creda." "No, non credo che lo sia..." "La gente è stupida, le persone ragionano. La gente è indifferente, le persone ti aiutano. Oppure ti affogano, ma comunque interagiscono. Finché uno riesce a pensare agli altri come persone, a vederle come persone, riesce a non rimanere indifferente..."

Sì, proprio un bel librino.

martedì 4 dicembre 2012

Cana per astemi...

Il capo, chiamandomi dal suo ufficio: "Se ti mando un bicchiere con dentro del vino tu me lo cambi in acqua?!"

Ecco cosa ti può capitare dopo aver fatto qualche lezione di Photoshop...

mercoledì 28 novembre 2012

Grandi vecchi & bambini

"Il genere umano conosce le parole e quindi è in grado di formulare il pensiero; soltanto la lettura perfeziona e migliora il pensiero perché la parola viene esaltata dalla conoscenza (e soltanto il libro può offrirla), dagli infiniti modi di usare la parola stessa."
Roberto Denti, prefazione alla riedizione 2012 de "I bambini leggono" (1978*).

L'ho ascoltato ieri sera a Langhirano con Dani, circondata da maestre.
Per uno strano caso è la seconda volta che mi capita d'incontrarlo dal vivo.
88 anni di intelligenza arguta ed ironica (per non parlare di quella della moglie Gianna), 40 dei quali spesi a occuparsi della letteratura per l'infanzia. Che non è solo Geronimo Stilton...

Ah, la foto è di un'opera di Vincenzo Agnetti. S'intitola "Libro dimenticato a memoria".
In realtà io stavo cercando un'immagine dei prelibri o dei libri illeggibili di Munari, ma quando sono incappata in questa m'è piaciuta tanto!

* Il mio anno di nascita: amo queste coincidenze.

lunedì 19 novembre 2012

Creatività, ovvero: "Come uccidere la fantasia, seconda lezione"

"Tutto ciò che accade, tu lo scrivi".

"Tutto ciò che io scrivo accade".
(Michael Ende, La storia infinita)

Ho già accennato in qualche post precedente al fatto che io e Dani, ogni sabato, assieme ad altri volontari, tentiamo con alterne fortune di far fare i compiti a un ben nutrito numero di bambini, provenienti da ogni parte del mondo. In genere ne usciamo - io per lo meno - piuttosto stordite e felici di non aver fatto le insegnanti...
Avere a che fare con i bambini, però, è sempre molto istruttivo e, lo ammetto, spesso anche divertente.
A parte l'amara constatazione che non so più fare le divisioni con le virgole, c'è una cosa che mi ha molto colpito: in più di un'occasione mi è capitato di aiutare alcuni di questi bambini a svolgere un compito che prevedeva di completare una storia.
I pargoli mi guardavano spersi, mentre io cercavo di far loro domande per stimolarli a inventare un finale, sforzandomi di non suggerirglielo.
La stessa scena, più o meno, si ripete anche quando sono chiamati a descrivere una loro giornata, o parlare della loro famiglia: vanno guidati passo passo con domande precise, perché da soli fanno una fatica atroce a mettere insieme un discorso.
E' vero che molti sono stranieri, ma non è una questione di lingua, perché l'italiano lo parlano bene e, se sono in vena, ti sciorinano tutti i nomi degli alieni di Ben10 o le prodezze della boy band di turno. E non sono nemmeno casi sporadici. La tendenza, infatti, mi è stata confermata anche da Costi, che ha dieci anni di insegnamento alle spalle: molti bambini non sono capaci di elaborare un racconto, sia esso realistico o fantastico. E la cosa mi mette una grande tristezza.
Intendiamoci, anche "ai miei tempi" (scusate, fa un po' ottantenne detta così) c'era chi era terrorizzato all'idea di inventare una storia, perché non c'era proprio tagliato; ma quasi tutti erano felici di descrivere qualcosa che gli era accaduto o di parlare di sé: fatti salvi i casi (oggi forse un poco più diffusi) di chi aveva alle spalle situazioni complicate e dolorose, che si vergognava di raccontare, era sempre meglio di una paginata di esercizi di grammatica.
E' fin troppo facile dare la colpa di questa mancanza di inventiva all'alluvione di cartoni animati, videogiochi e divertimenti prefabbricati (persino per le festicciole di compleanno si paga un animatore per suggerire i giochi!); ma anche noi, che ci siamo bevuti la tv degli anni '80, ce ne siamo presi una bella ubriacatura.
Forse l'unica differenza è che per noi film, cartoni e videogiochi non terminavano necessariamente dopo la parola "fine". Vuoi perché eravamo stati sufficientemente nutriti di favole lette e raccontate, vuoi perché avevamo più tempo libero da riempire come ci pareva, ci divertivamo a continuare a modo nostro le avventure dei nostri eroi preferiti o a inventarcene di nuovi.
Ho il sospetto che questo ora non succeda più, e dopo la parola "fine" ci sia solo il vuoto, lo stesso che poi diventa, al momento di fare i compiti, un precoce panico da foglio bianco.
Questo per quel che riguarda l'incapacità d'inventare storie. Per quel che riguarda l'incapacità di raccontare vicende accadute, forse dipende dal fatto che in famiglia si è persa l'abitudine di rievocare insieme il passato, prossimo o remoto: gite, vacanze, disavventure, frasi memorabili, per costruire una piccola "mitologia privata", banale finché si vuole ma utile a dare forma alla memoria e all'identità.
Credo anche che centri qualcosa con l'esaltazione della "creatività" che ha ormai sostituito nel linguaggio comune, la "fantasia". A un corso frequentato qualche mese fa, mi hanno spiegato che la creatività è una faccenda molto pragmatica e democratica: è la capacità di trovare una soluzione a un problema. Tutti la possediamo e, con un po' d'esercizio, si può imparare a utilizzarla al meglio. Ecco dunque tutto un fiorire di laboratori creativi, di corsi di scrittura creativa, di atelier della creatività e di persone creative...
La fantasia, invece, sembra una faccenda assai più elitaria e misteriosa: non si può racchiudere in formule, non si può insegnare, non ha bisogno di strumenti ed è di scarsa o nulla utilità pratica. La creatività, dopotutto, è un modo originale di usare la propria intelligenza, mentre la fantasia sfiora, in qualche modo, i territori dello spirito, perché non si limita a ricombinare ciò che già esiste, ma può andare ben oltre esplorando nuovi mondi che, in qualche modo, cominciano a essere perché li abbiamo pensati e nominati. Per questo fa paura.
Un bambino che fantastica non ha bisogno di giocattoli né di consigli per divertirsi. Un bambino che fantastica non è mai solo e non ha bisogno (o ha molto meno bisogno) di comprare cose per consolarsi. Non è più soltanto un consumatore di idee, immagini e storie costruite da qualcuno che gliele offre, chiedendo comunque qualcosa in cambio, ma può crearne a sua volta e donarle a chi vuole, se vuole.
Ed essere libero.

P.S. Per chi fosse curioso e clemente, c'è anche la "Prima lezione".

lunedì 12 novembre 2012

Rosso smeraldo

Vi avviso: questo sarà un post sconclusionato, a cominciare dal titolo che però, per una volta, non è mio. Lo svarione cromatico, che, in realtà, ha qualcosa di poetico, è di Costi, che così ha descritto il colore intenso e luminoso di una pianta in veste autunnale avvistata in quel di Fontanellato.
Cercava di convincermi - mentre si assaggiavano con Dani, Moki e altra bella gente, pietanze multietniche a una cena di beneficenza - che, infondo, anche l'autunno ha il suo fascino, nonostante il freddo, la pioggia la nebbia e il buio che ti prende a tradimento a metà pomeriggio, ma, per una volta, non ne aveva bisogno: infatti ero reduce da un lungo giro in Valtaro per motivi di lavoro e, dopo 160 km tra boschi verdi, gialli, rossi e marroni, montagne con nuvole basse e squarci di sole abbagliante e fiume grigio azzurro e luccicante, me ne sono quasi convinta anch'io.
Finito il lavoro mi sono concessa una divagazione a Compiano, dove mi sono resa conto di non essere mai stata in vita mia. Era ora di pranzo e il paese era perfettamente deserto, fatta eccezione per un paio d'operai intenti a restaurare il castello e del prete che sgranava rosari facendo avanti e indietro per la sua chiesina in penombra. Ho passeggiato da sola per le stradette di ciottoli bianchi e neri in salita facendo finta di non avere mal di schiena, godendomi la luce di una strepitosa giornata novembrina, l'odore di legna bruciata, gli scorci di panorama tra le case e la bella sensazione di tempo altro e sospeso, che in Italia ti coglie appena esci dalle città (o anche dentro, a volte) e ti inoltri in luoghi sufficientemente antichi e silenziosi.
Vanno bene anche certi carrugi di Genova, sui quali si aprono a sorpresa vecchissimi antri polverosi di corniciai e restauratori, tra una bottega, un pub e un viavai vario e un filino equivoco.
"Hai idea di dove stiamo andando?" Mi ha chiesto a bruciapelo l'attore che mi accompagnava. Avevamo appena finito il primo dei tre laboratori che ci spettavano al Festival della Scienza ed eravamo in libera uscita. "Assolutamente no!" ho risposto. Tanto era la seconda volta che ci capitava di viaggiare insieme e già lo sapeva che sono in grado di perdermi ovunque.
"Laggiù c'è il mare". Ha indicato divertito, prima di ricominciare a zigzagare a sentimento con me al seguito per la città vecchia. Mi sono goduta la strana compagnia e il momento surreale, fingendo di non avere mal di gola.
Appartiene a quella categoria di persone con cui mi capita a volte di avere a che fare e con le quali so di non avere praticamente nulla in comune, ma poiché fanno mestieri interessanti e hanno molto letto, molto viaggiato e molto vissuto, starei volentieri ore a chiacchierare... se mi facessero un po' meno paura!
Prima della passeggiata (terminata al porto: aria gelida e tramonto rosazzurro dietro la Lanterna), siamo riusciti anche a visitare, in compagnia della fotografa che ha immortalato il nostro lavoro (il suo, più che altro...), la mostra di McCurry che, credo, meriti tutta la sua fama. Di fronte ai ritratti di vecchi e bambini scovati ai quattro angoli della terra (compresa la "celebre" ragazzina afgana dagli occhi verdissimi, ritrovata poi donna e rifotografata quasi vent'anni dopo), l'attore ha giustamente osservato che i visi più insignificanti e gli sguardi più inespressivi appartenevano a quelli dei pochi occidentali: segno che forse la nostra presunta civiltà non giova all'evoluzione della specie.
Retrocedendo a questo modo, dovrei anche raccontare della famigerata castagnata in campagna, accompagnata da chiacchiere, dolcetti e persino da una chitarra; ma è passato tanto tempo che ormai non vale la pena di dilungarci troppo.
Non mi resta che ammettere che aveva ragione Costi: era meglio far le caldarroste sul camino piuttosto che sul barbecue (vedi foto di Dani); ringraziare le partecipanti e dare a tutti la ricetta dei pattonini di papà, che hanno riscosso un discreto successo:
300g di farina di castagne;
3 o 4 cucchiai di zucchero;
la scorza grattugiata di un limone;
acqua tiepida q.b.
Sciogliete lo zucchero nell'acqua tiepida e mescolatelo alla farina di castagne quanto basta per ottenere una pastella liscia e piuttosto liquida, diciamo un po' meno di quella delle crepes. Se fa grumi, mettetevi il cuore in pace e passatela con un colino... Incorporate la scorza di limone e friggete a cucchiaiate in olio bollente.

Buon appetito, arrivederci e, visto che ci siamo, auguri a Simona!

mercoledì 31 ottobre 2012

Pensiero d'autunno

Fammi uguale, Signore, a quelle foglie
moribonde che vedo oggi nel sole
tremar dell’olmo sul più alto ramo.
Tremano, sì, ma non di pena: è tanto
limpido il sole, e dolce il distaccarsi
dal ramo per congiungersi alla terra.
S’accendono alla luce ultima cuori
pronti all’offerta; e l’agonia, per esse,
ha la clemenza di una mite aurora.
Fa’ ch’io mi stacchi dal più alto ramo
di mia vita, così, senza lamento,
penetrata di Te come del sole.”
(Ada Negri)
Ecco la conferma di quello che scrive la Cri nell'ultimo post.. nelle parole di uno sconosciuto ritoviamo qualcosa che ci appartiene, un'immagine che dà forma a un sentimento che non sapevamo come descrivere... Questi bellissimi versi della poetessa Ada Negri, da me scoperti per caso (ma non proprio..) su un giornaletto, colgono in pieno ciò che sento in questa notte di mezzo autunno e danno forma a qualcosa di malinconico e caotico che mi frastorna ormai da mesi... Li dedico alla mia madrina che in questa notte ha raggiunto la sua mamma...

lunedì 22 ottobre 2012

Ritorni di fiamma. Parte seconda: il poeta

"Gli spettri delle cose sono più terribili degli spettri delle persone"
(Guido Gozzano, Torino d'altri tempi)

Alle superiori avevo un'amica che sul diario alternava il nome di Roberto Baggio con quello di un certo "Leo", circondandoli entrambi di cuoricini. Non si trattava di un fidanzatino - quello sarebbe arrivato poco dopo con effetti piuttosto devastanti - bensì dell'affettuoso soprannome da lei affibbiato a Giacomo Leopardi!
Studiandolo ne era rimasta folgorata e ne parlava non come di un personaggio della letteratura, ma come di un amico un po' sfigato ma tanto caro, a cui confidare i suoi tormenti adolescenziali certa d'essere compresa.
A me capitò qualcosa del genere, più o meno negli stessi anni, con un altro poeta, ma poiché ero (e sono tuttora) non so se più pudica o maldestra, evitai di esternare la faccenda in termini così plateali. Lui era (ed è), ovviamente, Guido Gozzano.
Il "colpo di fulmine" scoccò l'ultimo giorno di scuola di quinta ginnasio. Dopo avermi interrogato in storia (sic!), la prof, che l'anno successivo, passando al liceo, non avremmo più avuto, pensò di congedarci leggendoci alcune poesie di un autore relativamente poco conosciuto, che però le piaceva tanto. Credo non ci sia regalo migliore che un insegnante può fare ai suoi alunni che comunicare loro con semplicità e sincerità una sua passione: fa capire che, al di là delle rigidità imposte da programmi, voti e interrogazioni, quel che si impara a scuola può dare anche un po' di gioia e accompagnarti per un tratto più o meno lungo di vita.
Ci lesse "Le golose" e "Cocotte", con il ben noto finale ("Non amo che le rose che non colsi...") che è mi è diventato, purtroppo, molto familiare, e forse qualcos'altro che non ricordo più.
Qualche giorno dopo mi comprai l'edizione completa delle poesie della BUR, dotata di note, commenti e stralci di lettere, la lessi d'un fiato e da allora staziona regolarmente sul mio comodino assieme a un'altra manciata di libri.
Spiegare come e perché nascono gli amori letterari è difficile e forse inutile quasi quanto spiegare la nascita di quelli reali.
L'unica cosa che mi sento di dire è che, credo, possano anche prescindere dal valore dell'opera e abbiano, invece, a che fare con lo stupore di ritrovare nelle parole di uno sconosciuto - vissuto in un altro luogo e in un altro tempo - qualcosa che ci appartiene profondamente: un pensiero che ci ronzava in testa e non sapevamo come formulare, un sentimento che non sapevamo che nome avesse prima di leggerlo in un testo o in una poesia, o anche solo un'immagine o una frase che diventa immediatamente nostra perché in qualche modo ci risulta particolarmente familiare.
Guido (sì, mi diverto anch'io a chiamarlo per nome!) era un ragazzetto sparuto e nasuto, pieno zeppo di contraddizioni: si definiva "avvocato", ma pare che alle aule d'università preferisse i ritrovi fumosi dei goliardi; si scagliava contro D'Annuzio e poi lo citava a piene mani, invidiandolo un po'; faceva il "poeta minore" defilato e disinteressato alla fama, poi, nelle lettere alla Guglielminetti, musa, amante, amica e poetessa lei pure, si dava arie da spirito eletto; non giocava a fare il malato, come altri del suo tempo e come pare a leggere le sue poesie, lo era sul serio: morì a 33 anni non ancora compiuti di tisi; ma questo non gli impedì di viaggiare, frequentare il bel mondo e beh, di non lasciarsi scappare attrici, letterate e "fan" più o meno occasionali.
A dirla in questi termini, un personaggio del genere dovrebbe starmi antipatico, eppure così non è: forse anche con gli amori letterari capita che ci affascinino le persone sbagliate?
Comunque sia, recentemente mi sono capitate tra le mani le sue prose: alcuni racconti recuperati in internet e gli scritti dall'India raccolti in "Verso la cuna del mondo" (le favole e le lettere d'amore le avevo già lette anni fa).
Ho ritrovato anche in quelle il giovane ironico, amaro, disincantato, ma desideroso di lasciarsi incantare, perfettamente immerso nei suoi tempi (pregiudizi compresi), ma desideroso di sfuggirne in un passato bello solo perché non vissuto, che un po' mi irrita ma mi fa anche tanta tenerezza.
Ho ritrovato immagini e situazioni a lui evidentemente care che trasporta - autocitandosi - dalla prosa ai versi; mi sono bevuta con immenso piacere descrizioni di paesaggi di una musicalità incantevole, ho riso di cuore alle sue osservazioni pettegole e allusive e ho scoperto anche qualche altra consonanza tra me e lui, cosa che mi ha fatto, ovviamente, un gran piacere.
Sì, perché, gli amori letterari, frutto solitamente, ma non esclusivamente, per fortuna, dell'adolescenza (chissà se ne nascono ancora?), non sono soltanto autori che ci piacciono o ci dicono qualcosa di noi e ci aiutano a decifrare il mondo, diventano proprio persone che ci pare di conoscere da sempre e con cui vorremmo poter conversare a lungo, nel mio caso, magari, tra il ciarpame del solaio di una villa nobiliare in disarmo, sperando di fare una figura migliore di quell'oca di Felicita e temendo, ovviamente, di fare di peggio, ma immersi per lo meno in quella "perplessità crepuscolare" che entrambi, credo, sappiamo bene cos'è...

venerdì 12 ottobre 2012

Ritorni di fiamma. Prima parte: il film

«Con rischi indicibili e traversie innumerevoli io ho superato la strada per questo castello oltre la città dei Goblin, per riprendere il bambino che tu hai rapito. La mia volontà è forte come la tua e il mio regno altrettanto grande. Non hai alcun potere su di me!»

YouTube a volte è un diavolo tentatore, un buon diavolo, che fa riemergere ricordi e passioni perdute: basta incappare in uno spezzone ed ecco che ti ritrovi a otto anni a dondolarti sulla sedia della cucina di un compagno di classe con il papà sufficientemente ricco da permettersi uno dei primi videoregistratori (ogni cassetta costava, allora, 80.000 lire!) e guardare un film e restarne assolutamente incantata come capita solo ai bambini (forse).
Il film era Labyrinth: una meraviglia tecnologica dei tempi pre-computer grafica, anche se il barbagianni dei titoli di testa (a proposito, fan di Harry Potter, non vi ricorda qualcosa?) era uno dei primi esperimenti in quel senso. I pupazzi erano mossi in parte da attori, in parte da meccanismi meccanici e le sfere di cristallo maneggiate da un abilissimo giocoliere: ora fanno un po' sorridere, ma all'epoca (1986, di poco successivo a un'altra meraviglia: La storia infinita, che è del 1984) era una cosa strabiliante.
La storia è piuttosto semplice: una ragazzina parecchio sognatrice e appassionata di favole, costretta a fare la baby sitter al fratellastro urlante, invoca il re degli gnomi perché se lo porti via e lui, disgraziatamente, risponde. Così la ragazzina dovrà andarsi a riprendere il bambino attraversando il labirinto prima che il piccolo venga trasformato in un goblin. Nel labirinto, ovviamente, le accade di ogni: incontra fate mordaci, batacchi delle porte che parlano, vecchi gnomi che indossano un cappello parlante e petulante (il "Coprisaggio") e persino un pozzo fatto di mani, pure queste parlanti, e una specie di scoiattolo-cavaliere peloso che cavalca un cane altrettanto peloso e usa uno strepitoso linguaggio aulico e medievaleggiante (Sir Didymus)...
Jareth, il re degli gnomi, pensate un po', è David Bowie, ma all'epoca io ascoltavo ancora le canzoni dello Zecchino d'oro e non avevo idea di chi fosse, ma ricordo che anche la colonna sonora mi aveva colpito parecchio. La ragazzina, Sarah, invece, è una giovanissima Jennifer Connely e il regista è il creatore dei Muppets, e questo spiega molte cose.
Sarei curiosa di farlo guardare a qualche pargolo di oggi, per vedere l'effetto che fa. A me ha spalancato mondi e mi ha dato lo spunto per infiniti giochi ("facciamo che io ero...") per questo lo ricordo ancora con estremo affetto, quasi fosse un amico d'infanzia, quasi come l'amico d'infanzia che me l'ha fatto scoprire e che ora è sposato ha due bambini e fa l'allenatore di basket...

Ve ne lascio una scena molto intrigante, ispirata alle scale di Escher. Sul famigerato YouTube di cui sopra trovate anche un po' di backstage.

E comunque... "Niuno vuol misurarsi con me a Scarabeo?!"
Saluti fantasy!

Aggiornamenti (lunedì 15/10): è finita come doveva finire! Mi sono riguardata tutto il film, scoprendo che mi piace ancora un sacco e che mi ricordavo ancora molte battute, godendomi i particolari che avevo dimenticato (come la pianticina con gli occhietti...) e di cui il film e zeppo; e notando che, tuttosommato, la storia ha anche un risvolto femminista: Sarah non accetta la proposta di Jareth, che le offre di esaudire tutti i suoi desideri a patto che lei si lasci dominare da lui. Alla faccia delle "50 sfumature" che ora vanno tanto di moda! Ma non per questo rinuncia ai suoi sogni, che continueranno a farle compagnia anche nel modo reale.
Come la capisco!

mercoledì 3 ottobre 2012

Lettera di protesta

Cara Pianura Padana,
lo so che non dev'essere facile starsene lì, larga, piatta, monotona e nebbiosa a farsi prendere in giro da millenni dalle spettacolari vette alpine, dalle ridenti coste liguri e dalle morbide colline toscane; lo so che sei la patria del liscio e, forse, a forza di sentirtelo ballare sulla testa t'è venuta voglia di provare.
Però ti sarei infinitamente grata se la piantassi di sobbalzare e te ne stessi un po' fermina.
Per favore!

martedì 2 ottobre 2012

Carta, penna e calamaio (in Word)

Sabato pomeriggio al laboratorio compiti una volontaria diciassettenne, seduta di fronte a me, parlando con il bambino che ha di fianco esclama: "Chiediamo a lei che è più vecchia". Scopro che "lei" sono io e che il bambino, per compito, dovrebbe chiedere a una persona anziana come si scriveva ai suoi tempi.
Poiché di anziani veri in giro non ce ne sono hanno provato a inventare, ma si sono resi conto di non avere la più pallida idea di come funzionino penna e calamaio. Rispondo piccata che, benché abbia effettivamente molti più anni di loro, anch'io ho imparato a scrivere con la biro. Provo lo stesso a spiegare, dato che una penna vecchio stile ce l'ho, comprata anni fa a un mercatino e usata due volte. Quando si tratta di rispondere alla domanda "Come si faceva a cancellare gli errori?", però, vacillo. I due se ne vanno delusi a chiedere a un altro volontario, più grande di me ma non ancora quarantenne.
E io comincio a pensare che, in un futuro non troppo lontano, a qualche ministro dell'istruzione, dopo aver sostituito tutti i libri cartacei con dispense telematiche (come sta accadendo), verrà l'idea di insegnare ai bambini a scrivere direttamente a computer, senza passare per carta, biro cancellabile e pregrafismi.
Sarebbe un'evoluzione piuttosto naturale, come quella di chi è passato, con sollievo, dalla penna e calamaio alla bic. Però, sono convinta che questo porterà a cambiare non solo il modo di scrivere ma anche quello di pensare, perché il mezzo con cui si scrive non è una cosa neutra rispetto al contenuto e alla forma di ciò che si scrive. Con un foglio e una biro in mano, infatti, il grosso del lavoro lo si fa nella testa, perché è vero che si può tirare una riga, andar di bianchetto o, alla peggio, accartocciare tutto, centrare il cestino e ricominciare; ma, per evitare ecatombi, viene meglio organizzarsi prima un'idea con un inizio, uno svolgimento e una fine e poi provare a tradurla in parole. E' un esercizio tutt'altro che semplice ma, credo, molto salutare.
Tutto questo con il computer non occorre più: si possono buttar giù parole e frasi a casaccio, come tessere di un puzzle, e tentare solo dopo, quando sono sul foglio elettronico, di farle combaciare in un disegno sensato. Anche le conoscenze grammaticali non sono indispensabili: c'è il correttore automatico o, alla peggio, si cerca in internet l'esatta grafia di una parola.
Il risultato finale può anche non essere troppo dissimile da quello ottenuto con carta e penna, ma la forma di pensiero che ci sta dietro è completamente diverso: frammentaria, incoerente, approssimativa. Esattamente come il mondo che abbiamo intorno. E forse le due cose sono collegate.
Lungi da me l'idea di dare all'inventore di Word la colpa delle nevrosi del terzo millennio. Però è pur vero che anch'io, che pur non essendo un genio ho attraversato tutta la scuola dell'obbligo senza mai scrivere un tema in brutta, oggi faccio fatica a scrivere di getto persino un biglietto d'auguri e sono tentata di fare la bozza persino della lista della spesa. Se a me sono bastati 10-15 anni di computer per disimparare a elaborare un pensiero sufficientemente pulito e coerente da poter essere scritto più o meno come lo avevo immaginato, mi chiedo che accadrà ai nativi digitali, cresciuti a internet, sms e videoclip (anch'essi fatti di frammenti d'immagini giustapposte).
Forse assolutamente nulla, perché a loro non occorrerà un pensiero profondo e coerente, ma veloce e reattivo: perfetto per rispondere ai quiz a crocette. Non sarà né meglio né peggio, semplicemente diverso, come è sempre stato. E ai vecchi, che saremo noi, non resterà che brontolare e chiedersi "Dove andremo a finire?" come già facevano quelli delle commedie di Aristofane nel V secolo a.C.
Mi immagino, però, la fatica che faranno quanti non avranno mai preso in mano una penna a leggere i cosiddetti "classici", scritti da gente che manco sapeva cos'era un computer, visto che per noi già ora è un'impresa digerirli.
Chi ha più tempo e voglia d'imbarcarsi in un mattone infarcito di digressioni storico filosofiche, religiose o mitologiche, che in assenza di note comprendiamo ormai a stento?
E che problema è? Se ne creeranno altri di classici: altre antologie e altri florilegi, che selezioneranno le opere da trasmettere alle generazioni future con i criteri del loro tempo. E anche questo, dopotutto, è successo mille volte in passato.
Però a me una scrittura concepita soltanto in formato elettronico fa ugualmente un po' paura, perché sarà patrimonio di persone abituate a pensare con gli stessi criteri di intercambiabilità di parole e di idee permesse da un testo in Word, convinti che anche gli errori e gli amori si possano eliminare dalla vita, semplicemente, con un clic.

venerdì 21 settembre 2012

Settembre, andiamo!

 “Settembre, andiamo! E’ tempo di  migrare.”
Così inizia una celebre poesia di D’Annunzio che ho studiato per la prima volta in quinta elementare (bei tempi!..). E’ settembre: i pastori d’Abruzzo, con il cuore carico di nostalgia per i focolari lasciati, migrano verso i pascoli pugliesi seguendo gli antichi sentieri dei padri. Il poeta, lontano dalla sua terra, ne condivide il rimpianto e vorrebbe essere con loro. L’ho citata perché ricalca un po’ il mio stato d’animo di questi giorni: settembre è arrivato, dopo il tramonto della torrida stagione estiva, portando, anzi riportando, con sé il mondo della scuola, i ritmi frenetici della vita lavorativa, la realtà di quella normalità che caratterizza l’esistenza di molte persone e che ha sempre caratterizzato anche la mia. Quindi niente di strano, ma questa volta l’alba della nuova stagione e il ritorno alla “normalità” hanno un sapore diverso. Un senso si curiosità, gioia, intraprendenza, voglia di rimettersi in gioco si scontra di continuo con una struggente nostalgia, una sensazione di rimpianto, di perdita di qualcosa che non tornerà più, che sta definitivamente per cambiare, che ha segnato profondamente la vita, ma che non sarà mai più così…E la curiosità, intrisa di stupore e meraviglia porta continuamente a chiedersi perché e “come ho fatto” a fare tutto, a non andare in crisi e a cavarmela, tutto sommato, bene..! Sarà perché nelle ultime quattro stagioni ho vissuto ciò che, nel bene e nel male, avevo prima tenuto lontano: attesa, nascita, distacco, perdita, lutto… E’ curioso, ma anche inquietante, notare che le parole che diceva l’infermiera quando visitava mia nonna nel letto di ospedale nei suoi ultimi giorni di vita (“la pressione va bene, il battito va bene”..) erano le stesse che mi diceva l’ostetrica in sala parto durante il mio travaglio… “La pressione va bene, il battito va bene”… Il battito di una nuova vita che sta per nascere, il battito di una vita che sta per spegnersi, ma fino all’ultimo batte… Veramente esiste un filo invisibile che lega morte e vita…Tutto ciò mi fa rabbrividire, ma anche restare in silenzio, immobile e incantata di fronte a questo grande Mistero..! Non ho mai creduto alla profezia Maya secondo cui nel 2012 dovrebbe finire il mondo, ma di certo parte del mio mondo sta finendo…o forse è un nuovo inizio! Chi può dirlo?!
Saluti “sproloquiati”

mercoledì 19 settembre 2012

Terra di Siena

Avete mai fatto caso a quanto sono belli i nomi che si trovano sui tubetti dei colori a tempera o a olio? Ci sono cose magnifiche come il blu di Prussia, il nero d'avorio, il bianco di titanio, il bruno Van Dyck, la lacca, il cinabro e la misteriosa "terra d'ombra". Poi ci sono le due "terre di Siena", naturale e bruciata: giallo dorata la prima, bruno rossastra la seconda. Sono molto usate e tutti, credo, ce le siamo trovate tra le mani (e a volte anche sulle mani, sulla faccia e sui vestiti) quando facevamo educazione artistica a scuola, ma viaggiarci dentro per due giorni è tutta un'altra faccenda...
Ancora una volta a caccia di luoghi sacri con la parrocchia dell'amica Francesca (non quella del nostro blog, sebbene anche lei sia stata, anni fa, mia presidentessa), che ogni volta, non si sa come, progettando l'itinerario, riesce ad azzeccare mete che desideravo vedere da una vita.
Quest'anno c'è riuscita con San Galgano, prodigioso scheletro di chiesa cistercense col cielo per soffitto, piantata tra i campi appena arati, e con Lucca, dove noi ciose è da un po' che meditiamo di andare senza mai riuscirci: l'abbiamo assaggiata il giorno dopo la festa dell'Esaltazione della Croce, con i resti delle luminarie ancora appesi alle facciate delle case e delle chiese e un immenso e affollato mercato dell'antiquariato, colmo di chincaglierie varie tra il malinconico e l'affascinante.
Il nostro percorso, infatti, ripercorreva un tratto di via Francigena, dalla Lunigiana fino a Siena, alla ricerca dei luoghi cari ai pellegrini: la pieve di Sorano, con le finestre dell'abside asimmetriche per acchiappare la luce d'oriente, il campanile, che serviva anche come torre di guardia e le statue-stele dell'età del bronzo reimpiegate come architravi; poi Lucca: San Frediano e il Duomo, che si contesero l'onore di ospitare il "Volto santo", un crocifisso decisamente orientale, con la tunica e gli occhi spalancati, che la tradizione - falsa, ma non per questo meno affascinante e significativa - vuole sia stato scolpito nientemeno che da Nicodemo.
In un pilastro sulla facciata del Duomo c'è un labirinto, forse fatto dai templari. A guardarlo viene da pensare che noi saremo pure avanzati e telematici, ma non ci riesce più di fare una cosa che ai nostri antenati riusciva benissimo anche se erano analfabeti: decifrare i simboli.
Il catino di piazza del Campo di sabato sera è pieno di gente accampata: pare piazzale della Pace senz'erba e in pendenza. Avvistiamo da lontano anche un corteo di contradaioli che cantano e sventolano bandiere e l'effetto Medioevo è assicurato. Anche le cameriere del ristorante dove ceniamo hanno vesti medievali, ma con le scarpe da tennis. La più loquace ci porta una ciotola di "ceci piccini del Chianti". Già così suona bene, ma provate a pronunciarlo con le c aspirate e vedrete che è notevole.
Dormiamo in una "casa per ritiri" appena fuori Siena gestita da suore in borghese. E' decisamente vintage: stanzette quasi tutte senza bagno con il lavandino in camera che paiono celle di convento. Nella sua Dani trova appeso alla parete un quadretto con un motto che invita a parlare poco e con giudizio. Chissà perché, leggendolo, mi prende una botta di vergogna.
Al mattino scopriamo che la casa è antica: era di una nobildonna che la donò alla chiesa. Sarà per l'aria un poco decadente o per l'orto che contende spazio al giardino, ma mi ricorda la "Vill'Amarena" di Gozzano, anche se dall'alto non si scorgono "Ivrea turrita e i colli di Montalto", ma tutta quanta Siena, che ha anch'essa il colore delle sue famose terre.
Il giorno dopo arriviamo a Sant'Antimo sfiorando Montalcino (l'intero pullman, compresa me, astemia, pensa al brunello). La pieve è un prodigio romanico in pietra bionda, onice e alabastro in una conca tra gli ulivi. La messa è in latino con canti gregoriani. No, tranquilli, il Vangelo e l'omelia sono in italiano, peccato che il sacerdote ultraottantenne che li pronuncia entrambi è francese e parla come il nonno di Poirot, mentre il giovane frate che fa da chierichetto ha la mano pesante con l'incenso, che sale a scenografiche volute illuminate dalla luce dorata che piove dalle finestrelle sopra i matronei.
Assieme a noi ci sono molti stranieri, forse turisti, ma forse no, visto che molti casali abbandonati nelle campagne toscane che tutto il mondo ci invidia (a ragione!) sono stati salvati da inglesi e tedeschi.
L'ultima tappa è Monte Oliveto Maggiore, casa madre dei benedettini olivetani, tra le cui fila si annoverano valenti pittori, incisori e architetti. Buona parte di ciò che vediamo è opera loro, comprese le tarsie del coro, talmente belle che Napoleone (ladro di buongusto) provò a portarsele via. Il complesso quattrocentesco è tutto in mattoni rossi fatti di argilla locale: ancora la terra!
Ci porta in giro una guida anzianotta e istrionica che si diverte moltissimo a raccontarci i dispetti che il Sodoma (un soprannome, una garanzia!), incaricato d'affrescare il chiostro, combinò ai frati dal braccino corto. Dani ha il sospetto che qualcosa s'inventi, ma lui sostiene di aver letto tutto nelle dettagliatissime cronache dell'epoca, più divertenti dei racconti di Boccaccio.
E' ora di rientrare. Prima di infilarci in autostrada ci godiamo ancora per un po' la vista di paesi circondati da mura, ulivi, cipressi e campi. La luce radente fa più scuri i solchi sinuosi lasciati dall'aratro: sembrano onde, e noi ci naufraghiamo dentro per benino nell'inevitabile abbiocco di fine viaggio...

lunedì 17 settembre 2012

Oh, oh. Mi è sembrato di vedere un lapsus!

E' quasi tutta la mattina che, per lavoro, mi studio pagina per pagina il sito di un ristorante-azienda agricola-relais delle nostre parti specializzato in salumi e carni cotte in varie maniere.
Si affaccia in ufficio il capo e mi chiede quel che sto facendo; glielo dico. Mi domanda, allora, se sono andata avanti con un altro progetto.
Disgraziatamente gli rispondo così: "Sì, ti ho girato le pagine venerdì. Le hai già GRIGLIATE?"
Ehm... guardate!
Buon lunedì a tutti.
Saluti storditi.

martedì 11 settembre 2012

L'abito fa il (quasi) prete

In verità io con una veste lunga addosso l'avevo già visto anni fa, peccato si trattasse di una camicia da notte di raso rosa che gli amici lo avevano costretto a indossare sopra il completo elegante il giorno della sua laurea. Quindi capirete che ritrovarmelo con la talare nuova di zecca, lunga fino ai piedi e stretta in vita da una larga fascia ("E' il modello ambrosiano!" puntualizza orgoglioso), mi ha fatto una certa impressione.
Il fatto è che io me lo ricordo ancora quando Chiara se lo trascinò dietro per un polso nel chiostro grande di Camaldoli e me lo presentò esclamando stupita: "Ma lo sai che non ha ancora compiuto ventun'anni?!" Io ne avevo già venticinque, lei ventiquattro, ma ci bastò poco per accorgerci che il ragazzetto sparuto che ci stava davanti aveva qualcosa di eccezionale.
E il sospetto di dove sarebbe andato a parare ci venne, credo, già dalle prime e-mail che ci scrisse, pericolosamente simili a omelie. Belle omelie.
Sono passati nove anni. Dopo due ore di messa solenne nel duomo di Milano gremito, lo avvisto tra la folla da stadio corsa a festeggiare lui e i suoi colleghi (merce rara i futuri preti, da coccolare con riguardo), che, terminato il primo ciclo di studi, sono stati appena ammessi al presbiterato e tra tre anni saranno ordinati: parla ad alta voce al telefono e dispensa sorrisi e manate all'urbi et orbi. Dopo le foto di rito ci precede a lunghe falcate dinoccolate: non fosse magrissimo e un poco curvo ne avrebbe del don Camillo.
Ripariamo in un bar per un brindisi e un saluto veloce: lo aspettano in parrocchia. E la prima cosa che ci viene da chiedergli è... se ha caldo, così nero sotto il sole di quest'ultima coda d'estate. Sì, ovviamente. Giura che questa tenuta è solo per i giorni speciali, per gli altri basterà il clergyman, ma è chiaro che, tutto sommato, ci si trova a suo agio e a guardarlo e ascoltarlo viene facile capire il senso della parola "vocazione".
Racconta della sua mattina un tantino concitata, delle valigie già pronte per passare al nuovo seminario, poi chiede a ciascuno come va. Infatti urgono ragguagli, perché più della metà delle persone che ha di fronte non si vedono e non lo vedono da tempo. E così, a questo quasi prete è già riuscito un piccolo miracolo.
Ritrovo i miei milanesi: Elisa, che dispensa buonsenso ed entusiasmo, Marco, galante per costituzione; poi Chiara di Brescia, sorridente e gentile come il suo nome, Maria di Bergamo, felice con fresco fidanzato al seguito e io, l'infiltrata emiliana, pecorella parecchio smarrita e sull'orlo della commozione.
Grazie anche di questo, allora, fratellino, e buon cammino!

mercoledì 29 agosto 2012

C'è chi può...

Oggi papà mi ha regalato una crociera.
Caraibi? Mediterraneo? Isole greche?

Riformulo.
Oggi papà mi ha regalato una CHIAVE A CROCIERA: un simpatico attrezzo che serve a svitare più facilmente i bulloni che serrano le ruote dell'auto nel caso se ne bucasse una e occorresse cambiarla e non ci fossero nei paraggi elettrauti gentiluomini.
Ah, ecco, ora è tutto più chiaro!
C'è chi può... e chi s'accontenta.

lunedì 27 agosto 2012

Mary Poppins mi fa un baffo!

Han cominciato Dani e Costi in vacanza a chiedersi cosa mai io tenessi nella mia borsa sempre al limite dell'esplosione. La cosa è continuata anche al ritorno, minacciando estemporanei svuotamenti a scopo esplorativo.
E va bene, ora ve lo dico cosa c'è nella borsa. In rigoroso ordine alfabetico.

- Agenda (che mi dimentico di consultare)
- Aspirina in granuli (ho una salute di ferro!)
- Biro
- Biglietti da visita (non è che mi do delle arie: è che al lavoro me ne hanno forniti tanti e non li uso mai, quindi li tengo a portata di mano per smaltirne qualcuno)
- Burrocacao
- Bustina con l'occorente per "quei giorni" (nei quali non indosso pantaloni bianchi, non mi siedo su petali blu né, tantomeno, mi getto dal paracadute o faccio capriole...)
- Bustina "tecnica", contenente: caricabatterie e auricolare per il cellulare, chiavetta, batteria di scorta e cavetto per la macchina fotografica
- Chewing gum o caramelle (quando mi ricordo di comprarle...)
- Chiavi (di casa, dell'ufficio, dell'auto e della bicicletta), così non me le scordo e/o le smarrisco tutte in un colpo solo (mi vengono i brividi a pensarci)
- Cerotti (almeno un paio)
- Collirio (vedi alla voce "aspirina")
- Fazzoletti di carta + un fazzoletto di stoffa (spesso usato... pardon!)
- Foulard (sempre, anche a ferragosto: vedi la voce "pastiglie per il mal di gola")
- Gel disinfettante per le mani
- Kit cucito: un ago, un filo bianco e uno nero, un bottone bianco e uno nero una spilla da balia
- Macchina fotografica
- Maglione (vedi alla voce "foulard")
- Occhiali da sole (da maggio a ottobre, più o meno)
- Ombrello (sempre, perché in spiaggia può riparare dal sole...)
- Pastiglie per il mal di gola (da settembre a giugno, ma anche oltre)
- Patente (nella foto avevo 19 anni)
- Portafoglio (con pochi soldi e molti scontrini)
- Quaderno per appunti
- Specchietto (che non uso mai, per non prender paura)

Chiariamo, questa è la dotazione massima, quella di quando uso la borsa per lavoro o in viaggio. Quando esco la sera posso anche limitarmi, ma non sempre ci riesco.
Insomma, io e le pochette non potremmo mai andare d'accordo... Comunque le mie amiche hanno ragione: forse la borsa ha qualcosa a che fare con la mia scoliosi. E - essendo pensata per affrontare ogni imprevisto - testimonia anche, credo, una grossa dose di insicurezza che si fa ogni giorno più preoccupante, ma questa è un'altra storia e si dovrà raccontare un'altra volta.
Saluti superaccessoriati!

martedì 21 agosto 2012

Spaesamenti

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
(E. Montale, Meriggiare pallido assorto)

Rieccoci qui dopo un lungo silenzio festivo.
Anche quest'anno, nonostante tutto, una settimana di ferie siamo riuscite a portarla a casa, assieme a un po' d'abbronzatura, qualche foto, ricordi e ricordini assortiti.
E' andata più o meno così. In una torrida serata di luglio, pigiate davanti al computer, c'è cascato l'occhio su Sestri Levante. Capite bene che un posto che ha una spiaggia battezzata da Andersen "Baia delle favole" non poteva che ispirarci. Quindi, armate di belle speranze, abbiamo scritto a un paio di bed & breakfast, incrociato le dita in attesa di risposta e acchiappato il primo che ci ha detto di sì, salvo poi chiederci: "Come mai costa poco ed è libero a cavallo di ferragosto?". Semplice: perché è a 1 km e mezzo dal mare, su per una strada in salita con tanto di sottopasso della ferrovia e canale con un filo d'acqua che gorgoglia tra alghe d'un verde postatomico. Facendo un rapido calcolo, quella strada l'abbiamo percorsa almeno 4 volte al giorno per 7 giorni e il risultato equivale esattamente a una maratona: "Pensate all'effetto rassodante!" ci ripetevamo l'una con l'altra arrancando in infradito sotto il sole.
Va detto, però, che le proprietarie del b&b, gentili, pingui e casiniste quanto basta per risultarci simpatiche, a colazione ci rifornivano di maxi brioches di pasticceria e di focaccia di forno in quantità sufficiente per affrontare la calata fino al mare. E che, lungo la strada, c'era di tutto e di più: supermercati, bar, pizzerie, ristoranti, giornalai e persino un paio di pompe funebri (sic). Ah, dimenticavo: c'era anche un elettrauto che ci ha aiutato a cambiare una gomma. Sì, perché il nostro arrivo a Sestri è stato un pochino movimentato. Dopo un viaggio pressoché perfetto con poco traffico e colonna sonora vintage (non avendo io l'autoradio abbiamo riesumanto walkman e relative cassette anni '80-'90), siamo riuscite a sbagliare l'uscita dell'autostrada.
Lo so cosa state pensando: "Eh, la solita Cri che si perde dappertutto!". Vero! Però anche quei benemeriti che hanno pensato di fare un unico svincolo per la stazione di servizio e il casello hanno la loro parte di responsabilità.
A Lavagna ci siamo ingorgate nel traffico ligure, talmente ostico da farci rimpiangere la quasi totale assenza di rotatorie. Quindi, infilata dopo diversi tentativi la strada giusta, abbiamo oltrepassato il b&b. "Nessun problema! Faccio inversione e siamo arrivate". Peccato che tra me e i miei buoni propositi si sia frapposto un marciapiede scheggiato che mi ha dato il benvenuto con un bel buco nella gomma. Inutile dire che era nuova di pacca: cambiata il mese scorso dopo la revisione. Non ho nemmeno detto tante parolacce.
Quando ho visto l'insegna dell'elettrauto lì vicino ho capito cosa prova un beduino alla vista di un'oasi nel deserto: non è un gommista, d'accordo, ma un po' d'attrezzatura l'avrà... Infatti. Dal gommista ci ha poi accompagnato una delle proprietarie del b&b: lei davanti in motorino, noi dietro in auto, meste e accaldate.
Nel pomeriggio, finalmente, ci siamo assestate e abbiamo deciso di scendere in spiaggia per dare l'avvio ufficiale alla vacanza. Ci crediate o no, s'è messo a piovere. Sarà durato meno di un'ora, ma è stato più che sufficiente per chiederci se ci eravamo ormai giocate il bonus sfiga per il resto della settimana.
No, purtroppo, perché la mattina dopo io ho pensato bene di fare una visitina al prontosoccorso, con Costi che mi ha accompagnato mettendo a frutto l'esperienza acquisita guardando ER e dintorni.
Poi, per fortuna, è andata un po' meglio, se si esclude un sandalo rotto inciampando su un marciapiede dissestato (eh, no, anche a piedi!?); e la lunga ricerca su strada deserta, in salita e assolata, fiancheggiata da una muraglia molto montaliana, di una mostra che si è rivelata aperta solo nel weekend (era martedì); tutto è filato quasi liscio.
Abbiamo fatto un giretto in battello a San Fruttuoso, con i bagnanti che contendono alle barche i pochi metri di mare azzurro e il santuario plurisecolare che guarda con sufficienza la distesa di ombrelloni ai suoi piedi, e a Portofino, con la celeberrima piazzetta ingombra di camion che stavano caricando le impalcature utilizzate il giorno prima per girare un video di Bocelli, e le botteghe d'alta moda, assolutamente incongrue con quello che resta, nonostante tutto, un paese costruito da pescatori.
A Camogli NON abbiamo mangiato un panino, ma una bruschetta con vista sul porto, con le reti stese ad asciugare, la rocca (chiusa anche quella...) e le case altissime, che parrebbero condominiacci se non fossero affrescate. Lì c'era la mostra introvabile e invisitabile di cui sopra, che aveva lo stesso titolo di questo post.
Abbiamo fatto una capatina anche a Levanto a trovare l'amica Sandra. Guardacaso era giorno di fiera e tra noi e il mare si è frapposto un corposo mercato. Beh a dire il vero anche a Sestri, ogni sera, prima e dopo cena, passavamo tra le bancarelle di borse, bijou e ninnoli vari, alcuni dei quali sono tornati a casa con noi.
Nei giorni di quiete ci siamo date a un originale sport da spiaggia: racchettoni? biglie? beach volley? Acqua, acqua... Complice Nerone, Lucifero o non ricordo quale degli anticicloni dai nomi inquietanti che hanno reso quest'estate torrida quasi come quella del 2003, ci siamo cimentate nella caccia all'ombra! Facile? Provate voi a incastrare tre lettini sotto un unico ombrellone poi mi direte: occorrono precisione, abilità e riflessi pronti, per sfruttare ogni centimetro ed evitare di schiacciarsi le dita negli infernali meccanismi.
Abbiamo così scoperto che a noi, dopotutto, la spiaggia piace dalle 18.30 in poi, quando comincia a svuotarsi. Quando i bagnini fanno il giro ad espiantare gli ombrelloni, il sole e la sabbia non scottano più, si leva la brezza, il vocio si attenua e le ombre si allungano. E noi potevamo dedicarci tranquillamente alla lettura e alla ricerca di sassolini e vetrini colorati e levigati dal mare senza rischiare di calpestare nessuno. Vetrini e sassolini che la creativa Dani, armata di colla acquistata al colorificio, che faceva sempre parte della serie di negozi lungo la via dal mare al b&b (e viceversa), ha trasformato in ciondoli e anelli. Perché anche in vacanza le ciose non perdono le loro buone (?!) abitudini. Sarà per questo che - a parte qualche pizza d'asporto - non ci siamo fatte mancare cenette sfiziose e gelatini - beh, mica tanto "ini" - d'ordinanza. Peccato per l'inafferrabile farinata: pur essendo nella sua terra d'origine, infatti, pare che col caldo pochi si azzardino a farla e, per questo, spariva al volo, spesso prima che noi riuscissimo ad accaparrarcene un pezzo. In compenso siamo tornate a casa con un notevole corredo di focaccia che, abbiamo scoperto, si misura a fogli.
Che ne dite di un A3?!
Buon rientro dalle vacanze a tutti/e.

martedì 31 luglio 2012

Deliri della villeggiatura

Prologo
La villeggiante. La prima volta che mi sono sentita definire così avrò avuto quindici anni. Ero l'elemento estraneo, capitato per caso nel paesino preappenninico, e così venivo presentata dalle mie prime amiche autoctone ai loro conoscenti. Sono passati vent'anni e ancora mi diverto quando qualcuno mi chiama villeggiante.
E' capitato anche una quindicina di giorni fa. Scesa in paese per delle commissioni mi sono concessa un caffé in un bar del borgo. L'uomo dietro il bancone sa il suo mestiere: sorride affabile, scherza con i clienti abituali, è cortese con gli estranei, con me, che non appartengo a nessuna delle due categorie precedenti (nei piccoli paesi hanno un fiuto eccezionale per certe cose), tenta una battuta, poi mi guarda e sentenzia: "E' qui in villeggiatura?". Annuisco e mi viene da ridere: mi vedo in abiti settecenteschi sullo sfondo di una meravigliosa villa in uno scenario da commedia goldoniana. Poi penso ai miei cinquanta metri quadri soppalcati: no, non è la stessa cosa, ma va bene ugualmente, finché dura...

Atto primo
La villeggiante ha voglia di mare. Tanta. Frugando nell'armadio scopre che il suo parco costumi langue. Nessun problema: è tempo di saldi! La villeggiante è perfettamente in linea con le tradizioni agroalimentari della sua terra: possiede una bella pancetta e due notevoli prosciutti... per non parlare del culatello. Quindi a un bikini chiede una sola cosa: che la parte di sotto sia in grado di contenere, diciamo così, l'abbondanza. Perciò, al terzo negozio, dopo aver esaminato intere pareti di costumi, ha tutto il diritto di essere perplessa. Invariabilmente, infatti, si trova di fronte a uno di questi tre casi:
a) La parte di sotto funziona: abbraccia bene, ma non somiglia a un mutandone della nonna e ha pure un bel colore. La parte di sopra, però, è un'armatura ferrata e imbottita che la villeggiante, con tutta la buona volontà, non saprebbe con cosa riempire e che, oltretutto, presumibilmente, una volta bagnata impiegherà una settimana ad asciugarsi: praticamente l'intera durata della sua possibile vacanza.
b) La parte di sopra è perfetta, la parte di sotto è talmente microscopica da star male persino addosso al manichino.
c) Sopra e sotto hanno una forma plausibile. Peccato che siano verde semaforo, giallo evidenziatore o arancione assistenza pubblica: colori ideali per segnalare a tutta la spiaggia il punto esatto dove è possibile ammirare dell'autentica cellulite emiliana.
La villeggiante medita di convertirsi alla montagna.

Atto secondo
Sono le 22.30. Non tira un filo d'aria. La luna quasi piena disegna il profilo delle colline. L'auto dei genitori della villeggiante è parcheggiata in uno slargo della strada in un punto strategico dal quale si vedono il fiume in secca, il ponte e le luci del paese in sagra. Sui sedili anteriori un signore e una signora attempati discutono tra loro: "Quando avrebbero dovuto farli i fuochi?" "Boh, io avevo letto alle dieci." "Sei sicura?" "Sì." "Uffa. Se ci fanno aspettare ancora un po' ce ne torniamo a casa." "Magari in paese ci son quattro gatti e han deciso di non farli per risparmiare... sai, con la crisi che c'è." "Ah, può darsi, anche perché i fuochi d'artificio sono molto cari..."
Si leva una voce dal sedile posteriore: "Eh già: costano un botto!"
La prima esplosione colorata, alle 22.45 circa, copre gli improperi.

Epilogo
E' tempo che la villeggiante (pendolare) vada in ferie.

lunedì 23 luglio 2012

Tarte aux abricots


Avete notato anche voi quante albiccocche ci sono quest’anno? Bisogna assolutamente approfittarne per una torta! Ma non una crostata, facciamo una tarte!
La ricetta della tarte è semplicissima, ha tre soli ingredienti e a parte la cottura in forno vi impegnerà al massimo per soli 10 minuti. Si prende una teglia che possa andare anche sui fornelli, la si riempie per circa mezzo centimetro di zucchero (anche meno se vi piace meno dolce o se i frutti sono già particolarmente dolci!),e sopra vi si adagia la frutta denocciolata e ben disposta in modo da riempirla senza lasciare spazi. Non mescolate la frutta sul fuoco, è importante che la frutta resti ben disposta perché la torta andrà servita capovolta. Dopo aver  fatto caramellare lo zucchero si ricopre la teglia con un disco di pasta sfoglia, precedentemente bucherellato con una forchetta, cercando di rimboccare i bordi come se fosse una coperta. La pasta sfoglia potete comprarla già fatta oppure farvela in casa (io uso sempre la mia, lavorazione tutto burro!). Infornate a 170° fino a quando la pasta si sarà alzata e avrà assunto un bel colore dorato (dovrebbero bastare 20 minuti). Aspettate almeno 5 minuti, in modo che il caramello si consolidi, e capovolgete. E’ squisita tiepida.
Questa torta se fatta con le mele al posto delle albicocche è un classico della pasticceria francese. L’ ho vista fare anche con le pere, quindi  sperimentate pure altri tipi di frutta e fatemi sapere! A me piace molto con lo zucchero di canna.
Vi mando un abbraccio.

lunedì 16 luglio 2012

Il Milione

"Ma perché Venezia? E che ne so!" (MP)
Ve ne ho parlato allo sfinimento. Ieri l'ho trovato nella versione completa andata in onda nel remoto 1998. Godetevelo, se volete.
A Costi, che ne è appena tornata, con deliziosa, amorevole, ma cospicua, invidia.
E a Marco, che la notte di San Giovanni mi ha fatto la stessa domanda che si fa nei primi minuti dello spettacolo anche il suo omonimo attore; domanda alla quale io ho dato, senza saperlo, la sua stessa risposta...


AGGIORNAMENTI: Miseriaccia! neanche due giorni e hanno bloccato il video integrale per problemi di copyright. Capisco, ma mi dispiace. Spero che qualcuno sia riuscito a vederlo. Lo sostituisco con uno spezzone dello stesso spettacolo. Altri li trovate qui: http://www.youtube.com/watch?v=ZhA30n7kTO8&feature=related - http://www.youtube.com/watch?v=9uumJS-WQqo&feature=related - http://www.youtube.com/watch?v=FVES_GnLTaA&feature=related - http://www.youtube.com/watch?v=uTM6sXCl0zo&feature=related
Un saluto a tutti i "campagne"!

mercoledì 11 luglio 2012

La Banda della bandella

Ebbene sì, dopo alcuni anni di lavoro fianco a fianco e un doloroso addio, la premiata ditta D&C è tornata a far danni insieme, cartacei, ovviamente, costituendo la famigerata "Banda della bandella".
Ok, ok, ora ve lo dico cos'è una bandella, ma state tranquille: fino a qualche mese fa non lo sapevo nemmeno io. Trattasi di quella cosa nota anche con il nome di "risvolto di copertina", anche se, nelle edizioni economiche, dove il risvolto non c'è, finisce direttamente sul retro (la quarta), nella quale, di solito, si trovano informazioni sui contenuti del libro e/o sull'autore.
Vi siete mai chieste chi diavolo le scrive, visto che solo raramente capita che siano firmate?
Semplice: i poveri redattori e correttori di bozze - specie protetta in via d'estinzione - i quali, oltre a dover scovare errori e sistemare traduzioni traballanti in tempi minimi e per stipendi altrettanto ridotti, talvolta devono anche accollarsi questo compito. E vi assicuro che è una bella rogna!
In poche righe bisogna dare un'idea della trama, così da invogliare il lettore a comprarsi il libro, senza però dire troppo, per non rovinare la sorpresa. Quando il libro fa parte di una delle sterminate serie di trilogie, tetralogie e chi più ne ha più ne metta, lo sventurato redattore deve anche dare un'idea del punto della storia in cui ci si trova. Il più delle volte, però, senza aver letto gli altri libri, corretti da qualcun altro. Ah, dimenticavo: è inutile dire che le case editrici, di solito, non sono molto prolisse di indicazioni sul taglio da dare, lo stile e nemmeno il numero minimo e massimo di righe. Se poi, come accade sempre più spesso, il libro è anche una palla, la faccenda diventa durissima! Quindi, meglio spartirsela con qualcuno.
Succede così: D, redattrice e correttrice di bozze provetta, racconta a C, impiegata in un'agenzia di comunicazione, la trama del libro con cui ha appena finito di litigare; C, che di raccontare le trame dei libri non è mai stata capace e che persino se deve spiegare a qualcuno com'è un film sarebbe tentata di scriverglielo, tenta una bozza. D la sistema e la invia all'editore che è libero di farne ciò che vuole.
Tutta la trafila si svolge, in genere, alle ore più strane, in ritagli di tempo strappati ai rispettivi lavori: pause pranzo, sabati sera di rientro da pizza e cinema e via di questo passo.
Però, più o meno, funziona.
E devo ammettere che è divertente!
Pensateci la prossima volta che darete un'occhiata veloce a una bandella...
Saluti letterari.
P.S. Le immagini sono sculture di Cordelia von den Steinen, moglie del fu Cascella, quello del monumento alla Via Emilia in ple. S. Croce, per intenderci, di cui anni fa il padre di Chiara diede un'illuminante definizione: "al per un lumagòn c'al pissa". Lei, invece, non mi dispiace.

venerdì 29 giugno 2012

"Allora lo farò io!" disse la gallinella rossa

Per la serie "galline famose" ecco una favoletta che fa parte dei miei ricordi d'infanzia. Credo sia originaria dell'Inghilterra. Protagonista è una gallina che sa il fatto suo. Devo averla riletta e ripetuta tante di quelle volte che a casa mia la frase che dà il titolo a questo post è ancora oggi usata quasi come un modo di dire, quando ci si rimpalla una faccenda particolarmente ingrata e qualcuno, in genere io, alla fine se la accolla di mala voglia.
La dedico alle ciose con prole, se vorranno raccontarla ai loro pulcini, e a Elis, che, invece, tra una chiacchiera e un occhio alla partita, ieri sera ci ha sfamato per benino e... non ci ha costrette a lavare i piatti!

Un giorno la Gallinella Rossa stava razzolando nel cortile della fattoria, quando trovò un chicco di grano.
"Chi vuol seminare il grano?" chiese. 

"Io no" disse l'anatra. 

"Io no" disse il gatto.
"Io no" disse il cane. 

"Benissimo", disse la Gallinella Rossa "allora lo farò io". 
E seminò il chicco di grano.


Dopo qualche tempo il grano divenne alto e maturo.
 "Chi vuol tagliare il grano?" chiese la Gallinella Rossa.

"Io no" disse l'anatra.

"Io no" disse il gatto.

"Io no" disse il cane.
 "Allora lo farò io" disse la Gallinella Rossa.
 E tagliò il grano.
 Poi disse: "Chi vuol trebbiare il grano?"
"Io no" disse l'anatra.

"Io no" disse il gatto.

"Io no" disse il cane.

"Allora lo farò io" disse la Gallinella Rossa. E trebbiò il grano.
 Quando il grano fu trebbiato, chiese:
 "Chi vuol portare il grano al mulino per farlo macinare?"
"Io no" disse l'anatra.

"Io no" disse il gatto.

"Io no" disse il cane.

"Allora lo farò io" disse la Gallinella Rossa. 
E portò il grano al mulino. 
Quando il grano fu macinato, chiese: "
Chi vuol fare il pane con questa farina?"
"Io no" disse l'anatra.

"Io no" disse il gatto.

"Io no" disse il cane.

"Allora lo farò io" 
disse la Gallinella Rossa. E impastò una bella pagnotta e la infornò.
 Quando fu cotta disse: "Chi vuol mangiare il pane?"

"Io voglio!" disse l'anatra.

"Io voglio!" disse il gatto.
 "Io voglio!" disse il cane.
"Oh, no!" disse la Gallinella Rossa: "Io ho seminato, io ho mietuto, io ho trebbiato, io ho portato il grano al mulino, io ho impastato e cotto il pane... allora lo mangerò io!" 
E, chiamati i suoi pulcini,
 divise il pane con loro.

Saluti fragranti.

PS: l'immagine è un vaso greco del VII-VI sec. a.C. Sarebbe un galletto, ma non sottilizziamo!

lunedì 18 giugno 2012

Famolo strano... il treno!

Nella luce inedita delle 6 di mattina, chiara, limpida, talmente bella da rendere plausibili persino le orride strutture della costruenda nuova stazione di Parma, osserviamo perplesse il vagone abbandonato sul binario sul quale tra poco dovrebbe arrivare il nostro treno; proprio quando lo annunciano, però, accade la magia: appaiono due giovani uomini che aprono le porte del vagone abbandonato, accendono le luci e avviano il motore. Scopriamo così che quello non era un vagone, ma il treno tutto intero, con tanto di minuscola cabina di guida e aria condizionata lanciata a palla. Più che un treno, il Parma-Brescia delle 6 e 22 è una corriera su rotaie che approda a stazioni di paesini dai nomi a noi perfettamente sconosciuti, salvatesi non si sa come dallo smantellamento delle linee locali che procede a grandi passi. Se manca la biglietteria, non è un problema: si chiede direttamente in cabina, ignorando serenamente il cartello "Vietato entrare", e i macchinisti-custodi-bigliettai provvedono senza scomporsi. Viaggiamo in compagnia di stranieri, gli unici ai quali, forse, importa ancora qualcosa dei mezzi pubblici in Italia. Due uomini di colore parlano fitto fitto tra loro ininterrottamente in una lingua incomprensibile ma piacevole da ascoltare. E poi dicono che le donne sono chiacchierone! Un loro conterraneo pisola ascoltando musica. Mentre il mezzo prende velocità per rivendicare la sua appartenenza, per quanto spuria, al genere ferroviario, anche noi ci assopiamo, pensando che, dopotutto, questo è un degno prologo alla nostra giornata.
A Brescia facciamo in tempo a intravederlo, il nostro prossimo treno: ci appare in un lampo attraverso i finestrini dei suoi fratelli più giovani che lo affiancano. Tutta la stazione è in subbuglio per la sua presenza, ma noi abbiamo bisogno di un caffè, prima di presentaci a lui come si deve. Uscendo dal bar non dobbiamo cercare a lungo: intercettiamo un ferroviere che va incontro a un collega con un sorriso a trentadue denti ed esclama: "L'hai visto il treno storico?" e ci instrada al binario 3.
Eccolo! I vagoni sono degli anni trenta, si chiamano "Centoporte" e sono marroni, con finestrini piccoli, interni e pedane in legno, spartani ma graziosi. I sedili, pure in legno, sono meno scomodi del previsto e, soprattutto, più puliti e più freschi di quelli imbottiti sui quali ci siamo sedute nella tratta precedente. Tre di loro hanno il mio nome sopra e la cosa, capirete, mi ispira parecchio. Prima di salire, però, andiamo a guardare in faccia la motrice. Nera e rossa, tirata a lucido, sfiata vapore con grazia e già ne esce un filo di fumo: è una 625 del 1913. Bellissima. Ci accomodiamo e scopriamo di essere capitate, assieme a una coppia di nonni con nipotina smilza al seguito, nella carrozza riservata al personale: sono un manipolo di volontari delle Ferrovie Turistiche Italiane, caciaroni e bergamaschi. Quando scivolano dall'italiano al dialetto se ne escono in certe consonanti aspirate che nemmeno i muezzin!
Partiamo in ritardo, probabilmente per invidia: le Frecce rosse e bianche e argento, nuove fiammanti, mal digeriscono che tutti le snobbino e si fermino, invece, a guardare la loro bisnonna a vapore. Sarà così per tutto il viaggio: ad ogni passaggio a livello e qua e là lungo la linea gente che saluta, sorride, scende dall'auto per fare una foto. Bambini incantati inchiodano le biciclettine e fanno ciao ciao ai loro coetanei (tanti) che li guardano dal finestrino. S'affacciano famigliole sorridenti persino dai balconi dei condominiacci vista ferrovia... per una volta contente che il treno gli passi così vicino a casa. La locomotiva a vapore semina gioia e stupore fuori e dentro i suoi vagoni, perché anche noi passeggeri siamo decisamente felici di far parte dello spettacolo. Ci spiace soltanto essere così poco in stile con quel che ci circonda, con le nostre braghe da battaglia, le magliette colorate, le scarpe da ginnastica e le macchinette digitali, con le quali sporgerci a fotografare le volute di fumo che a volte s'abbassano sui campi di grano e di mais e ci finiscono inevitabilmente negli occhi. Ma fa parte del gioco, no?
Nonostante l'età, la macchina fila via liscia e veloce con il minimo sindacale di sobbalzi. Si ferma e riparte con un garbo quasi sorprendente; in realtà me lo aspettavo, perché l'ho letto, ma ora posso confermarlo di persona.
Perdiamo un po' di precedenze lungo la linea e gli uomini del treno entrano in fibrillazione: le coincidenze con il traghetto sono saltate. Occorre rimediare. Telefonano, si riorganizzano, imprecano (in bergamasco stretto), contestano, insomma, fanno più pollaio di quanto avremmo potuto fare tutte noi ciose messe assieme impegnandoci molto, ma alla fine risolvono.
Il tempo da trascorrere su Monteisola, l'isola verdissima e puntuta del lago d'Iseo, nostra meta finale, si riduce, ma non è un grosso problema, perché, infondo, la parte più divertente della gita è il viaggio. Lo trascorriamo a pranzo in un bar-trattoria alto sopra il paese di Peschiera Miraglio, lontane dal caos del lungolago, e in una lunga e torrida passeggiata digestiva fino a Sensole, durante la quale rimpiangiamo di non esserci portate il costume.
Dopo un'altra traversata in battello, ritroviamo il nostro treno ad Iseo, dopo aver oltrepassato un mercatino che, però, per una volta, non ha tentato più di tanto nemmeno Dani, forse perché a Peschiera siamo già incappate in una pesca di beneficenza. La motrice montata al contrario per il ritorno è un po' buffa, ma funziona egregiamente lo stesso. Il macchinista se la gode un mondo a farsi fotografare in cabina, con un gomito poggiato al finestrino. Durante il viaggio gli uomini delle Ferrovie Turistiche Italiane vanno carrozza per carrozza a vendere bottiglie di vino e opuscoletti con la storia della loro associazione: sono volontari e devono autofinanziarsi. Con noi non ottengono granché, ma almeno un po' di pubblicità gliela facciamo volentieri. Ecco il loro sito: www.ferrovieturistiche.it. Tenetelo d'occhio e cominciate a pregustarvi un viaggio fuori ordinanza.
A Brescia, stanche, accaldate e con bricioline di fuliggine attaccate alla pelle, salutiamo l'amica 625 e acchiappiamo al volo un altro microtreno per Parma. Stavolta l'aria condizionata è rotta, ma non ci scomponiamo, anzi, coi finestrini abbassati e le tende blu che svolazzano nel controluce violento della sera, ci sembra d'essere ancora nella nostra carrozza anni trenta. Accanto a noi si siede un tizio un poco inquietante: faccia stropicciata, pochi capelli grigi, lunghi e scomposti; dormendo ciondola pericolosamente in direzione delle ginocchia di Costi, e dello zaino che ci sta appoggiato sopra, con dentro i sei bicchierini da sorbetto che ci ha regalato oggi la cameriera del ristorante, perché quelli che ritirano il vetro non li vogliono e lei non sa che farsene. Il tizio non lo sa, ma potrebbe avere un risveglio piuttosto traumatico. Per fortuna si ripiglia da solo appena in tempo, si riassesta e, mentre adocchiamo in una stazioncina un impianto per rifornire d'acqua le locomotive trasformato in un lampione, attacca bottone. E' molto meno scentrato di quanto sembra, anzi, è piuttosto simpatico. Scopriamo che anche lui, tempo fa, ha fatto il nostro stesso viaggio, chiede che giro abbiamo fatto e poi aggiunge: "Scusate la domanda difficile, ma era per caso una 740?" Gli sorrido. Lui non sa che è proprio per via di un (e di una) 740 che ho cominciato, anni fa, a sognare tutto questo e non è solo colpa di una canzone, sussurrata a mezza voce in galleria.

"Come i treni a vapore come i treni a vapore

di stazione in stazione di porta in porta

e di pioggia in pioggia

di dolore in dolore il dolore passerà".


Saluti affumicati.

giovedì 14 giugno 2012

lunedì 4 giugno 2012

Vamos a bailar?

Qui si continua a ballare e, purtroppo, non solo al saggio della scuola di danza, durante il quale, sabato sera, abbiamo visto Meg e Costi come non le avevamo mai viste in dieci anni che le conosciamo (e come non le vedrete mai, poiché mi è stato vietato di pubblicare le foto!): vestite e truccate come i gatti del musical "Cats" con tanto di orecchie e code, e in versione "Liza Minnelli" in body nero e bombetta luccicante, molto, molto carine.
Prima e dopo di loro si sono esibite bimbette e ragazzine (con qualche sparuto maschietto) in agguerriti numeri di hip-hop, adulti in versione country, molto fieri dei loro cappelli e dei loro stivali, e signore colorate e tintinnanti che facevano danza del ventre e, in effetti, avevano quasi tutte una bella pancetta da mettere in mostra, ma erano comunque graziose. La cosa mi ha molto consolato e ho pensato che, non fossi rigida come un palo, sensuale quanto un calamaro e non mi vergognassi come una ladra, andrebbe bene per me...
Abbiamo aspettato le nostre colleghe all'uscita degli "artisti", in una notte di luna e di vento, in compagnia di parenti, amici e fidanzati, e siamo finite a tirar tardi al pub. Io e Dani siamo rientrate a casa sbadigliando (non per la serata, s'intende, ma perché per entrambe era stata una giornatina pesante e non abbiamo più il fisico... ammesso di averlo mai avuto) e guidando pian pianino, perché da due giorni io viaggio con la ruota di scorta, avendo distrutto una gomma mentre rientravo da una intensa sessione di orticoltura e giardinaggio in campagna. Ho raccolto cigliegioni, innaffiato e piantato piantine di pomodoro e oggi ho ancora mal di schiena. Al primo colpo di pala (scelta tra le più piccole e leggere della "collezione" di mio padre) ho centrato un formicaio. Ho chiesto scusa alle bestiole alle quali, dopotutto, avevo appena devastato la casa, e mi son spostata un po' più in là pensando: cominciamo bene!
Domenica pigra, movimentata soltanto dalla scossetta delle 21.20, quando la macchina del gas ha pensato bene di darmi una spintarella mentre lavavo i piatti guardando di straforo la Cenerentola di Rossini in diretta dai palazzi di Torino che, prima o poi, riusciremo a vedere.
Mi rendo conto che qui, per ora, c'è andata di lusso, ma sta diventando una faccenda piuttosto stressante. "Non può piovere per sempre" citava ieri in chat su Skype, dopo il fatto, l'amica Simona, compagna di mille sventure. Vero. Infatti stamani non piove: diluvia!
Torno al lavoro, va là, e spero che l'ineffabile ingegnere informatico - quello capace di presentarsi con 45 minuti di ritardo a una riunione di lavoro con le punte dei capelli bagnate e confessare, con invidiabile candore e un sorriso a trentadue denti: "Scusate, ero in piscina" - mi finisca gli aggiornamenti ad un sito che gli chiedo da settimane altrimenti lo strozzo! Con affetto, s'intende...

lunedì 21 maggio 2012

Io (non) ho paura

"La chiamano speranza/ ma a volte è un modo per dire illusione."
(Io non ho paura, Bungaro/Fiorella Mannoia)
Scoprire alle 4.05 di notte che non è un'idea brillante avere sopra il letto una mensola colma di fumetti, cd, foto con relative cornici e numerosi soprammobili variamente contundenti pronti a caderti in testa al primo scrollone.
Realizzare, un istante dopo (la scossa è lunga e ti dà il tempo di pensare), che questo è l'ultimo dei tuoi problemi, perché stai al quarto piano e hai una madre gravemente disabile che, anche volendo, non potrebbe fuggire da nessuna parte.
E che nemmeno tu, sinceramente, avresti voglia di lasciare la tua casa e le tue cose per sopravvivere, perché la tua casa e le tue cose, alcune, almeno, sospetti abbiano più senso di te.
Aspettare che passi e cercare di riprendere sonno leggendo un libro.
Insultarti perché, tra tutti i libri mezzo cominciati che hai sul comodino, proprio uno sulla guerra in Bosnia dovevi andare a scegliere?
Ripeterti che se vivessi in Giappone sarebbe peggio e che, comunque, non puoi farci niente.
Constatare che, dopotutto, morire in un terremoto è una delle cose migliori che ti può capitare in futuro, perché ce ne sono altre che t'aspettano, più dolorose e statisticamente più probabili.
Sì, anche questo lunedì sono di buonumore...

mercoledì 16 maggio 2012

Non aprite quell'armadio!

Sabato, mentre m'aggiravo per le vie del centro per l'addio al nubilato di un'amica, vergognandomi un po', c'erano 30 gradi; domenica, al battesimo del figlio della nostra Chiara (profano e sacro allegramente mescolati in un unico weekend: interessante...), ce n'erano 15: con questi sbalzi termici ogni giorno occorrono abiti adatti a un clima diverso e nel mio armadio ormai regna la confusione più totale e accadono cose che voi umani...
Le braghe di lino s'affollano attorno all'unico pantalone di lana rimasto indenne dalla lavanderia e gli chiedono cosa si prova ad avere gli orli pieni di neve. I calzini colorati fan la rivoluzione nel cassetto cercando di scacciare sul fondo i collant neri 120 denari. Il foulard di seta (vera o presunta) e la pashmina di cachemire (assolutamente presunto!), incontratisi per caso su un ripiano, prima si studiano, poi si piacciono e s'allacciano in un inestricabile tango di frange e motivi jacquard. Il piumino, già incelofanato, guarda con sufficienza il k-way che gli sta provvisoriamente appeso accanto. Il maglione di lana, capitato non si sa come spalla a spallina con il ncostume da bagno, lo mette in guardia circa i chili di troppo che ho accumulato quest'inverno; mentre la camicia di cotone incrocia le maniche e minaccia sciopero, perché anche lei, buona per ogni tempo, vorrebbe farsi un giro nei piani alti dell'armadio e riposare qualche mese.
Ma non c'è bisogno di scomodare la fantascienza. Come sempre gli antichi avevano già capito tutto: "In principio era il caos" dice Esiodo nel primo libro della sua Teogonia. "Dal caos nasce una stella", ama ripetere la nostra Costi, decisamente meno antica ma altrettanto saggia.
Guardate un po' fin dove sono andata a parare pur di non ammettere che detesto fare il cambio di stagione!