mercoledì 24 agosto 2016

Quam minimum credula postero

Nel mio caso non è spensieratezza: semmai il suo esatto contrario.
E' quando ti fai la doccia alle due di notte anche se vorresti solo buttarti sul letto perché pensi che magari domani qualcuno dei tuoi starà male e non avrai tempo, e ti toccherà andare in giro coi capelli sporchi: cosa che ti fa sentire ancor più a disagio di quanto tu già normalmente non ti senta.
E' quando ricarichi il telefono anche se ancora ha due tacche anziché una, perché se dovesse servirti per un'emergenza e ce l'avessi scarico ti sentiresti maledettamente in colpa.
E' quando nemmeno ci provi a prenotare una vacanza per la paura di doverla mandare a monte all'ultimo momento per qualche guaio familiare - che non è una remota eventualità ma una quasi ovvia certezza: perché qui si vive in trincea nel corso di una tregua armata - sapendo che in quel caso la rabbia e la delusione sarebbero più devastanti del presunto svago.
E' quando ti mandi i lavori più urgenti alla mail di casa, che non è detto che il giorno dopo tu riesca ad andare in ufficio e, nel caso, puoi riuscire a combinare comunque qualcosa e a limitare i danni.
E' quando arrivi a pensare che grazie al cielo non hai né un figlio né un marito a cui imporre senza volere la sofferenza di una qualche malattia per la quale sarebbero costretti ad assisterti per amore o per dovere... o per un'inscindibile mescolanza tra i due, divenuti ormai indistinguibili l'uno dall'altro, ed entrambi svuotati di senso.
 E' allora che smetti di cogliere l'attimo e sai che, in realtà, è lui a cogliere te, come vuole e quando gli pare, e, di solito, con inopportuna malagrazia.
E anche Orazio lo sapeva. Il motto che da tempo viene usato in contesti motivazionali per spingere le persone a prendere in mano la propria vita, in realtà, cala come un epitaffio al termine di una poesia in cui si parla di futuro incerto e inverni impietosi; e che invita a confidare di più in un bicchiere di vino che nei propri progetti.
Disgraziatamente io sono pure astemia...

martedì 8 marzo 2016

Lotto marzo

A volte nei venti minuti che mi portano al lavoro succedono molte cose, piccole, ma dannatamente significative, che raccontano meglio di un approfondimento serale su qualche canale tv il mondo in cui viviamo.
Oggi, ad esempio, ho perso l'autobus. E questa non è una novità. Mentre arrancavo imbacuccata e rassegnata per prenderne un'altro la cui fermata dista qualche centinaio di metri in più da casa mia, vedo un'anziana coppia di coniugi attraversare traballando la strada.
Apro una parentesi: qualcuno mi spiega per quale motivo la maggior parte dei vecchi attraversano le strade di sbieco, guardando sistematicamente dalla parte sbagliata e percorrendo più spazio e impiegando più tempo per mettersi al sicuro sul marciapiede opposto?
Comunque, dicevo, li guardo con un misto di tenerezza e apprensione finché non raggiungono l'altro lato della strada, ma non faccio in tempo a sospirare di sollievo che vedo con la coda dell'occhio - ormai li ho quasi superati, camminando al mio solito passo da bersagliera per evitare di perdere anche l'altro autobus - che l'uomo fa dietro front, ritorna in strada e, proprio sulla linea di mezzeria, si china pericolosamente a raccogliere qualcosa. Capisco che è un rametto di mimosa, caduto probabilmente alla signora mentre si reggeva al suo braccio nel periglioso attraversamento.
Il recupero ha qualcosa di eroico e cavalleresco e mi vengono in mente scene da film o da romanzo: dame che gettano candidi fazzolettini dalle torri per farli raccogliere dagli amati in calzamaglia e cappello piumato.
Quando vedo una macchina avvicinarsi al vecchietto piegato in due in mezzo alla strada tremo; ma per fortuna la macchina si ferma. Non solo: il finestrino si abbassa e ne escono la faccia e la mano di un giovane, armato di smarphone che dice al vecchietto, il quale si sta lentamente rialzando dalla scomoda posizione: "No, no, aspetti che le faccio una foto!"
Allibisco. Anche il vecchietto è così spiazzato da obbedire: posa il rametto di mimosa a terra e compie di nuovo il gesto di raccoglierlo, col giovane che si premura di improvvisarsi regista e dargli indicazioni sulla posizione migliore per l'inquadratura.
Non ho tempo per assistere al finale della scena, ma spero di cuore che tutti gli involontari protagonisti ne siano usciti illesi. E mentre riprendo a macinare a testa bassa e sciarpa sul naso la distanza che mi separa dalla sospirata fermata del bus, penso che non so se vorrei insultarlo o abbracciarlo l'autista-fotografo. Certo lo insulterei perché di fatto ha messo a rischio l'anziano signore, bloccandolo in mezzo alla strada e facendolo chinare di nuovo - il colpo della strega è dietro l'angolo! - solo per una foto, che, oltretutto, è un falso, perché pretende di immortalare un gesto già passato. D'altra parte lo capisco, perché anch'io sono rimasta colpita dalla scena tenera e gentile, tanto da provare a raccontarla. E anche il mio racconto, in qualche modo, è un falso: perché tutto s'è svolto in una manciata di secondi, io l'ho visto camminando in fretta e, per quanto abbia cercato di riportarlo fedelmente, qualcosa per forza m'è sfuggito e l'ho ricostruito a senso. E a scriverlo come a leggerlo occorre più tempo che a vederlo e si perde molto dell'immediatezza e dello stupore del momento; ma tant'è: mi sembrava giusto provarci.
Alla fine quel benedetto autobus l'ho preso, compiendo anch'io un periglioso attraversamento di strada a filo di macchine, mentre l'enorme bestia rossa era già prossima alla fermata.
Non ho fatto in tempo a sedermi e a sfoderare l'immancabile libro, compagno indispensabile alla mia sopravvivenza sui mezzi pubblici, che ho assistito a un altro paio di piccole perle di umanità.
Una donna di colore ha aiutato una giovane e magrissima mamma dagli occhi a mandorla a caricare sull'autobus il passeggino col suo bimbo. Poco dopo, quando già le porte stavano per chiudersi, è etrata una signora con un mazzo di fiori - rose e mimose mi pare di ricordare - che, dopo essersi seduta nel primo posto libero, s'è subito alzata per lasciar posto a una elegante ottantenne che sfoggiava una sfavillante e candida permanente.
Vedere donne di varie razze e varie età che si aiutano così, semplicemente e spontaneamente, senza stare a guardare le differenze, ma solo perché è la cosa giusta da fare, proprio l'8 marzo è indubbiamente una cosa che rincuora.
Poi arrivo in ufficio, mi collego ai vari social che uso "anche" per lavoro e pubblico i miei personali controauguri per la festa della donna. Il succo del messagio era questo: è inutile parlare di emancipazione femminile finché anche gli uomini non impareranno ad emanciparsi dal ruolo di potere e privilegio nel quale si crogiolano da millenni. E' durissima, lo so, ma molti potrebbero scoprire di sentirsi più liberi e felici una volta usciti dagli stereotipi. O forse no?
Infatti, appena pubblicata questa cosa su Twitter, un perfetto sconosciuto, che aveva cominciato a seguirmi qualche giorno fa, si è immediatamente cancellato dai miei follower. E l'entusiasmo collezionato nel tempo di una passeggiata e di un viaggio in autobus è mestamente tramontato.
Auguri, eh!