mercoledì 31 ottobre 2012

Pensiero d'autunno

Fammi uguale, Signore, a quelle foglie
moribonde che vedo oggi nel sole
tremar dell’olmo sul più alto ramo.
Tremano, sì, ma non di pena: è tanto
limpido il sole, e dolce il distaccarsi
dal ramo per congiungersi alla terra.
S’accendono alla luce ultima cuori
pronti all’offerta; e l’agonia, per esse,
ha la clemenza di una mite aurora.
Fa’ ch’io mi stacchi dal più alto ramo
di mia vita, così, senza lamento,
penetrata di Te come del sole.”
(Ada Negri)
Ecco la conferma di quello che scrive la Cri nell'ultimo post.. nelle parole di uno sconosciuto ritoviamo qualcosa che ci appartiene, un'immagine che dà forma a un sentimento che non sapevamo come descrivere... Questi bellissimi versi della poetessa Ada Negri, da me scoperti per caso (ma non proprio..) su un giornaletto, colgono in pieno ciò che sento in questa notte di mezzo autunno e danno forma a qualcosa di malinconico e caotico che mi frastorna ormai da mesi... Li dedico alla mia madrina che in questa notte ha raggiunto la sua mamma...

lunedì 22 ottobre 2012

Ritorni di fiamma. Parte seconda: il poeta

"Gli spettri delle cose sono più terribili degli spettri delle persone"
(Guido Gozzano, Torino d'altri tempi)

Alle superiori avevo un'amica che sul diario alternava il nome di Roberto Baggio con quello di un certo "Leo", circondandoli entrambi di cuoricini. Non si trattava di un fidanzatino - quello sarebbe arrivato poco dopo con effetti piuttosto devastanti - bensì dell'affettuoso soprannome da lei affibbiato a Giacomo Leopardi!
Studiandolo ne era rimasta folgorata e ne parlava non come di un personaggio della letteratura, ma come di un amico un po' sfigato ma tanto caro, a cui confidare i suoi tormenti adolescenziali certa d'essere compresa.
A me capitò qualcosa del genere, più o meno negli stessi anni, con un altro poeta, ma poiché ero (e sono tuttora) non so se più pudica o maldestra, evitai di esternare la faccenda in termini così plateali. Lui era (ed è), ovviamente, Guido Gozzano.
Il "colpo di fulmine" scoccò l'ultimo giorno di scuola di quinta ginnasio. Dopo avermi interrogato in storia (sic!), la prof, che l'anno successivo, passando al liceo, non avremmo più avuto, pensò di congedarci leggendoci alcune poesie di un autore relativamente poco conosciuto, che però le piaceva tanto. Credo non ci sia regalo migliore che un insegnante può fare ai suoi alunni che comunicare loro con semplicità e sincerità una sua passione: fa capire che, al di là delle rigidità imposte da programmi, voti e interrogazioni, quel che si impara a scuola può dare anche un po' di gioia e accompagnarti per un tratto più o meno lungo di vita.
Ci lesse "Le golose" e "Cocotte", con il ben noto finale ("Non amo che le rose che non colsi...") che è mi è diventato, purtroppo, molto familiare, e forse qualcos'altro che non ricordo più.
Qualche giorno dopo mi comprai l'edizione completa delle poesie della BUR, dotata di note, commenti e stralci di lettere, la lessi d'un fiato e da allora staziona regolarmente sul mio comodino assieme a un'altra manciata di libri.
Spiegare come e perché nascono gli amori letterari è difficile e forse inutile quasi quanto spiegare la nascita di quelli reali.
L'unica cosa che mi sento di dire è che, credo, possano anche prescindere dal valore dell'opera e abbiano, invece, a che fare con lo stupore di ritrovare nelle parole di uno sconosciuto - vissuto in un altro luogo e in un altro tempo - qualcosa che ci appartiene profondamente: un pensiero che ci ronzava in testa e non sapevamo come formulare, un sentimento che non sapevamo che nome avesse prima di leggerlo in un testo o in una poesia, o anche solo un'immagine o una frase che diventa immediatamente nostra perché in qualche modo ci risulta particolarmente familiare.
Guido (sì, mi diverto anch'io a chiamarlo per nome!) era un ragazzetto sparuto e nasuto, pieno zeppo di contraddizioni: si definiva "avvocato", ma pare che alle aule d'università preferisse i ritrovi fumosi dei goliardi; si scagliava contro D'Annuzio e poi lo citava a piene mani, invidiandolo un po'; faceva il "poeta minore" defilato e disinteressato alla fama, poi, nelle lettere alla Guglielminetti, musa, amante, amica e poetessa lei pure, si dava arie da spirito eletto; non giocava a fare il malato, come altri del suo tempo e come pare a leggere le sue poesie, lo era sul serio: morì a 33 anni non ancora compiuti di tisi; ma questo non gli impedì di viaggiare, frequentare il bel mondo e beh, di non lasciarsi scappare attrici, letterate e "fan" più o meno occasionali.
A dirla in questi termini, un personaggio del genere dovrebbe starmi antipatico, eppure così non è: forse anche con gli amori letterari capita che ci affascinino le persone sbagliate?
Comunque sia, recentemente mi sono capitate tra le mani le sue prose: alcuni racconti recuperati in internet e gli scritti dall'India raccolti in "Verso la cuna del mondo" (le favole e le lettere d'amore le avevo già lette anni fa).
Ho ritrovato anche in quelle il giovane ironico, amaro, disincantato, ma desideroso di lasciarsi incantare, perfettamente immerso nei suoi tempi (pregiudizi compresi), ma desideroso di sfuggirne in un passato bello solo perché non vissuto, che un po' mi irrita ma mi fa anche tanta tenerezza.
Ho ritrovato immagini e situazioni a lui evidentemente care che trasporta - autocitandosi - dalla prosa ai versi; mi sono bevuta con immenso piacere descrizioni di paesaggi di una musicalità incantevole, ho riso di cuore alle sue osservazioni pettegole e allusive e ho scoperto anche qualche altra consonanza tra me e lui, cosa che mi ha fatto, ovviamente, un gran piacere.
Sì, perché, gli amori letterari, frutto solitamente, ma non esclusivamente, per fortuna, dell'adolescenza (chissà se ne nascono ancora?), non sono soltanto autori che ci piacciono o ci dicono qualcosa di noi e ci aiutano a decifrare il mondo, diventano proprio persone che ci pare di conoscere da sempre e con cui vorremmo poter conversare a lungo, nel mio caso, magari, tra il ciarpame del solaio di una villa nobiliare in disarmo, sperando di fare una figura migliore di quell'oca di Felicita e temendo, ovviamente, di fare di peggio, ma immersi per lo meno in quella "perplessità crepuscolare" che entrambi, credo, sappiamo bene cos'è...

venerdì 12 ottobre 2012

Ritorni di fiamma. Prima parte: il film

«Con rischi indicibili e traversie innumerevoli io ho superato la strada per questo castello oltre la città dei Goblin, per riprendere il bambino che tu hai rapito. La mia volontà è forte come la tua e il mio regno altrettanto grande. Non hai alcun potere su di me!»

YouTube a volte è un diavolo tentatore, un buon diavolo, che fa riemergere ricordi e passioni perdute: basta incappare in uno spezzone ed ecco che ti ritrovi a otto anni a dondolarti sulla sedia della cucina di un compagno di classe con il papà sufficientemente ricco da permettersi uno dei primi videoregistratori (ogni cassetta costava, allora, 80.000 lire!) e guardare un film e restarne assolutamente incantata come capita solo ai bambini (forse).
Il film era Labyrinth: una meraviglia tecnologica dei tempi pre-computer grafica, anche se il barbagianni dei titoli di testa (a proposito, fan di Harry Potter, non vi ricorda qualcosa?) era uno dei primi esperimenti in quel senso. I pupazzi erano mossi in parte da attori, in parte da meccanismi meccanici e le sfere di cristallo maneggiate da un abilissimo giocoliere: ora fanno un po' sorridere, ma all'epoca (1986, di poco successivo a un'altra meraviglia: La storia infinita, che è del 1984) era una cosa strabiliante.
La storia è piuttosto semplice: una ragazzina parecchio sognatrice e appassionata di favole, costretta a fare la baby sitter al fratellastro urlante, invoca il re degli gnomi perché se lo porti via e lui, disgraziatamente, risponde. Così la ragazzina dovrà andarsi a riprendere il bambino attraversando il labirinto prima che il piccolo venga trasformato in un goblin. Nel labirinto, ovviamente, le accade di ogni: incontra fate mordaci, batacchi delle porte che parlano, vecchi gnomi che indossano un cappello parlante e petulante (il "Coprisaggio") e persino un pozzo fatto di mani, pure queste parlanti, e una specie di scoiattolo-cavaliere peloso che cavalca un cane altrettanto peloso e usa uno strepitoso linguaggio aulico e medievaleggiante (Sir Didymus)...
Jareth, il re degli gnomi, pensate un po', è David Bowie, ma all'epoca io ascoltavo ancora le canzoni dello Zecchino d'oro e non avevo idea di chi fosse, ma ricordo che anche la colonna sonora mi aveva colpito parecchio. La ragazzina, Sarah, invece, è una giovanissima Jennifer Connely e il regista è il creatore dei Muppets, e questo spiega molte cose.
Sarei curiosa di farlo guardare a qualche pargolo di oggi, per vedere l'effetto che fa. A me ha spalancato mondi e mi ha dato lo spunto per infiniti giochi ("facciamo che io ero...") per questo lo ricordo ancora con estremo affetto, quasi fosse un amico d'infanzia, quasi come l'amico d'infanzia che me l'ha fatto scoprire e che ora è sposato ha due bambini e fa l'allenatore di basket...

Ve ne lascio una scena molto intrigante, ispirata alle scale di Escher. Sul famigerato YouTube di cui sopra trovate anche un po' di backstage.

E comunque... "Niuno vuol misurarsi con me a Scarabeo?!"
Saluti fantasy!

Aggiornamenti (lunedì 15/10): è finita come doveva finire! Mi sono riguardata tutto il film, scoprendo che mi piace ancora un sacco e che mi ricordavo ancora molte battute, godendomi i particolari che avevo dimenticato (come la pianticina con gli occhietti...) e di cui il film e zeppo; e notando che, tuttosommato, la storia ha anche un risvolto femminista: Sarah non accetta la proposta di Jareth, che le offre di esaudire tutti i suoi desideri a patto che lei si lasci dominare da lui. Alla faccia delle "50 sfumature" che ora vanno tanto di moda! Ma non per questo rinuncia ai suoi sogni, che continueranno a farle compagnia anche nel modo reale.
Come la capisco!

mercoledì 3 ottobre 2012

Lettera di protesta

Cara Pianura Padana,
lo so che non dev'essere facile starsene lì, larga, piatta, monotona e nebbiosa a farsi prendere in giro da millenni dalle spettacolari vette alpine, dalle ridenti coste liguri e dalle morbide colline toscane; lo so che sei la patria del liscio e, forse, a forza di sentirtelo ballare sulla testa t'è venuta voglia di provare.
Però ti sarei infinitamente grata se la piantassi di sobbalzare e te ne stessi un po' fermina.
Per favore!

martedì 2 ottobre 2012

Carta, penna e calamaio (in Word)

Sabato pomeriggio al laboratorio compiti una volontaria diciassettenne, seduta di fronte a me, parlando con il bambino che ha di fianco esclama: "Chiediamo a lei che è più vecchia". Scopro che "lei" sono io e che il bambino, per compito, dovrebbe chiedere a una persona anziana come si scriveva ai suoi tempi.
Poiché di anziani veri in giro non ce ne sono hanno provato a inventare, ma si sono resi conto di non avere la più pallida idea di come funzionino penna e calamaio. Rispondo piccata che, benché abbia effettivamente molti più anni di loro, anch'io ho imparato a scrivere con la biro. Provo lo stesso a spiegare, dato che una penna vecchio stile ce l'ho, comprata anni fa a un mercatino e usata due volte. Quando si tratta di rispondere alla domanda "Come si faceva a cancellare gli errori?", però, vacillo. I due se ne vanno delusi a chiedere a un altro volontario, più grande di me ma non ancora quarantenne.
E io comincio a pensare che, in un futuro non troppo lontano, a qualche ministro dell'istruzione, dopo aver sostituito tutti i libri cartacei con dispense telematiche (come sta accadendo), verrà l'idea di insegnare ai bambini a scrivere direttamente a computer, senza passare per carta, biro cancellabile e pregrafismi.
Sarebbe un'evoluzione piuttosto naturale, come quella di chi è passato, con sollievo, dalla penna e calamaio alla bic. Però, sono convinta che questo porterà a cambiare non solo il modo di scrivere ma anche quello di pensare, perché il mezzo con cui si scrive non è una cosa neutra rispetto al contenuto e alla forma di ciò che si scrive. Con un foglio e una biro in mano, infatti, il grosso del lavoro lo si fa nella testa, perché è vero che si può tirare una riga, andar di bianchetto o, alla peggio, accartocciare tutto, centrare il cestino e ricominciare; ma, per evitare ecatombi, viene meglio organizzarsi prima un'idea con un inizio, uno svolgimento e una fine e poi provare a tradurla in parole. E' un esercizio tutt'altro che semplice ma, credo, molto salutare.
Tutto questo con il computer non occorre più: si possono buttar giù parole e frasi a casaccio, come tessere di un puzzle, e tentare solo dopo, quando sono sul foglio elettronico, di farle combaciare in un disegno sensato. Anche le conoscenze grammaticali non sono indispensabili: c'è il correttore automatico o, alla peggio, si cerca in internet l'esatta grafia di una parola.
Il risultato finale può anche non essere troppo dissimile da quello ottenuto con carta e penna, ma la forma di pensiero che ci sta dietro è completamente diverso: frammentaria, incoerente, approssimativa. Esattamente come il mondo che abbiamo intorno. E forse le due cose sono collegate.
Lungi da me l'idea di dare all'inventore di Word la colpa delle nevrosi del terzo millennio. Però è pur vero che anch'io, che pur non essendo un genio ho attraversato tutta la scuola dell'obbligo senza mai scrivere un tema in brutta, oggi faccio fatica a scrivere di getto persino un biglietto d'auguri e sono tentata di fare la bozza persino della lista della spesa. Se a me sono bastati 10-15 anni di computer per disimparare a elaborare un pensiero sufficientemente pulito e coerente da poter essere scritto più o meno come lo avevo immaginato, mi chiedo che accadrà ai nativi digitali, cresciuti a internet, sms e videoclip (anch'essi fatti di frammenti d'immagini giustapposte).
Forse assolutamente nulla, perché a loro non occorrerà un pensiero profondo e coerente, ma veloce e reattivo: perfetto per rispondere ai quiz a crocette. Non sarà né meglio né peggio, semplicemente diverso, come è sempre stato. E ai vecchi, che saremo noi, non resterà che brontolare e chiedersi "Dove andremo a finire?" come già facevano quelli delle commedie di Aristofane nel V secolo a.C.
Mi immagino, però, la fatica che faranno quanti non avranno mai preso in mano una penna a leggere i cosiddetti "classici", scritti da gente che manco sapeva cos'era un computer, visto che per noi già ora è un'impresa digerirli.
Chi ha più tempo e voglia d'imbarcarsi in un mattone infarcito di digressioni storico filosofiche, religiose o mitologiche, che in assenza di note comprendiamo ormai a stento?
E che problema è? Se ne creeranno altri di classici: altre antologie e altri florilegi, che selezioneranno le opere da trasmettere alle generazioni future con i criteri del loro tempo. E anche questo, dopotutto, è successo mille volte in passato.
Però a me una scrittura concepita soltanto in formato elettronico fa ugualmente un po' paura, perché sarà patrimonio di persone abituate a pensare con gli stessi criteri di intercambiabilità di parole e di idee permesse da un testo in Word, convinti che anche gli errori e gli amori si possano eliminare dalla vita, semplicemente, con un clic.