martedì 8 dicembre 2015

Grovigli

E' l'Immacolata e fare il presepe è praticamente inevitabile, anche se l'umore non è dei migliori e la mia dotazione di speranza gioca da tempo una serrata partita a carte con le preoccupazioni, che, ultimamente, calano carichi pesanti sul tavolo. Comunque sia, ho fissato la base di legno sulla cassapanca, l'albero sull'asse, e posizionato a grandi linee la carta verde-marrone stropicciata e le casette.
Adesso me ne sto, piantata davanti a quello che è, di fatto, un piccolo mondo in costruzione, con in mano un lungo filo di lucine, ovviamente aggrovigliato. Le lucine sono accese, perché non c'è niente di peggio che scoprire che non funzionano una volta finito di districarle, e perché così è un po' più facile distribuirle tra albero e presepe cercando di non lasciare buchi d'ombra troppo estesi.
Le lucine mi brillano tiepide nelle mani, spuntando in ogni direzione dal grosso filo scuro e ritorto. Se le guardo troppo a lungo e chiudo gli occhi, me le ritrovo identiche e persistenti dietro le palpepre.
Questa è la parte del lavoro che detesto di più. Perciò mi fermo sempre un momento a valutare attentamente la faccenda prima di cominciare; perché capite bene che mettersi a imprecare come un camionista mentre si fa il presepe è assai poco raccomandabile...
Quindi prendo un bel respiro, mi accoscio di nuovo di fronte al costruendo paesaggio e mi accingo a districare la matassa. E ogni volta che il filo sfida le leggi della fisica, producendosi in nodi impossibili, o una lucina non ne vuol sapere di starsene buona a illuminare una casetta, ma s'infila sotto una zolla di muschio, o mi ritrovo un lumino blu, anziché giallo o rosso, là dove intendevo piazzare un fuoco per gli sventurati pastori, per non dir parolacce penso.
Penso che sto maneggiando luce. E che quel groviglio di lampadine di cui è difficile trovare un senso, potrebbe essere un modo come un altro di immaginarsi l'anima: punti di bene luminoso che spuntano dopo lunghi tratti di buio-male o buio-sofferenza, strettamente interconnessi gli uni agli altri, incomprensibili e inestricabili; ma è solo con questo intrico che, con infinita pazienza, si può provare ad illuminare quel mondo in miniatura che è la nostra stessa vita.
Buone feste!

martedì 27 ottobre 2015

Nani, giganti e... farfalle

Avete mai provato la sensazione, di fronte ad un testo o a un'opera d'arte, di essere presi e trafitti con uno spillo come le proverbiali farfalle da collezione?
Non saprei come altro spiegare la sensazione di stupore quasi doloroso che ho provato leggendo questo pezzo di Calvino, che parla delle opere di Melotti (e non solo di quelle, evidentemente...).
E il titolo di una delle opere dell'artista a cui lo scrittore si riferiva - cercata sul web per curiosità - mi ha definitivamente inchiodato.
Questo sanno fare i grandi.
Questo non saprò mai fare io; ma grazie a loro sopravvivere è un po' meno faticoso.
E mi basta. Spero.

Saluti latitanti, ma, credetemi, è meglio così!

mercoledì 24 giugno 2015

Scatoloni

22. Sempre stata una frana con i numeri: li dimentico, li inverto, non so maneggiarli se non scrivendoli o aiutandomi con le dita come e peggio dei bambini. Però con il 22 ho un paio di conti in sospeso.
22 sono gli anni che avevo nel 2000 e, per una curiosa coincidenza - se così vogliamo chiamarla - 22 erano gli anni che, da piccola, avevo appioppato, chissà perché, al mio migliore amico immaginario, il quale a quell'età, secondo la mia fervida fantasia, era già laureato, lavorava in un museo e, occasionalmente, insegnava pure: beata innocenza!
22, infine, sono le estati passate in campagna nella casa gialla di cui anche qui più volte vi ho parlato.
E 22 resteranno, visto che ora sul cancello compare la scritta "vendesi", bianca su sfondo rosso, come neve sulla carne viva dei miei più cari ricordi.
Molte persone sono già venute a vederla: vicini di casa in processione con tutta la famiglia, parmigiani in fuga dalla città per la gioia del loro cane, persino un'aspirante artista in cerca di uno studio suggestivo, il quale, ovviamente, ha puntato subito il balconcino di sassi d'angolo, con la sua scala sbilenca e l'edera, che fa tanto Romeo & Giulietta.
Grazie al cielo, finora, non ne ho incontrato quasi nessuno. Quel che vi ho appena descritto, infatti, proviene dai resoconti di mia madre che, al contrario di me, è brava a raccontare a voce qualunque cosa - da un film alla tormentata telefonata con qualche amica in cerca di consigli - con una precisione e una vividezza davvero notevoli.
Grazie al cielo, dicevo, perché davvero non avrei saputo come comportarmi.
Buonsenso vorrebbe che io accompagnassi in giro per le stanze i potenziali acquirenti a mo' di guida turistica, magnificandone con un sorriso a 30 denti (+ un ponte!) le caratteristiche, utilizzando il pacchetto standard di aggettivi che ci si aspetta in queste occasioni: ampio, abitabile, accogliente, funzionale. E forse ci riuscirei anche (ci sono quasi riuscita una volta); ma quel che vorrei davvero dire a chi abiterà la mia casa dopo di me - perché è giusto che le case siano abitate - sarebbe qualcosa del tipo: guardatevi intorno e pensate quel che volete di queste quattro mura, ma sappiate che qui dentro ci sono 22 estati della mia vita più qualche rara ma memorabile giornata d'inverno; che avevo 14 anni la prima volta che ho messo piede in questo cortile, e ricordo ancora la canzone che suonava nel mio walkman, perché diceva "E i giardini con le rose come sognavamo noi": la presi come una profezia, alla quale mi sono aggrappata per 22 anni. Poi basta.
Vorrei dire che tra questi tavoli e queste poltrone sono passata dai compiti per le vacanze agli esami d'università; che, per quanto vi parrà incredibile, sono persino riuscita a incastrare un computer con lo schermo enorme e una stampante in quel loculo colorato che ho chiamato per 22 anni la mia camera, e ci ho scritto alcuni capitoli della mia tesi; che oltre le creste magnificamente incastrate di questa valle ho visto, letteralmente, sorgere l'alba del nuovo millennio in compagnia di un manipolo di amici che ora si sono dispersi, ma non per questo mi sono meno cari. Ed ero qui anche l'anno dopo, mentre crollavano le Torri Gemelle. E, anche se immagino non vi importi, è in questo cortile che ho parcheggiato per la prima volta la mia prima automobile. Pioveva, ovviamente, ma non ha importanza: non avete idea di quanto si delizioso il rumore della pioggia sui coppi; e quanto sia bella la luna che ti entra in camera dall'alto nelle notti serene.
Ci ho festeggiato anche un paio di compleanni quassù, in primvera, con i residui di una nevicata tardiva aggrappati ai versanti in ombra; e, in autunno, ho imparato a mie spese (e a quelle dei miei sventurati ospiti) che le caldarroste stentano a cuocere sul barbecue.
Nella terrazza oltre il portico ho passato innumerevoli 10 d'agosto a farmi venire il torcicollo contando stelle cadenti, storpiando i versi del Pascoli ed esprimendo desideri irrealizzabili.
E ho cantato tanto, sia assieme alle amiche dotate di chitarra (benedette loro!) sia in solitaria, con o senza lo stereo di sottofondo, facendo le pulizie, asciugandomi i capelli al sole - la sedia precariamente piantata nel ghiaino e una vecchia copia di Topolino aperta sulle ginocchia. Il fatto che tra i vicini di casa io per anni abbia avuto un cantante d'opera e due insegnanti di conservatorio non bastava a scoraggiarmi. Ora non canto quasi più nemmeno sotto la doccia.
Ci ho preso il sole e la grandine. Ho acceso il camino e la stufa anche in pieno agosto - termosifoni nemmeno a parlarne nella casetta delle vacanze - imparando a riconoscere addosso a me e agli altri l'esatto odore che lascia un buon fuoco di legna sugli abiti (biancheria compresa) e sui capelli.
E' grazie a questa casa che so esattamente che sapore hanno i pomodori mangiati appena colti, ancora tiepidi di sole e che ho imparato a impastellare e friggere larghe foglie di salvia e fiori di zucchina.
Ok, è grazie (o a causa) a questa casa che ho scoperto che le mamme scorpione trasportano sul dorso i loro figlioletti appena nati: una visione tenera e raccapricciante insieme, difficile da dimenticare; e ho scoperto quando possono diventare grossi e corpulenti i ragnacci di cantina; ma mi è anche capitato di ritrovarmi un pavone in cortile, che ci guardava assiso su un mucchio di ghiaia con aria supponente. Un'altra volta è toccato a un coniglio color nocciola comparire all'improvviso, sgranocchiare con discrezione un paio di foglie di lattuga e poi andarsene senza ringraziare, per non dire delle innumerevoli generazioni di gatti più o meno domestici, semistanziali o di passaggio, tra cui l'indimenticabile Milk: un incrocio di siamese biondo dagli occhi blu, bello come un divo del cinema e altrettanto espressivo e capriccioso.
Da qui sono partita le poche volte che gli amici sono riusciti a trascinarmi in discoteca; da qui sono partita per un paio di epici concerti, da uno dei quali sono tornata alle sei di mattina...
In questa casa ho avuto il permesso di dipingere su muri, cuscini e copricamini e ho passato ore a disegnare, a leggere e ad annoiarmi; ma anche a cimentarmi in ogni sorta di lavoro faticoso e sporchevole. E ancora non ho finito: ora è tempo di guardarsi attorno, svuotare cassetti e riempire scatoloni. Decidere cosa salvare e cosa abbandonare ad un incerto destino.
E contando che quasi tutto quello che c'è in questa casa è arrivato qui da altre case e da altri traslochi (le precedenti abitazioni che affittavamo in campagna, gli appartamenti dei nonni e delle prozie svuotati dopo la loro dipartita), quasi ogni pezzo - già scampato ad altre dolorose selezioni - è già di per sè un distillato di storie e di ricordi: i quadri di mamma e dello zio, la credenza e il tavolo della nonna, le ciotoline acquistate dai miei da giovani, i miei quaderni delle elementari e persino la ricevuta del pagamento della quota d'iscrizione alla prima settimana teologica di Camaldoli del 2003, spuntata a sorpresa da un album da disegno.
Questo e molto altro ci sarebbe da raccontare a chi si prenderà la mia casa. Perché ogni casa è un mondo, e nessun mondo può essere descritto da un rogito e da una manciata di planimetrie, nè tantomeno essere rinchiuso in una decina di scatoloni sigillati con un groppo in gola.
Per fortuna ho ancora sufficiente buonsenso per non dire tutte queste cose ai potenziali acquirenti; ma, evidentemente, non non ne ho abbastanza per evitare di scriverne qui.
Forse perché le parole, dopotutto, sono molto più capienti degli scatoloni.

mercoledì 27 maggio 2015

Le lampade dello scrittore

Con i suoi tavoli massicci e le larghe sedie in legno chiaro, il perlinato a mezza parete, le vecchie stampe e gli specchi dietro il bancone deserto, il vecchio bar ha un'aria indecisa tra la birreria tedesca, l'osteria emiliana e il circolo di paese. E' chiuso solo dallo scorso autunno, ma, non fosse per il calendario del 2014 alla parete e la foto di Papa Francesco, potrebbe essere benissimo un cimelio degli anni '50-'60 nel quale io e il mio capo entriamo con circospezione, seguendo un nostro cliente, che ha acquisito la licenza per riaprirlo a breve, e un altro signore che non ho ben capito che ci stia a fare: un architetto? un giornalista? un esperto di storia locale? Comunque sia si guarda attorno con aria degna di un Vittorio Sgarbi particolarmente maldisposto, additando muri da ridipingere e discutendo del potenziale colore di cuscini e tovaglie; ma il suo palese disgusto, che trova concordi anche gli altri due uomini, riguarda soprattutto le lampade che pendono dalle travi del salone principale ai lati di un grosso mastello di legno appeso proprio al centro.
Evito di dirlo ad alta voce, però quelle lampade sono la prima cosa che ho notato entrando e a me piacciono molto. Sono un po' grevi e non c'entrano nulla con il resto dell'arredo, d'accordo, ma sono clamorosamente liberty e sia il vaso in ceramica sia i tiranti in metallo sono uno diverso dall'altro, decorati a fiori e frutti su un fondo che varia dal verde salvia al petrolio.
Capitemi, fanno troppo D'Annunzio e Gozzano per non piacermi: sembrano uscite dal salotto di nonna Speranza, nate per illuminare pappagalli impagliati e campane di vetro.
 Non so dire se siano davvero un cimelio della Belle Epoque o siano stati rifatti in stile chissà quando da qualche artigiano per assecondare i gusti di qualcuno dei precedenti gestori o forse, addirittura, del primo proprietario, che era un famoso scrittore il quale tentò, con scarsa fortuna, di mettersi a fare anche l'oste in un paese perso nelle bassure del Parmense, a pochi chilometri da dove era nato.
Le mura del bar sono ancora dei figli, custodi gelosi della memoria del padre, tanto che l'oste teme possano mettergli i bastoni tra le ruote nel caso voglia fare cambiamenti radicali: spera di attirare i giovani eliminando un po' di vecchiume. Da una parte glielo auguro, e me lo auguro: dato che, essendo un nostro cliente, se gli affari gli vanno bene è prevedibile avrà più bisogno di noi; dall'altra, non posso non pensare che l'unica cosa che può attirare qualcuno in questo piccolo baretto perduto è proprio il fascino della memoria: non quella immobile dei cimeli che prendono polvere o dei monumenti, ma quella dei luoghi che, per chissà quale miracolo, si conservano appena in disparte dallo scorrere del tempo.
Questo posto è bellissimo proprio perché inattuale: è un'osteria da briscole e vino nero in quartini di vetro spesso, o addirittura in scodelle, non da spritz ed happy hour; e piacerà, credo, solo a chi saprà capirlo.
E non basterà aggiungere tovaglie e cuscini e mettere asettici neon al posto delle infelici lampade liberty per ridargli vita. Perché il suo spirito risplende anche in quelle lampade.
E se anche nessuno dopo di noi, che per caso abbiamo fatto in tempo a vederle, saprà che c'erano, ne sentirà, in qualche modo, la mancanza.
Mentre continuiamo a esplorare le stanze facendo progetti per il futuro, un uccellino entrato dal tubo della stufa ci svolazza disperato sulla testa per poi abbattersi per l'ennesima volta sulle grandi vetrate in cerca di una via di fuga. Quando finisce a zampe all'aria su una panca, poco lontano da un suo compagno già stecchito, l'oste lo acchiappa e lo libera in cortile: chissà se sopravvivrà alla brutta esperienza.
Esco anch'io in cortile, calpestando lastroni di cemento sconnessi tra i quali cresce un'erba umida e grassa di primavera. Faccio il giro della casa in cerca delle rose che s'affacciavano prepotenti dalle finestre dentro il locale in penombra. Le trovo a far compagnia a una siepe fiorita di ligustro: insieme fanno l'aria dolcissima. E penso che l'anima di questo luogo somiglia un poco a quell'uccellino confuso, fragile e ferito: c'è il rischio concreto che muoia e a nessuno pare che importi; ma io l'ho vista e non la potrò dimenticare: è fatta di nebbia e uomini intabarrati dai lunghi baffi neri che imprecano forte in dialetto, di preti dalle grosse scarpe infangate e sindaci con il fazzoletto rosso; ma, soprattutto, è fatta di parole: quelle con cui lo scrittore famoso ha descritto questi luoghi e che da questi luoghi vengono e ritornano e trovano casa, se c'è qualcuno disposto ad ascoltarle.
Comunque sia, una di quelle strane lampade io me la sarei portata volentieri a casa, così, giusto per salvarla dall'imminente naufragio. Le avrei trovato un angolino tra un mobile Ikea e uno ereditato dalle prozie, tra un vaso del Mercatone e una sedia imbottita della nonna: non sarebbe stata l'unica cosa incongrua e spaiata nel mio economico arredamento per metà fai da te e per metà di recupero; e, forse, non ci sarebbe stata neppure male, il che, come direbbe il suo probabile primo proprietario "è bello e istruttivo".
Saluti vintage!

mercoledì 13 maggio 2015

Fare storie

"We're all stories in the end. Just make it a good one!"
(Doctor Who)
“Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”
(A. Baricco, Novecento)

Non amo particolarmente Baricco, ma Novecento è uno di quei libri che ogni tanto riprendo in mano e del quale, ogni tanto, assicurandomi d'esser sola in casa, mi concedo di leggere brani ad alta voce.
Ho scoperto di amare molto il Dottor Who: folle alieno millenario che viaggia nello spazio e nel tempo a bordo di un'astronave che, come un essere umano, è assai più grande all'interno. Il Dottore ha due cuori, è armato di un cacciavite col quale non uccide, ma apre porte vere e immaginarie ed è solito affermare che, nei suoi duemila anni di vita e milioni di incontri, non ha mai conosciuto nessuno che non fosse importante...
Amo le storie, ovviamente; ma questo già lo sapevate.
Riflettevo ieri notte, mentre mi aggiravo goffamente per il bagno preparandomi per andare finalmente a dormire, che ci sono due espressioni contenenti la parola "storie" che usiamo in contesti apparentemente diversissimi, ma che, a guardar bene, hanno qualcosa in comune.
Pronti per l'ennesimo delirio? Allora, via!
"Non fare storie!"
Si dice ai bambini che fanno i capricci e accampano scuse per non fare, o almeno rimandare, qualcosa di sgradito. Temo mi sia stato detto molte volte in passato, ma l'accusa mi calzerebbe a pennello anche adesso, perché è esattamente ciò che sto facendo ora...
Sarebbe un rimprovero, certo, ma, in fin dei conti riconosce ai bambini la capacità (e il diritto!), di costruirsi a suon di bugie più o meno creative, una realtà alternativa migliore di quella in cui stanno imparando faticosamente a vivere e in cui ci sono regole che, benché siano necessarie per rapportarsi agli altri in modo corretto e per crescere bene, sono sentite in qualche modo come limitanti e coercitive. E ubbidire va bene, è giusto, ma vediamo almeno di opporre un minimo di resistenza: quel tanto che basta per mantenere intatta la nostra combattiva dignità di esseri umani, piccoli finché si vuole, ma oscuramente consapevoli fin dall'inizio della nostra unicità.
Inutile dire che ero piuttosto brava ad accampare storie, soprattutto quando si trattava di andare a mangiare (ora il problema non si pone più, purtroppo...) o a dormire (in questo caso, invece, il problema persiste), e che ho dato del filo da torcere ai miei genitori e me ne dispiace.
"Ho una storia con...".
A differenza della precedente, questa frase non mi ha mai riguardato di persona, ma mi piace molto, perché credo che chi la usa senta, in qualche modo, che il suo legame con una persona ha raggiunto un livello ben diverso da "Esco/mi vedo con..." o altre espressioni del genere assai più prosaiche.
Avere una storia implica l'intenzione di raccontarsi l'un l'altro il passato e percorrere assieme il presente per costruire momenti degni di essere ricordati in futuro.
E se è vero che le storie finiscono, chiunque abbia una certa dimestichezza con i libri, sa che anche dopo la parola "fine", dopo averli riposti - con sollievo o con rammarico - su un ripiano più o meno remoto della libreria, non saremo mai più le stesse persone che eravamo prima di leggerli.
Perché la "storia" va al di là del piano fisico ed anche di quello mentale (o sentimentale?) e diventa - perdonate l'azzardo - qualcosa di esistenziale: noi siamo il nostro stesso libro sul quale scriviamo, ma altre persone hanno il diritto di aggiungerne capitoli più o meno lunghi; che questi siano scritti a matita o con l'inchiostro indelebile non importa, perché da qualche parte c'è qualcuno che sa decifrare anche i più intricati palinsesti...
Noi siamo storie, dunque: innocenti, creative e imprevedibili come le bugie dei bambini; profonde e struggenti come i racconti degli amanti; violente, dolorose, intricate e incomprensibili come "la storia", materia temibile che, in teoria, si dovrebbe imparare a scuola e servire per farci un'idea un po' più chiara del mondo in cui siamo capitati.
Già, la Storia, quella che andrebbe scritta con la s maiuscola per distinguerla dalle nostre singole storie, ma che di esse, di fatto è formata, come sapeva bene la Morante quando diede al suo romanzo più celebre un titolo talmente banale da essere vero e, dunque, indimenticabile.
Storie, come quelle che cerco di scrivere per lavoro tentando di rendere interessante un prodotto, spiegare l'uso di uno strumento scientifico o invogliare a leggere il resoconto di un convegno, invitare a partecipare a un evento, a visitare una mostra o ad andare a mangiare proprio in quel ristorante sperso in un remoto paesino di campagna.
Storie, come quelle che tento di imbastire da sei anni quassù parlando fin troppo di me, ma sapendo che c'è dietro tutto questo c'è un noi.
Chi scrive spera sempre che qualcuno legga.  Non è questione di mancanza di pudore o modestia, ma una semplice necessità.
Chi sa di essere una storia, infondo, spera la stessa cosa.
Grazie, allora, a chiunque c'è già entrato e a chi vorrà far parte dei prossimi capitoli!

giovedì 2 aprile 2015

Lassù

Salgo al volo sull'autobus ed evito per un pelo di sedermi su un aeroplano.
Ok. Non sono impazzita. Non del tutto, almeno.
L'eroplano era, ovviamente, un giocattolo di proprietà di un bimbetto bellissimo che, dopo avermi fulminato con un'occhiata, mi ha puntato addosso un ditino perentorio affermando che no, accanto a lui non potevo sedermi, però, se proprio volevo, c'era un posto libero di fronte, vicino a sua madre, lei pure giovane e bella.
Ho obbedito senza fiatare, sorridendo ad entrambi, e già sapevo che qualcosa sarebbe accaduto.
Gli antichi davano un valore sacrale agli incontri fatti per strada. E io li ho studiati abbastanza a lungo da sapere che, spesso, avevano ragione.
Quando il lungo e nuovissimo filobus doppio ha scavalcato il ponte di Mezzo, infilandosi per via D'Azeglio, infatti, il bambino, con lo stesso ditino appiccicato al vetro ha indicato un grosso edificio in mattoni pieno di archi e spigoli e ha chiesto: "Chi ci abita lassù?"
Io e sua madre ci siamo girate entrambe e abbiamo visto che stavamo passando accanto alla chiesa dell'Annunziata.
E' successo qualche giorno fa, e, come sapete, la mia memoria è alquanto inaffidabile, ma vi garantisco che il bambino ha detto proprio "lassù".
"Beh, ci abita un signore" ha tentato la madre, "anzi, Il Signore" ha proseguito, voltandosi verso di me con un'occhiata complice.
"E abita tutto da solo in una casa così grande?" ha replicato, implacabile, il bambino.
"Sì e no" ha risposto, ineccepibile, la madre: "ci sono tante persone che lo vanno a trovare..."
"Anche le femmine?" ha chiesto il bambino.
Ho rivolto alla madre uno sguardo talmente stupito che lei s'è sentita in dovere di spiegare a me, perfetta sconosciuta, che: "Sai com'è: abbiamo abitato per un anno in Iran", spalancandomi così, con una sola frase, un'insapettata finestra sulle loro vite (perché sono andati laggiù? lavoro? coppia mista? dei parenti?) e, in generale, sulle "vite degli altri": infatti, se un bambino così piccolo ha assimilato e ricorda con vividezza le differenze tra maschi e femmine in vigore in alcuni Paesi, significa che queste sono decisamente palesi e radicate e che, al di là di ogni giudizio - o pregiudizio - dobbiamo tenerne conto.
In generale, io non so dare l'età alle persone, e ancor meno ci riesco con i bambini; ma so per certo che quello che mi sedeva di fronte era in età prescolare, ma era entrato con entrambi i piedi nella temibile fase dei "perché". Quindi, assimilata con un minimo di perplessità l'idea che anche le bambine potessero entrare in chiesa, ci ha rovesciato addosso un'altra perla inaspettata: "E, quel signore, possono andare a trovarlo solo le persone buone?"
Altro sguardo complice tra me e la madre, che ha risposto, convinta: "No, in realtà, proprio tutti possono entrare: anche le persone cattive, anzi, soprattutto loro!"
"Perché?"
"Beh, perché, così, magari, diventano un po' meno cattive..."
E fu così che un bambino, dotato di quella curiosità quasi preveggente che solo i piccoli e i folli possiedono, e sua madre, provenienti da chissà dove, con chissà quale credo e quale storia alle spalle, nel giro di poche fermate mi hanno regalato una perfetta lezione di teologia.
Non dovrei dirlo, lo so, ma è per momenti come questi che, nonostante dubbi, delusioni, paure, e un'ormai cronica, e davvero poco cristiana, mancanza di speranza, mi ostino a credere ancora.
Mi auguro sia sufficiente.
E, già che ci siamo, Buona Pasqua a tutti!

martedì 10 febbraio 2015

Eredità

"Buttare i libri di chi muore in qualche modo è cancellare tutti i sentieri che quella persona ha percorso. A Bari è successo. Buttati nei cassonetti, ma molte persone hanno iniziato a rovistare per prenderne qualcuno. Per donare a quelle parole nuova vita. 
Immagine malinconica ma al contempo vitale, perché i libri sono preziosi e vanno salvati dalla monnezza. Perché i libri non si buttano. Si regalano, si donano, si vendono... a pensarci bene, se un giorno dovessero buttar via la mia personale biblioteca, significherà aver buttato via tutto ciò che sono stato." (Roberto Saviano)

L'ho voluto in casa mia il cofanetto di legno scuro con i pochi libri ereditati dalle prozie. Alcuni sono dei mattonazzi di autori ormai dimenticati editi negli anni Trenta; altri hanno nei risvolti di copertina le note critiche scritte di pugno dal prozio Luigi (vizio del gioco, ma penna ineccepibile...) o dal nonno: mi basta passare un dito sull'inchiostro sbiadito della loro scrittura elegante per commuovermi fino alle lacrime.
Tempo fa l'ho salvata anch'io la biblioteca di un morto - buona parte, almeno - mentre altri, giustamente, si preoccupavano dei mobili d'epoca e dei gioielli: c'erano cataloghi di mostre e musei, guide di luoghi del mondo dove non metterò mai piede, classici assortiti, qualcosa di Biagi, l'antologia di Spoon River (profetica…), parecchia roba della Allende. Ed è stata un'esperienza intima e devastante come poche altre nella mia vita.
E non importa il fatto che, probabilmente, non avrò il tempo né la volontà di leggere tutti i libri che ho ereditato. Non so nemmeno se riuscirò a leggere quelli che ho comprato io stessa e riposto senza aprirli sullo scaffale in attesa di tempi migliori che difficilmente arriveranno.
Importa il fatto che il primo mobile della mia casa a cui ho pensato sia stata la libreria. E che, pur non essendo, ovviamente, come me l'ero immaginata, dopo un anno sia già quasi piena.
Non è snobismo, per carità! La libreria non è uno status symbol; ma è esattamente quel che dice sopra Saviano: è la vita, il suo senso, i suoi desideri e i suoi sogni messi in fila pazienti in attesa di non si sa cosa sugli scaffali dei giorni. 
E' la migliore metafora con cui posso raccontare ciò che sono: un'accozzaglia di generi e stili messi a caso e spolverati raramente. Scuola, svago, lavoro, educazione al sentimento e all'immaginazione, evasione, droga leggera e antidoto alla mancanza d'amore. C'è molto in quegli scaffali. Non tutto, ovvio, solo quanto basta per raccontare l'ennesima storia che non interessa a nessuno.
E sapete che c'è? Che anch'io, come Saviano (quasi coetanei, e diversissimi), mi sono posta il problema di che fine faranno i miei libri dopo di me. 
I libri. Non l'auto, non la casa, non i pochi soldi e la bigiotteria maleassortita. I libri. E i quadri. E - se vogliamo dirla tutta - anche queste boiate che scrivo qui e altrove. 
Perché sono la cosa migliore di me e vorrei che potessero piacere e servire a qualcuno.
Vorrei solo che non andassero persi. Perché di persa ci sono già io.
E basta e avanza.

giovedì 29 gennaio 2015

Opinioni di un clown

Più di una persona mi ha detto che, quando le piglia il malumore, va a leggersi quel che scrivo su Facebook per tirarsi su. La cosa, ovviamente, un po' mi stupisce, un po' mi lusinga, un po' mi impegna a continuare a fissare per iscritto le cose buffe e/o strane che mi capitano e condividerle con gli altri, perché, diamine, se questo serve per far sorridere qualcuno anche solo per un attimo a me pare sia incredibilmente bello…
A pensarci, anche in tempi pre-telematici, mi sono sempre divertita a mettere su carta il lato buffo degli avvenimenti: dai resoconti improbabili delle gite al diario che ho tenuto per anni d'estate in campagna. Per un tacito accordo preso con me stessa, le mie mestizie raramente sono finite tra le pagine di quei vecchi quaderni di scuola attaccati l'uno all'altro con lo scotch. Così, poiché ho una pessima memoria, rileggendoli pare che le mie estati dai 14 ai 30 anni siano state particolarmente felici e avventurose, perché anche accalcarsi in sei su una Fiat Uno per andare a pattinare o portare la pioggia ogni santa volta che si tentava di andare in piscina, prese per il verso giusto, possono trasformarsi in avventure...
Su quel diario non scrivo più dal 2008. E non è un caso. Pochi giorni fa l'ho portato via dalla casa ormai in disuso e l'ho ficcato tra i topolini e i fumetti della mia libreria: un gesto talmente definitivo da farmi ancora male.
Dal 2009 ho cominciato a sproloquiare qua dentro. In questo caso, il tono è stato assai più altalenante e ai tentativi (non so quanto riusciti) d'esser divertente o, perlomeno, piacevole, s'è alternata l'espressione del mio più sincero malumore; ma pur sempre intrappolato entro gli schemi - per me decisamente salvifici - delle convenzioni proprie della scrittura, che impongono di essere in grado di dare un'ordine razionale persino ai pensieri più malinconici e contorti: altrimenti si rischia l'incomprensibilità. Ora faccio fatica a scrivere anche qui. E non è un caso.
Nel 2008 mia madre si fece un mese d'ospedale, durante il quale la malattia progressiva che la assilla da trent'anni ha fatto passi da gigante, sbattendomi in faccia chiaramente quale sarebbe stato il mio futuro di figlia unica e single. Ora lo stesso concetto, che ho provato per anni ad ignorare, m'è stato ribadito con, se possibile, maggior chiarezza dal mese d'ospedale che s'è fatto mio padre prima di Natale. E, ogni volta, è più difficile uscirne, e ci vuole più tempo a tirarsi su per i capelli e convincersi, in qualche modo, che la tua vita stia andando da qualche altra parte che non sia solo a ramengo.
E anche la scrittura, che per me è sempre stata un'ancora di salvezza, una terapia al mio senso d'inutilità e d'impotenza, diventa ogni volta un po' più difficile.
Dal 2013 sproloquio anche su Facebook. Mi sono iscritta, volutamente, in giorno assurdo: quello in cui persino il Papa ha deciso che "grazie, scusate, ma per me può bastare così: avanti un altro!".
E, ancora una volta, su uno strumento in qualche modo più facile e immediato, mi è venuto naturale percorrere, per quanto possibile, la strada dell'ironia: sempre meglio far ridere che far piangere, dopotutto. Meglio questo del niente, finché mi riuscirà. Finché la vita non mi elargirà un'altra mazzata sufficientemente grossa da togliermi anche le forze di scrivere le tre righe di uno status, visto che le 30-40 righe di un post già mi riescono peggio del solito.
Ma pazienza. E benedetta sia ogni volta che riesco a indossare sopra il mio - già sufficientemente buffo e grosso - il naso rosso da clown e regalare a qualcuno (e anche un po' a me stessa) un momento di serenità: è l'unica preghiera che ancora riesco a fare.
Soltanto che è vero quello che si dice dei clown. E darei non so cosa per non esserlo.