lunedì 23 dicembre 2013

In una notte...

"In una notte come questa,
in una notte come questa l’anima,
mia compagna fedele inavvertita
nelle ore medie
nei giorni interni grigi delle annate,
levatasi fiutò la notte tumida
di semi che morivano, di grani
che scoppiavano, ravvisò stupita
i fuochi in lontananza dei bivacchi
più vividi che astri. Disse: è l’ora"
.
(Mario Luzi, Epifania)

Auguri a tutti gli amici piumati e spiumati, a ciose, galline, pulcini, ciosi e galletti assortiti.
Un abbraccio e un frullo d'ali!
Cri

venerdì 13 dicembre 2013

Il dono che mi desti

Diciamo la verità: non ci siamo amati molto nei cinque anni in cui ci siam visti sei mattine su sette, da settembre a giugno, e io avevo dai sei agli undici anni e tu qualcuno in più dei miei genitori.
Non mi piaceva la tua arrendevolezza nei confronti delle madri che, a differenza della mia, facevano la voce grossa quando sgridavi i loro figli e, di conseguenza, la disparità di trattamento che riservavi ai miei capricci e ai loro; non mi piaceva che mi prendessi in giro quando piangevo per un nonnulla, anziché consolarmi e, forse, qualche volta, mi annoiavi anche un po' con la tua voce sottile e monocorde…
Però, a distanza di anni, devo ammettere, maestro, che non sono stata un'alunna facile: alternavo rabbia e lacrime, paura e caparbietà e non ero agevole da maneggiare. Non lo sono nemmeno ora, benché da molti anni cerchi di smussare gli spigoli più odiosi del mio carattere.
Era praticamente impossibile convincermi a smettere di parlare o disegnare o ritagliare - anziché ascoltare le tue lezioni - fintanto che non avevo finito di dire o fare quel che stavo facendo. Dopo - e solo dopo - me ne stavo buona e attenta come volevi tu.
Durante le ore di scuola ho costruito teleferiche di spago per mandare bigliettini agli amici seduti nelle file dietro, ho giocato a flipper con le biro e le palline di stagnola, ricavate dall'involucro dei panini che mio padre preparava per merenda; ho realizzato fondali per spettacoli di burattini incollando tra loro con lo scotch i fogli di quaderno; mi sono persino spostata con tanto di banco e sedia in fondo all'aula, assieme a quello che è stato, per un paio d'anni, il mio migliore amico: bisognava davvero essere meravigliosamente ingenui per immaginare che tu non te ne accorgessi, però, in quel caso, devo riconoscerlo, hai fatto finta di niente, e te ne sono grata.
Soprattutto, però, ti sono grata per avermi insegnato a scrivere.
Lo so che era semplicemente il tuo dovere, compiuto per anni per centinaia di bambini e, diciamolo, con correttezza, ma senza brillare d'entusiasmo. Però, per me, è stato un dono grandissimo.
Me ne rendo conto ora, quando ti incontro invecchiato e incurvato, con la voce ancor più sottile e tremante, ora che sono più alta di te, che sei sempre stato un omino minuto: un sarto mancato sceso in città dagli Appennini per studiare e trovare un posto fisso, quando era ancora possibile. E, soprattutto, me ne rendo conto quando, un volta all'anno, in questo periodo, mi chiedi un articolo per il giornalino parrocchiale e io, dopo averlo imbastito ad ore improbabili della notte, te lo mando via mail sperando che abbia un senso e pregandoti, per favore, di correggerlo.
Quasi quasi m'immagino che me lo rimandi indietro con annotazioni rosse e blu e un voto in fondo alla pagina, come quasi trent'anni fa. E provo ancora la stessa trepidazione di allora. A essere sinceri, la provo ogni volta che mando a qualcuno qualcosa che scrivo, o che pubblico qualcosa qui o altrove. Perché per me la scrittura è molte cose: un lavoro, che mi permette di avere un seppur magro stipendio facendo qualcosa che amo e per cui ho studiato (il che, di questi tempi, non è poco!); è un supporto alla mia pessima memoria, che si nutre di appunti e post-it, e un grimaldello per la mia timidezza. Infine, inutile dirlo, è uno sfogo, un rifugio, un passatempo, una consolazione.
Allora grazie, maestro, davvero, per ogni singola lettera, sillaba e parola che mi hai insegnato, per ogni racconto e per ogni poesia che mi hai fatto leggere e imparare a memoria (qualcuna me la ricordo ancora!), perché mi hai dato gli strumenti con i quali posso anch'io tentare, alla meno peggio, di procurarmi la mia dose quotidiana di bellezza e libertà.

lunedì 2 dicembre 2013

AA: Assemblatori Anonimi

"Ciao mi chiamo Cri".
"Ciao, Cri, benvenuta. Te la senti di raccontarci la tua storia?"
"Va bene, proviamo…"
In principio furono due innocue scrivanie: quattro tavole di legno, quattro binarietti e una manciata di brugole. E già allora, pur consapevole che anche un bambino ci sarebbe riuscito, devo ammettere che provai una certa soddisfazione.
Qualche giorno dopo tentai con una cassettiera: era un modello basico, senza pomoli né piedini; ma comunque, oltre ai binarietti e alle brugole, fecero la loro comparsa tasselli e chiodini.
Poi, per alcuni anni più nulla. E quasi mi dimenticai della faccenda. Finché, dalla scorsa primavera, complice una casa da arredare con il mio magro stipendio, ahimè, ho ricominciato.
Subito mi sono accontentata di un paio di surrogati di un'altra marca: un carrellino per la cucina parecchio traballante con cassettini già pronti in rete metallica e ruotine da incastrare a pressione; e un già più impegnativo porta cd che, per diventare tale, partendo da una spirale di lamiera e dei quadretti di compensato, aveva bisogno di quaranta (40!) viti.
Poi ci si sono messi anche i miei, regalandomi una monumentale cassettiera blu, rimasta per mesi chiusa nelle sue brave scatole, prima che trovassi il coraggio di metterci le mani; ma alla fine, dopo tre dopocena di duro lavoro, ne ho avuto ragione.
Ricordo di aver provato, allora, una punta di orgoglio solo in parte giustificato dal fatto che, stando alle istruzioni, bisognava essere in due per dominare l'arnese; mentre io me la sono cavata, inevitabilmente, da sola.
Fu così che osai il divano. Appena vidi lo scatolone torreggiare in mezzo alla sala, l'ho guardato con la stessa emozione di quando avevo cinque anni, pensando a quali meraviglie avrei potuto inventare avendo a disposizione quella quantità incredibile di cartone.
Solo dopo qualche minuto di contemplazione mi decisi ad aprirlo per scoprire che il contenuto, benché apparentemente innocuo, così bianco e imbottito, nascondeva un'animo insidioso, come appurai quando una vite sfuggita al controllo, tentò, fortunatamente senza successo, di centrarmi un occhio.
Dopo qualche settimana mi sono resa conto che in camera, oltre all'armadio, mi occorrevano almeno un comodino e una cassettiera. E così ho avuto una ricaduta.
Anche ieri sera, purtroppo, ho ceduto: tirando la mezzanotte in compagnia di un mobiletto del bagno (quattro ripiani, quattro piedini, uno sportello) e di un'esile scaffalatura in bambù.
Adesso basta, però! Perché le stanze sono sufficientemente arredate e il portafogli sufficientemente sguarnito; inoltre, ho sulle mani calli che neanche un carpentiere: nemmeno Sherlock Holmes riuscirebbe a indovinare, osservandole, quale sia il mio vero mestiere.
Badate: so benissimo che, in realtà, è un inganno; che il vero lavoro non l'ho fatto io ma gli ingegneri/designer che hanno progettato tutto fino all'ultimo incastro e la bassa manovalanza sfruttata in qualche parte del mondo che ha tagliato e forato i pezzi al millimetro (o quasi), ha dato forma alla ferramenta e inscatolato il tutto a mio uso e consumo.
Però il signor Ikea ha avuto un'idea geniale: ha capito che tutti noi, animaletti tecnologici, coviamo il desiderio di costruire qualcosa con le nostre mani, di dire "questo l'ho fatto io", anche quando sarebbe più corretto dire "l'ho assemblato io". Perché se l'avessi fatto davvero io nessun altro al mondo avrebbe un oggetto uguale; mentre la cassettiera di cui vado orgogliosa se ne può stare identica in un salotto di Roma, in una camera di Stoccolma o in un bilocale a Parigi. Ma il brivido rimane, ed è forse uno dei pochi segni di resistenza dell'uomo a rassegnarsi ad essere solo un utente e un acquirente di cose fatte da altri. E che anche questo brivido sia stato trasformato in un business è affascinante e inquietante allo stesso tempo. Eppure l'esserne consapevoli non azzera il piacere.
Ah, dimenticavo: se vi occorre una mano a montare un mobile… fatemi un fischio.
Argh, no, ci sono ricascata: dovrebbero scrivere nelle avvertenze che le brugole possono dare dipendenza!

giovedì 28 novembre 2013

Fiducia e no

A proposito della giornata contro la violenza sulle donne da poco "celebrata".
Domenica sono andata a casa di un tizio al quale ho lasciato un bel segno su entrambe le portiere della macchina per completare la constatazione amichevole, iniziata sabato sera sotto la pioggia.
Quando, prima di uscire, l'ho detto a mia madre lei, spaventata, mi ha chiesto: "Ma vai a casa sua?!"
"Sì, perché?"
"Non sai neanche chi è!"
"Insomma, visto che il torto ce l'ho io, mi sembra normale venirgli incontro e accettare le sue condizioni".
"Almeno vacci con papà…"
"Mamma, ti prego, ho 35 anni! E poi mi è sembrato una persona civile: non mi ha insultato, è stato gentile e collaborativo e ha anche una moglie".
"Cosa centra se ha una moglie?!"
"Ok, hai ragione, non è una garanzia, ma non mi è parso un tipo ambiguo".
"Eh, lo sai che si presentano bene…"
"Lo so, lo so, probabilmente ha dei bambini piccoli e gli secca uscire la domenica pomeriggio."
"Sarà, ma io non sono tranquilla".
Certo che, dopo questo discorso, ho smesso di esserlo anch'io, perché purtroppo, mia madre non ha tutti i torti: le cronache son piene di orrori che nemmeno Dario Argento nei suoi giorni migliori si sarebbe potuto immaginare. Orrori che riguardano prevalentemente le donne.
Alla fine raggiungiamo un faticoso compromesso: "Mamma, ascolta, mi ha dato nome, cognome, indirizzo e cellulare: te li scrivo su un post-it e se tardo mi chiami, va bene?"
"Va bene".
Per fortuna le mie previsioni erano azzeccate: l'incidentato aveva in casa, oltre a una moglie, insegnante di latino e greco con tanto di "Rocci" e Anabasi di Senofonte aperti sul tavolo (quasi quasi m'è venuta nostalgia), anche un bambino di pochi mesi che s'era appena addormentato.
Abbiamo compilato quel che dovevamo compilare, fatto un paio di chiacchiere di circostanza, a bassa voce per non svegliare il pupo, e ci siamo salutati, augurandoci di non "scontrarci" più.
Insomma, a parte i soldi che dovrò sborsare per riparare la mia auto e quelli che mi farà sborsare in più la mia assicurazione per l'incidente, direi m'è andata bene.
M'è andata bene?
Eh no, accidenti! E' andata semplicemente come è giusto che vada: perché è orribile pensare che una donna debba sempre tener nascosto da qualche parte di sé, più o meno a fondo a seconda del carattere e delle esperienze vissute, un vago timore quando si trova da sola con un uomo.
Perché è orribile pensare che ogni uomo, che sia un compagno o uno sconosciuto, possa sempre rappresentare per noi una minaccia, per il solo fatto che, per natura, si porta appresso, oltre a due braccia mediamente più robuste delle nostre, anche un'altra arma impropria nei pantaloni (ehm, scusate…).
E lo so che questa faccenda va avanti da secoli, ed è dura da scalzare con qualche campagna promozionale e una giornata di sensibilizzazione ogni tanto.
Ma so anche che dipende anche da noi: non perché dovremmo andare vestite più castigate (termine già di per sé molto significativo...) e non dare confidenza a nessuno: questa è un'altra delle orribili cose che ancora si sentono dire e che giustificano ancor più la disparità e la violenza.
Però dovremmo essere consapevoli per prime della nostra dignità. Rinunciare alla tentazione di usare la nostra femminilità come una scorciatoia o una merce di scambio (chi ci riesce, perché io proprio non ne sono capace).
E, soprattutto, lo dico alle madri e alle insegnanti, piantarla di educare in modo diverso maschi e femmine, assecondando la prepotenza degli uni e instillando la paura nelle altre.
Perché a me, davvero, piacerebbe tanto fidarmi, ma faccio tanta, tanta fatica...
Un abbraccio a tutte le donne. E agli uomini di buona volontà.
Ce ne sono. Lo so che ce ne sono!

venerdì 15 novembre 2013

E' la stampa, bruttezza!

Ieri sera ero a un incontro sul tema "pace e globalizzazione".
Eravamo in sei. E poi ci si stupisce che ci siano tante guerre nel mondo.
Anzi, no, a dire il vero, per i primi dieci minuti eravamo in otto; ma due erano giornalisti di qualche testata locale. E buon per loro che non ho avuto modo di chiedergli di quale. Anche perché sarebbe stato difficile: quando sono arrivata io - un po' in ritardo, come al solito - i due se ne stavano in disparte parlando dei fatti loro. Tanto che, vedendo due facce nuove, ho persino pensato: "toh, che bello: allarghiamo il gruppo!". Poi mi sono dovuta ricredere.
Ho capito che erano giornalisti solo quando, appena il relatore ha iniziato a parlare, la donna ha sfoderato con aria torva una notevole telecamera.
Non sono riuscita a capire che facesse nel frattempo l'uomo, distratta dal pensiero che, essendo io seduta a fianco del relatore (niente tribune o palchi: eravamo semplicemente disposti in un cerchio di sedie), ed essendo così pochi, sarei finita anch'io nel filmato. E la cosa non mi garbava per niente.
Non mi pare, però, d'averlo visto prendere appunti, e, anche se li avesse presi, non credo gli sarebbero serviti granché, visto che la riunione è durata più di un'ora mentre loro, con la stessa aria scocciata e distante con cui li ho visti entrando (e che io, ingenua, avevo attribuito alla timidezza), se ne sono andati poco dopo, salutando di sfuggita e interrompendo il relatore.
In realtà, non mi sarei dovuta stupire nemmeno troppo. Ho una mezza idea di come funzionino queste cose: si fanno dieci minuti di ripresa, si chiede al relatore o all'organizzatore di fare avere un resoconto o un comunicato stampa e poi si va altrove. Così, in una sola serata, la stessa malcapitata coppia cameraman & giornalista può con poco sforzo documentare un convegno, una premiazione, un'anteprima e una manifestazione con perfetta efficienza e ottimizzazione di tempi e costi.
Poi, però, non lamentiamoci che i giornali non li legge più nessuno, i telegiornali danno notizie banali e il web, per quanto vario e ricco di informazioni aggiornate in tempo reale, è anche pieno di errori e scempiaggini, visto che non c'è il tempo, né la volontà, di verificare le fonti.
Sarà che sono un po' naif, ma io, quando penso a un giornalista, m'immagino uno che ascolta e guarda tutto dall'inizio alla fine, anche se questo comporta, nella maggior parte dei casi, una solenne rottura di scatole. Perché non sta scritto da nessuna parte che la svolta, l'evento risolutivo, la chiave giusta per comprendere un avvenimento (e raccontarlo agli altri), non si scoprano negli ultimi due minuti, anziché nei primi dieci; anzi, è molto probabile che vada proprio così.
E m'immagino una persona curiosa e aperta, capace di provare almeno un minimo di vero interesse nell'affrontare gli argomenti più vari: dall'alta finanza alla bassa manovalanza; obiettiva, ma anche comprensiva delle opinioni degli altri (e consapevole delle proprie).
Insomma, penso a uno che, se appena può, arriva sul luogo dove è stato inviato un po' prima degli altri, per annusare l'aria, osservare l'ambiente, cogliere gli stati d'animo; e va via un po' dopo, per poter render conto di eventuali mutamenti e per paura che possa accadere qualcosa d'importante appena lui se n'è andato.
Qualcosa di simile al capitano di una nave: che non l'abbandona finché anche l'ultimo uomo non s'è messo in salvo, perché è così che si fa, perché è il suo mestiere.
Poi mi ricordo che siamo il Paese di Schettino.
E capisco molte cose...

mercoledì 13 novembre 2013

Il ditino e la luna

Afferro sbuffando la maniglia del portone di legno e vetro di un vecchio e pretenzioso edificio del centro nel quale sono andata, controvoglia, a consegnare dei documenti. E mi immobilizzo all'istante. Mi accorgo, infatti, che sotto le dita mi spunta una formella d'ottone con il bassorilievo di un leone.
Dove l'ho già visto? Ah, già: sullo scrignetto dove la mia prozia teneva i gioielli. Lo apriva con cura e mi diceva con aria tra il melodrammatico e il cospiratorio: "Un giorno sarà tuo" (un classico!). E in effetti lo è diventato. Lo scrignetto, per lo meno.
Una parte del mio malumore svanisce e torno verso l'ufficio in modalità "Ricordi d'infanzia" attivata.
A metà strada incontro un'amica che fa la baby sitter e sta scarrozzando su un passeggino un pupo dall'aria sveglia e simpatica. Mi fermo a salutarla. Il bambino ci guarda dal basso e a un certo punto solleva il ditino verso l'alto, indicando punto imprecisato ben al di sopra delle nostre teste.
"E' innamorato della luna" mi spiega l'amica: "prima c'era, ma ora s'è nascosta e la sta cercando…"
Alzo anch'io la testa e vedo che tra le guglie del Battistero il cielo non è completamente buio: ci sono nuvole più chiare su uno sfondo cobalto.
Poi guardo il bambino, gli sorrido, e decido di dare la stura al mio repertorio di brandelli di poesie che hanno a che fare con la sua precoce (e condivisibile) passione: Saffo, Pascoli, Leopardi… Il bambino, ovviamente, capisce molto poco di quel che gli sto dicendo, immagino, ma mi ascolta ugualmente piuttosto interessato. Devo dire che ci speravo: se preferisce andare in cerca della luna che gioca a nascondino con le nuvole anziché lasciarsi irretire dalle mille luci dei negozi del centro, già pronti per il Natale, e più a portata d'occhio, sono sicura che, in qualche modo, può comprendere anche il fascino delle parole che gli ripeto alla meno peggio a memoria. E mi sorride.
Anche l'amica che lo accompagna, anziché darmi per persa, mi chiede titoli e autori di quel che sto recitando: stavolta m'è andata bene!
Facciamo un pezzo di strada assieme e, a metà di Piazza Duomo, il bimbo indica un punto più in basso, di fronte a noi: "Sì, sì, adesso passiamo anche a salutare i leoni…" lo rassicura la donna. "Gli piacciono anche quelli?" chiedo. "Molto!"
Per poco non mi viene da ridere: "Piacciono tanto anche a me!" dico a entrambi; e comincio a raccontare che giusto quest'estate, nella piazza di una città di mare, ne ho cavalcato uno che faceva placidamente la guardia a una fontana, divertendomi parecchio.
Mi concedo di osservare ancora una volta lo sguardo attento del bambino e quello un po' stupito ma comprensivo della donna.
Poi ci salutiamo e, non so perché, torno al lavoro un po' più leggera.
"Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna?"
"Che domande! Mi lascio guardare dai piccoli curiosi e dai grandi storditi come te…"
Grazie al cielo!

martedì 29 ottobre 2013

L'uomo nero siamo noi

"Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti col passare del tempo s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle di un bianco nauseante, e senza squame." (F. Brown, Sentinella)

Darei non so cosa per sapere che pensi, bambina dagli occhi di velluto, che mi guardi mentre parlo in una lingua a te ignota e cerco di stanarti dall'angolino nel quale ti sei rifugiata, innalzando una barricata di giocattoli.
L'unica parola di italiano che conosci è il tuo nome, che suona incongruo appiccicato alla tua personcina minuta e serissima, palesemente straniera, non tanto per l'aspetto o il vestito, quanto per lo sguardo indecifrabile e per l'inespugnabile silenzio.
Sei piovuta qui chissà come dal Pakistan e tuo fratello maggiore, che ti porta appresso malvolentieri, non si è degnato d'insegnarti nulla del mondo nel quale anche lui s'è trovato a vivere. Lui sfoga il suo senso di sradicamento e inappartenenza con un piglio prepotente da gangster in miniatura. E tu?
Tu che sei piccola, e femmina, invece, mi osservi in modo sorprendente, mentre io, accovacciata tra dinosauri e pezzi di lego, accompagno le parole con i gesti cercando di spiegarmi.
Mi aspettavo curiosità, attenzione da te, come accade di solito quando un adulto si rivolge a un bambino piccolo, sorridendogli e parlandogli. Lo so che non mi capisci, ma ai bambini spesso non importa: intuiscono dal tono e dallo sguardo molto più di quanto possono sapere e, di solito, è facile con loro entrare in relazione in qualche modo.
Invece, a sorpresa, nel fondo dei tuoi occhi leggo qualcosa che sta tra l'indifferenza e la rassegnazione: non mi respingi, ma non mi sorridi e non mi parli.
Che ti hanno detto di noi, piccolina? Che siamo creature strane e diverse, con cui è inutile, se non pericoloso creare legami? Come si dirà in pakistano "non parlare con gli sconosciuti"?
E se ti hanno insegnato così, perché l'hanno fatto? Da quali esperienze di rifiuto, miseria, dolore, è nata questa diffidenza che di sicuro ti è stata trasmessa, perché non credo sia naturale per una della tua età, che avrebbe il diritto di essere fiduciosa e spontanea con gli altri.
Invece tu preferisci continuare a giocare in silenzio con i tuoi dinosauri che, in teoria, hanno un aspetto assai meno rassicurante di me. O forse no?
Ho letto da poco in "Ebano" di Kapuscinki, che nell'Africa nera le mamme minacciano i bambini che non vogliono dormire dicendo loro che, se non fanno i bravi, arriva l'uomo bianco e se li porta via.
Han detto qualcosa del genere anche a te? Ti hanno detto che sei qui solo per sfruttare un po' la ricchezza di questo occidente sfruttatore per poi tornartene alla tua terra, al tuo vero mondo, tanto diverso e tanto lontano, e che perciò non ti serve farti degli amici?
Allora perché ti hanno dato un nome italiano? Se non è desiderio d'integrazione, forse è solo un nascondiglio dietro il quale far passare il più inosservato possibile il tuo essere straniera?
Oppure non ti hanno detto niente, perché sei solo un fagotto occhiuto tra le mani di adulti che ti portano dove vogliono, ti mettono in un cantuccio e ti dicono di star buona? Chissà, magari i tuoi hanno già deciso a chi darti in sposa. Ma, dopotutto, non è questo che mi spaventa, perché anche noi, qui, piccolina, che ci illudiamo di scegliere da soli i nostri amori, facciamo ugualmente un gran numero di danni.
Quello che m'inquieta è il sospetto che il tuo sguardo precocemente freddo e serio, che mi sento scendere in gola e poi giù, fino al cuore, sia un'accusa: siamo noi quelli da cui stare in guardia, gli incomprensibili, i malvagi. E, visto quel che accade sempre più spesso ai migranti che arrivano nel nostro Paese, bambina mia, temo tu abbia ragione.

martedì 22 ottobre 2013

In bianco

Che ci fa una zitella acida in un negozio d'abiti da sposa?
Accompagna un'amica, ovvio.
Per la prima volta in vita sua, a un'età alla quale molte coetanee il vestito da sposa l'hanno già archiviato in naftalina nei piani alti dell'armadio, varca la soglia di un mondo fatto di pizzi, tulle, sete e organze e altri tessuti di cui ignorava persino il nome e di tutte le possibili gradazioni del bianco: avorio, ghiaccio, crema...
E che fa, la zitella acida, mentre l'amica emozionata s'aggira tra armadi e appendiabiti camminando a un centimetro da terra?
S'aggira lei pure, ammirando curiosa ricami e bustini, soppesando strascichi e contando sottogonne.
Si diverte come una bambina a toccare le stoffe preziose e luccicanti; si stupisce di come, qualunque abito si provi, sia quelli che le stanno a pennello, sia quelli che non la convincono, l'amica, già di per sé alta, slanciata e dotata di un seno ragguardevole, sia bella come non l'ha mai vista: una diva di Hollywood o, meglio, come direbbe la nostra Costi, una principessa.
Dà consigli se richiesta e, talvolta, anche se non richiesta, fa battute, ride e si commuove pure un poco.
Ed è sinceramente felice, benché si muova tra oggetti che parlano di territori da lei mai attraversati, che sa benissimo non le appartengono.
Chissà, forse anche il famoso elefante entrato Dio solo sa come in cristalleria si riempie gli occhi e il cuore di meraviglia; e solo quando, senza volere, l'ha ridotta a un cumulo di frammenti inutili e taglienti se ne esce con la coda tra le gambe chiedendo mentalmente scusa per l'intrusione.

lunedì 14 ottobre 2013

L'antro dell'ombrellaio e altre botteghe magiche

Fino a qualche anno fa, a Parma, a Barriera Bixio, sotto i portici neoclassici che segnavano l'ingresso alla città ottocentesca, c'era ancora la botteguccia di un ombrellaio-cappellaio che vendeva anche bastoni e bauli e chissà quali altri residuati di un altro tempo. L'ho sempre visto vecchio, sia quando uscivo da scuola e sbirciavo dentro la vetrina dagli infissi in legno scolorito in attesa dell'autobus, sia l'ultima delle tre-quattro volte che sono entrata in negozio.
Nei giorni buoni si piazzava con una seggiolina di legno vecchia quanto lui di fronte alla bottega ad osservare il passaggio.
Commisi l'errore di portargli due ombrelli che mi avevano regalato e che, non so come, ero riuscita a rompere entrambi nel giro di quindici giorni. Ovviamente la cosa mi seccava e gli chiesi se poteva ripararli. Lui li osservò un istante con aria scettica, poi emise sentenza inappellabile: "E' roba cinese e io non l'aggiusto!". Me ne uscii un po' seccata, dando l'addio agli ombrelli nel primo cestino; ma quando ho letto che aveva chiuso m'è dispiaciuto, perché il suo negozio era diverso da tutti gli altri: aveva una storia, un carattere e vendeva oggetti fatti per durare a lungo ed essere riparati.
Fino allo scorso anno, nel paese dove passo le mie estati, c'era una bottegaia che, senza saperlo, aveva preso sul serio il motto di Harrods "Dallo spillo all'elefante", concentrandolo però in due anguste stanzette colme d'ogni cosa fino al soffitto: dai biscotti ai detersivi, dai salumi ai mutandoni della nonna, dai cioccolatini alle trappole per topi. Se ci capitavi di mattina aveva anche il pane fresco e qualche copia della Gazzetta. Se ci andavi di pomeriggio ti faceva il panino per la merenda e te lo allungava sporgendosi a fatica dal bancone, piccola e olivastra, proveniente da un paesino sperso dell'estremo sud e capitata in un paesino di poco meno sperso del nord. Ci ha cresciuto due figlie in quelle due stanze ed era un punto di riferimento per i ragazzini troppo giovani per andare a comprarsi il gelato o la cioccolata fino al paese più grande giù in valle e per i vecchi, che raggiungevano la bottega passin passino armati di sporta e bastone e, intanto, facevano anche due chiacchiere.
Quando ha chiuso ho avuto l'impressione che il paese fosse diventato più anonimo e inospitale: periferia estrema della città e dei suoi supermercati. E mi è spiaciuto quasi come quando hanno trasferito il prete, lasciando chiesa e canonica in balia di celebranti last-minute.
Ora che son costretta a bazzicare per il centro, infilando borghetti a caso un po' per sbaglio e un po' per curiosità, mi diverto un mondo a scovare bar e negozietti old stile nei quali si respira un'aria decisamente diversa da quella (condizionata... e condizionante?) dei centri commerciali, che comunque frequento e non contesto a priori.
A parte la storica cappelleria a due passi dal Regio, con gli scaffali di legno, odore di lana e cera e i vecchi manifesti di Borsalino, dove di tanto in tanto acquisto una coppola per papà, quando ne perde una o la rovina con un lavaggio incauto, e la caotica merceria con il bancone stinto dall'uso e torri di scatole di bottoni tra cui emergono piume di struzzo anni '30 e scampoli di finte pellicce anni '90, di recente sono incappata in un barino dall'arredamento sobrio e stagionato, e proprietari altrettanto stagionati. Ho chiesto l'inevitabile caffè e la signora, sorriso d'ordinanza, se n'è uscita con un "ma certo, tesoro, ti faccio un supercaffè! E peccato che ho la mia Faema del '61 in riparazione, se no era ancora più buono" e poi ha proseguito: "m'hanno offerto tante volte di cambiarla, ma io ho detto no: macchine così non ne fanno più al giorno d'oggi" e ha concluso orgogliosa, mano sul cuore: "La Jole morirà con la sua macchina per il caffè!". Nel frattempo era entrato il "ragazzo di bottega", forse il marito, grigio e dignitoso nel suo panciotto ricamato. E a me s'è spalancato un mondo.
A parte il fatto che Jole è il nome della memorabile barista - ex prostituta ed ex partigiana - che compare in alcuni spettacoli di Paolini e che il caffè era buono, mi son trovata ad anni luce dall'asettica nave spaziale della Nespresso, distante pochi metri, dove il caffè te lo fanno assaggiare solo se acquisti una delle loro supertecnologiche macchinette. E mi sono chiesta se, oltre al fatto non secondario che tutti abbiam poco da spendere, la crisi del commercio non sia, almeno in parte dovuta anche all'omologazione che vuole i centri storici colmi di negozi tutti uguali con commesse tutte uguali (giovani e mediamente scoglionate e impreparate, per via del lavoro precario), che vendono cose molto simili di qualità mediocre (a meno di non spendere capitali) tra cui ci illudiamo soltanto di poter scegliere.
Non credo che la Jole e il suo collega (o marito) si siano fatti i miliardi nella loro vita dietro il bancone di legno; o forse sì, ma è chiaro che, dopotutto, non è quello lo scopo per cui hanno fatto per anni e continuano a fare il loro mestiere: c'è l'orgoglio del proprio lavoro e la consapevolezza che, facendolo bene, si fa anche un servizio agli altri, non soltanto al proprio portafogli: si creano legami, punti di riferimento, si anima un paese o un angolo di città, che diventano un poco più umani.
Vi pare poco?
E comunque, lo sapete, prima o poi le ciose apriranno la loro libreria-pasticceria-centro culturale: temo fallirebbe in pochi mesi, ma sarebbe un posticino decisamente accogliente...

PS: la foto l'ho rubata al sito della libreria antiquaria "Credula postero", il cui nome da solo ha tutta la mia ammirazione.
Saluti imprenditoriali!

martedì 1 ottobre 2013

Such stuff as dreams...

"Le cose non devono essere avvenute realmente per essere vere.
Le storie e i sogni sono verità rivestite d'ombra che sopravviveranno quando i nudi fatti saranno polvere, cenere, oblio".
(N. Gaiman, Sandman)

Avere 35 anni ed essere ancora convinte che sia davvero così.
E non sapere se è triste o meraviglioso.

lunedì 30 settembre 2013

Torta di ricotta e pere di recupero (per non dire della marmellata!)

"Diffidate dei libri di cucina (anche del mio). Diffidate dei libri che trattano di quest'arte: sono la maggior parte fallaci o incomprensibili... al più al più... potrete attingere qualche nozione utile quando l’arte la conoscete". (Pellegrino Artusi)

Eccomi con un'altra delle mie ricette che, ne sono sicura, gettano nello sconforto la nostra Elis, la quale di cucina se ne intende davvero.
Chiedo scusa a lei e agli eventuali altri gourmet all'ascolto.
Succede che mi trovo in frigo una ricottina pericolosamente alle soglie della scadenza (ma, ovviamente, commestibile), un vasetto con due dita di marmellata di susine, che si chiede sconsolata quando qualcuno si deciderà a mangiarla, e delle perine stortignaccole raccolte nell'orto da papà.
Succede che è stata una domenica parecchio inconcludente e raddrizzarla con un dolce m'è parsa una buona idea.
Quindi, sulla mia solita base di pastafrolla (250 g di farina, 150 di zucchero, 100 di burro, un uovo, mezza bustina di lievito, un cucchiaio d'olio extravergine d'oliva e un pizzico di sale mescolati per bene) ho sistemato, nell'ordine:
- un velo di marmellata di susine (più o meno due cucchiai),
- uno strato di pere tagliate a fettine sottili (ne ho usate tre, ma erano davvero piccole),
- una cremina fatta con la suddetta ricottina (100 g) mescolata con un uovo e un cucchiaio di zucchero.
Poi ho infornato a 180 °C per circa 40 minuti.
Ha un suo perché...

lunedì 23 settembre 2013

Arguzia

Definizione ineccepibile della fidanzata ventottenne di un noto politico settantaseienne:
"Una badante d'alto bordo".
Non posso citarne la fonte, perché mia madre me lo ha proibito...

Trasparenza

"Dio sa come vorremmo tentare sortite liberatorie dai fortilizi sotterranei nei quali ci siamo nascosti assediati dalle nostre paure. Ma appena apriamo la botola, una tempesta di delusioni ci ricaccia dentro, condannandoci a un'interminabile crisi di fiducia. E dire che ci brucia dentro tanta voglia di trasparenza."
Don Tonino Bello

mercoledì 11 settembre 2013

Da vicino nessuno è normale

Vi giuro che quel che segue è realmente successo nell'arco di una mezz'ora in questa mattina bigia che annuncia, ahimè, l'autunno.
Pioviggina e mi avvio mogia alla fermata dell'autobus per andare al lavoro. Qui, appena uscito dal bar alle spalle della fermata, un signore sulla sessantina armato di bicicletta mi attacca una pezza lamentandosi del barista che gli ha appena rivelato di praticare lo zen e di volersi, perciò, recare sulla montagna più alta dell'Emilia-Romagna per caricarsi di energie positive. Il ciclista, però, non solo è perplesso a proposito dello zen, fin qui potrei anche capirlo, ma soprattutto è scocciato perché il barista crede di saperne più di lui di montagna e invece no, perché lui ha scritto più di mille articoli su Wikipedia circa le montagne del nostro Appennino e tenta di cominciare a descrivermele. Grazie al cielo arriva l'autobus e lo saluto cordialmente.
Sull'autobus, però, l'avventura continua: sale una signora corpulenta e leopardata, che chiede al conducente se ferma in Ghiaia, poi acquista un biglietto, si lamenta del costo e si siede, scordandosi di timbrarlo. Il conducente glielo fa notare, lei non lo sente, allora la avverto io. Tenta di infilare il biglietto al contrario. Le do istruzioni, mi ringrazia, si risiede e ricomincia a brontolare. Poi chiede quanto dura il biglietto: "Un'ora" risponde il conducente. "Ah, bene, allora quando scendo guardo che ore sono così mi so regolare". "No guardi, signora, l'ora si calcola da quando timbra il biglietto" intervengo io. "Ah...".
E non è finita. Un paio di fermate dopo sale un'altra signora: capelli bianchi legati in una coda scompigliata, impermeabile stazzonato, passo claudicante e un paio di lividi in faccia.
Anche lei chiede se il bus ferma in Ghiaia, poi chiede se da lì si può prendere non so che coincidenza. Il conducente risponde con garbo e la signora lo apostrofa con un "Che Dio la benedica", quindi anche lei tenta di timbrare il biglietto al contrario. "Dalla parte della freccia" dico rassegnata ma non stupita (anche a me capita di sbagliarmi). La signora non mi benedice, ma mi si siede accanto e comincia a lamentarsi di essere caduta dal letto stanotte cercando di accendere la luce, più di una volta, e che le fa tanto male un ginocchio.
Poiché anch'io devo smontare in Ghiaia, quando il bus arriva al semaforo che precede la fermata, ovviamente rosso, consiglio alla signora di alzarsi intanto che il mezzo è fermo (onde evitare un'altra caduta) e ne approfitto per divincolarmi. Lei, gemendo ad ogni movimento che fa, chiede di nuovo all'autista per la coincidenza che le interessa e lo ribenedice. Le dico di tenersi ben stretta prima che il bus riparta e beh, di farsi dare un'occhiata al pronto soccorso, ma lei manco mi saluta.
Ora, non so se in giro c'è tanta gente strana o sono io che li attiro.
Ho il sospetto sia più vera la seconda ipotesi. Forse anch'io ho spesso un'aria sufficientemente stranita e stropicciata che mi fa riconoscere come loro simile dalle persone a cui manca un venerdì, le quali mi si appiccicano con particolare piacere.
E sapete che c'è? La cosa un po' mi preoccupa... e un po' mi diverte. Perché ogni incontro è comunque una scoperta.
Saluti concilianti.

giovedì 5 settembre 2013

In the wind

Chi mi conosce da tempo di persona sa che a volte (raramente) riesco ad essere spigliata e chiacchierona (e anche un po' rompiballe); altre, invece, posso starmene zitta e intimidita in un angolo, proferendo poche parole mal connesse solo se costretta. E che, tra questi due estremi, ci sono molte variabili che dipendono, purtroppo, da vari fattori: come sto quel giorno, da quali pensieri sono presa, quanto mi affascinano o mi spaventano (o entrambe le cose insieme) le persone con cui ho a che fare o quanto io riesco in qualche modo a sentirmi a mio agio con loro.
Ma questo è un mio problema...
Esistono invece persone che sono quasi sempre silenziose e appaiono, perciò, a seconda dei casi, schive o burbere o anche sciocche agli occhi degli altri senza esserlo quasi mai davvero.
Con due di loro, non so perché, nelle estati di molti anni fa, sono riuscita a chiacchierare a lungo, suscitando lo stupore delle rispettive consorti. E anche il mio, beninteso. In entrambi i casi si era al mare.
Non ricordo più di cosa avessimo parlato passeggiando, forse di libri o di cinema; ma ricordo la leggera sensazione di stupore nello riuscire io, ragazzina, a scalfire non so come la corazza di silenzio di quei due uomini adulti, coetanei dei miei genitori. Ci parlammo alla pari, semplicemente, annullando per un momento le differenze di ruolo, d'età, di sesso che troppo spesso impongono paletti inutili ai rapporti tra individui.
Uno dei due era un mio parente, ed è morto qualche anno fa, l'altro un caro amico di famiglia, che se ne sta andando in questi giorni, pure se resta per lui ancora un filo di speranza. Entrambi erano, per me, pure se in modo diverso, un punto di riferimento: persone su cui sapevo di poter contare in caso di bisogno. A maggior ragione dopo aver avuto il privilegio di sbirciare, anche solo per una volta, un po' più a fondo nel loro animo.
Oggi, dunque, che mi sento, se possibile, ancora un po' più sola e più sguarnita, mi trovo a pensare che le parole che mi dissero quel giorno, e che ora non ricordo più, in realtà, sono ancora nascoste da qualche parte nella mia memoria e vivranno con me e torneranno, in qualche modo, nel caso dovessi averne bisogno.
Ne sono ancor più convinta dopo che, ieri, ho scoperto da dove è spuntato il curioso particolare di un sogno fatto qualche mese fa: l'avevo letto in un libro e poi, in apparenza, dimenticato. Ritrovandolo tra le pagine mi è venuta in mente una bella immagine che, se non sbaglio, è di Giovannino Guareschi: le parole volano, dicevano i latini. Volano, sì, ma non si volatilizzano. Restano da qualche parte. Forse là dove restano anche tutte le risate e le lacrime.
E' per questo che, nonostante tutto, nonostante non mi dia né la forza né la consolazione di cui avrei bisogno, credo ancora che da qualche parte ci sia una Parola che non muore e che contiene in sé tutte le altre. Quelle posate e profonde che mi hanno donato un giorno due uomini taciturni e, spero, anche le mie, molto più strampalate.

lunedì 26 agosto 2013

Tre galline a Senigallia

"Tre galline a Senigallia
fan pollaio, non si sbaglia:
tra il castello e il lungomare
stanno sempre a chiacchierare..."
(da una cartolina)

Perché Senigallia? Beh, a parte l’assonanza, perché ne avevamo sentito parlar bene anni fa, perché non c’eravamo mai state e ci si arriva in treno senza cambi; e perché è una città antica, con tanto di castello e, quindi, ha un’anima, nascosta dietro i chilometri di lungomare affacciati sulla sua “spiaggia di velluto”. Chilometri che ci siamo fatte per lo più a piedi, visto che la pensioncina che ci ha ospitato per l’annuale settimana di vacanze era, secondo la felice definizione di Costi, “lontana nel tempo e nello spazio”.
Nel tempo perché, inaugurata negli anni ’50, conservava ancora, oltre a qualche mobile d’epoca frammisto all'arredamento moderno, anche una cert’aria vintage: gestione famigliare, foto in bianco e nero alle pareti, niente bancomat né ascensore, menu unico (ben cucinato, a dire il vero), e a chiedere se, per favore, poteva dare un’occhiata a internet per motivi di lavoro, sempre Costi s’è sentita rispondere: “Va bene, ma fai presto e non disturbare mia mamma che dorme qui a fianco”.
Nello spazio perché distante tre chilometri abbondanti dal centro storico e dalla stazione. In compenso, però, era vicinissima alla ferrovia, i cui binari correvano lieti, dopo una fascia d’orti e giardini colmi di farfalle, a venti metri dal balcone della nostra stanza…
Se però vi siete fatti leggendo l’impressione che fosse un postaccio, no, non lo era affatto: pulito, ordinato e popolato da una colorita fauna d’avventori, che andavano dalla comitiva di arzille e ciarliere vecchiette in fuga da mariti, figli e nipoti, alle famigliole con pargoli piccoli, simpatici e non troppo distruttivi, alle coppiette stranamente assortite: una, di giovani, aveva un’aria garbata, non fosse per le manette che entrambi avevano tatuate sul polpaccio; mentre un'altra, di ultraquarantenni, era formata da una lei piena di problemi che sciorinava a getto continuo anche in spiaggia (eravamo vicini d’ombrellone) e da un lui che ascoltava rassegnato e silente e, ogni tanto, si faceva un pisolino nascosto dietro gli occhiali da sole.
I proprietari, lui marchigiano con un’espressione tra il gentile e l’inquietante, rasserenata da rari sorrisi, lei francese, con un delizioso accento e abbigliamento casual-sportivo indossato con una strana eleganza, hanno cercato di venirci incontro. Prima ci hanno fornito di un abbonamento all’autobus. Poi, quando abbiamo fatto loro notare che gli orari dei suddetti, oltre ad essere più difficili da decifrare di un codice del kgb, erano anche assolutamente aleatori, ci hanno dotato di biciclette. Vintage anche quelle, ovviamente: tre deliziose “Grazielle” grigie con sedili tutt’altro che ergonomici, una senza luci, l’altra con la sola luce davanti e la terza con la sola luce di dietro funzionanti e un solo lucchetto per chiuderle.
Un po’ con queste, un po’ acchiappando autobus a sentimento, ma più spesso a piedi sul lungomare (“Ma quanto è lungo 'sto lungomare!?” “Dai, pensate a quanto rassoda!”), abbiamo raggiunto la celebre “Rotonda”, bianca e protesa sul mare come nella canzone, e da lì, poi, il paese. Abbiamo visitato la Rocca roveresca, attraversandone scale e saloni in quasi perfetta solitudine, il Foro annonario con i portici occupati da localini sfiziosi, i Portici ercolani, il Palazzo del duca, dove c’era una bella mostra di foto, e persino una scuola, nella quale un paio di sale sono allestite a museo dove sono conservati banchi, libri, registri, sillabari e altri oggetti del tempo che fu. Una sera abbiamo dato la caccia a una mostra di Diabolik, sfuggente quasi quanto lui, perché sul volantino che la pubblicizzava, molto furbescamente, non era indicato il luogo…
Oltre a goderci un po' di mare ("Mmmh, è un po' insipido", ho commentato annaspando con la consueta malagrazia), una mattina bigia abbiamo preso due treni e raggiunto Genga, da cui partono le visite guidate alle grotte di Frasassi. Peccato che la stessa idea fosse venuta anche a metà dei bagnanti in vacanza sulle coste marchigiane e romagnole, e la fila per i biglietti formasse un lungo serpentone che si snodava entro il cerchio di bancarelle di cibo e chincaglieria varia più o meno a tema con il luogo.
Chiedo a un venditore: “Scusi, ma qui c’è sempre tutta questa gente?” “Eh, magari…” risponde lui. “Che cu… ehm, che curiosa coincidenza esser venute proprio oggi!” dico laconica e ritorno in fila, cercando di immaginare d’avere la pazienza di una stalattite, che cresce di un millimetro all’anno.
Le quasi due ore d’attesa, però, sono ricompensate dall’incredibile bellezza: cascate di pietra d’un bianco scintillante, colonnati, guglie, candelabri, forme d’un eleganza surreale che nemmeno il più visionario artista della Biennale di Venezia sarebbe capace d’immaginarsi, create nei millenni, immense eppure fragilissime, tanto che la guida, che fende la folla fuori ordinanza come una vigilessa (“Fermi! Avanti! A destra! Lasciate passare…”), non fa che ripeterci allo sfinimento di non toccare niente, perché basta il minimo strato di grasso presente sulla pelle delle dita per impedire all’acqua calcarea di continuare il suo lavoro e per far “morire” una concrezione. I laghetti sotterranei hanno una trasparenza mai vista altrove. La maggior parte delle formazioni hanno nomi simpatici: le stalattiti giovani si chiamano “bucatini”, le stalagmiti “candele” o “giganti”, ma la punta di pietra lunga svariati metri e pesante parecchie tonnellate che pende dall’alto di una volta è stata battezzata dagli speleologi “Spada di Damocle” e, in effetti, è molto meno rassicurante…
In un altro giorno di nuvole, vento e mare mosso divaghiamo a Pesaro. Nel tempo di arrivare un cielo turchese si apre sopra la casa di Rossini e il teatro che porta il suo nome e io mi trattengo a stento dal canticchiare pezzi del Barbiere di Siviglia, la prima opera della mia vita; mentre dobbiamo ridimensionare Costi, che, avendo scoperto che la rocca della città porta il suo nome, ne vorrebbe rivendicare il possesso e trasferircisi seduta stante. Nel pavimento del Duomo si aprono finestre di cristallo che permettono di vedere i due strati di mosaici sottostanti, quel che resta delle precedenti basiliche paleocristiane: sirene, colombe, leopardi e altre creature si fanno largo tra complicati intrecci vegetali. Nel selciato di Piazza del Popolo, invece, sono murate riproduzioni di documenti che ricordano l’applicazione in città delle leggi razziali. A Pesaro, infatti, c’era, e c’è ancora, una comunità ebraica. Con Dani che ci guida tra i bei vicoli del centro, staniamo la Sinagoga, purtroppo chiusa; ma dalle finestre s'intravedono gli stucchi del soffitto. Alle spalle del lungomare, corredato dagli inevitabili albergoni, stanno elegantissime ville liberty, tra cui quella in foto, progettata da Oreste Ruggeri. Il contrasto tra antico e moderno si fa parecchio stridente. Persino un garage malandato, che scopriamo essere il primo che, agli inizi del '900 cominciò a vendere le prime automobili Fiat in città, con le sue serrande scrostate azzurro-verdi e la formella in terracotta con auto d'epoca sopra l'ingresso, ha un suo fascino. E rivalutiamo, dopotutto la nostra pensioncina.
La rivalutiamo anche quando, al penultimo giorno di permanenza, mentre ci convinciamo a vicenda ad alzarci per fare colazione ("Dai che se no ci mangiano tutte le brioches!"), l'armadio e i letti si mettono a ballare: non è l'ennesimo treno, ma un terremoto; però, dopo tutti quelli che ci siamo sorbite l'anno scorso dalle nostre parti, non ci turbiamo nemmeno troppo e pensiamo che, infondo, siamo solo al secondo piano.
Come d'abitudine, ci siamo date ai consueti sport vacanzieri cioseschi. Dimenticate beach volley e racchettoni, sto parlando di lettura di libri più o meno seri (la povera Dani s'era portata anche delle bozze da correggere), cruciverba, sudoku, passeggiatine con i piedi a mollo in cerca di conchiglie, sassolini e altri oggetti ("Toh, guarda, una collanina di perline!" "To, guarda, un nastro per capelli" "Toh, guarda, un pupo meraviglioso che gioca con la sabbia... no, quello però non possiamo raccoglierlo e portarcelo a casa!"), oltre a un pochino di shopping (mia madre mi ha vietato di indossare in pubblico i leggins a rigoni bianchi e neri: li abbinerò a una maglietta e ne farò un pigiama) e a tanti gelati.
E così anche le vacanze 2013 sono state archiviate. Restano un poco di sabbia sul fondo delle valigie, lavatrici da fare e una manciata di foto e ricordi da condividere, se vorrete, con voi.


martedì 6 agosto 2013

Punti di vista

"L'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono."
(Protagora, nel Teeteto di Platone)

"Hai una casa in campagna?"
"Sì... per ora."
"C'è la piscina?"
"No."
Il bambino mi spalanca addosso un paio d'occhi celesti parecchio perplessi, ma non demorde.
"E quante camere ha?"
"Due, piccoline, e un soppalco."
Mi guarda ancora più stupito e io decido di rincarare la dose: "E non c'è nemmeno il riscaldamento, soltanto un camino e una piccola stufa di terracotta".
Il bambino è interdetto. Io lancio un'occhiata divertita a suo padre, che mi sorride.
In realtà lo capisco: per lui la casa in campagna è il villone settecentesco del nonno, con una serie infinita di sale, salottini e camere da letto, una cucina grande quanto tutta casa mia, soppalco compreso, giardino, orto, frutteto, laghetto e, chiaramente, piscina. E una famigliola di filippini a tenere in ordine il tutto, perché se no non ce la si fa. Quindi è logico che il piccolo sia stupito, perché ognuno di noi misura le cose col metro della propria personale esperienza. Lo dicevano già gli antichi greci: gente che ha scoperto più cose di noi secoli prima e con meno mezzi di noi e per i quali, come sapete, continuo a nutrire una notevole ammirazione.
Poiché, però, dalle mie parti le cose vanno un poco diversamente e i filippini della questione siamo io e mio padre, è una gran fortuna che la casa sia piccola anzi, quando bisogna ripulirla, tagliare l'erba e pagarci l'Imu, è fin troppo grande e mi ritengo già molto fortunata ad averla e la difenderò finché potrò, benché da sola possa fare ben poco; e non saprei che farmene di un villone del Settecento.
Beh, no, saprei che farmene. E anche di una piscina, soprattutto in questi giorni d'aria rovente e densa come un brodo che fendo in bicicletta alle tre del pomeriggio per tornare al lavoro; però non lo invidio il bambino e gli auguro di cuore che, se un domani dovesse capitare anche a lui di fare un tuffo in una realtà diversa dalla sua non si prenda una panciata, ma, dopo l'inevitabile stordimento, sia capace di adattarcisi senza troppi problemi...
E lo auguro anche a me perché, seppure da una diversa altezza, i tuffi fanno sempre un po' di paura a tutti. Figurarsi a chi non sa nuotare.
E poi non è vero che non ce l'ho la piscina: forse frugando in soppalco con un po' d'impegno posso riuscire a recuperarne una gonfiabile di un metro per un metro; non proprio olimpionica, ma insomma, che volete da me? Sono una gallina, mica una sirena!

martedì 23 luglio 2013

Galline & porcelli

Era da un po' che non si pubblicava una puntata della serie "Galline famose".
Poi stamattina sono entrata nella nuova libreria che mi hanno aperto (mannaggia!) a pochi metri dall'ufficio e che vende libri, cd e dvd sia nuovi che usati, e ne sono uscita, inevitabilmente, con un cd della mia ultima insana passione musicale (sto degenerando, tra un po' temo che comincerò a digerire persino l'heavy metal...) e con un librino di aforismi di Bruno Munari.
Sfogliandolo di soppiatto in ufficio ho trovato questa:

"L'uovo che stai mangiando
prima faceva parte della gallina.
Quanto c'è in noi
della gallina?
come sguardo
come modo di camminare
come comportamento?

Il prosciutto che stai mangiando
prima faceva parte del porcello.
Quanto c'è in noi
del porcello?
nel mangiare
nella traspirazione
nelle voglie?"

Capisco che l'associazione gallina & porcello non è granché lusinghiera, ma d'altra parte noi s'abita nella patria del prosciutto e, dunque, prendiamola con filosofia.
E chiariamo la nostra posizione citando un'altra lapidaria e arguta sentenza con cui l'amica Simona, molti anni fa, in un infame locale allora di moda tra gli adolescenti nel quale ci si poteva parlare da un tavolo all'altro con i telefoni, gelò un aspirante corteggiatore molesto: "Io cerco l'anima gemella, non l'anima porcella!"
Saluti di setole e piume...

mercoledì 17 luglio 2013

A naso

Giovedì scorso sapevo di stalla, sudore e vernice: un mix poco attraente, me ne rendo conto, ma io sono sempre poco attraente, anche in abito da sera, dunque non è un grosso problema, e poi ne valeva la pena.
Di stalla per lavoro, perché ogni tanto capita anche questo: dover andare a parlare con un'allevatrice per aggiungere una pagina a un sito; e che l'allevatrice abiti in un posto spersissimo d'Appennino di cui ignoravo l'esistenza, raggiungibile dopo un'ora d'auto e 800 metri di passione per una strada che, in teoria, doveva essere asfaltata, in pratica era una striscia minuscola di brandelli d'asfalto, sassi, fanghiglia e buche profonde tra la boscaglia; e il pensiero mio e di Dani, reclutata al volo come fotoreporter (grazie!) era uno solo: "E se incontriamo un'altra macchina?", sussurrato a mezza voce mentre io tentavo di convincere la mia di macchine a fingere ancora una volta di essere un fuoristrada.
Il pericolo d'incontro, in realtà, era piuttosto remoto, per fortuna, perché lassù, oltre alla stalla, c'erano giusto tre case abitate solo d'estate e un pugno di ruderi di edifici di pietra dal tetto d'ardesia, struggenti nella loro desolazione. E l'allevatrice era davvero una di quelle persone degne di essere incontrate, per le quali sono grata alla sorte o a chi per essa (e anche a Dani, ovviamente), di poter fare il lavoro che faccio e mi auguro vivamente che, nonostante la crisi feroce e i cambiamenti dolorosi (dietro il trasloco d'ufficio di cui vi parlavo, infatti, c'è una storia spiacevole che non me la sento di raccontare), io possa continuare a farlo ancora per un po'...
Comunque sia, la donna ci accoglie con una gonna a fiori, una canotta grigio-azzura sporca e sudata, ma in tinta con le scarpe e un largo bracciale di filigrana d'argento. Il tutto, posato su un fisico asciutto e abbronzato, occhi azzurri e capelli grigi tagliati cortissimi, le dà un aspetto sorprendentemente elegante. e anche il lungo rastrello di legno col quale porge il fieno alle sue vacche nelle sue mani ha qualcosa dello scettro o del pastorale. Ha uno strano accento e metà dei suoi animali hanno nomi francesi, così dopo un po' mi decido a chiederle da dove viene e scopro che è belga! Il nome però è italiano, allora la immagino figlia di emigranti che, ritornata al paese d'origine ha trovato l'amore e ha deciso di restare, ma lei chiude subito la parentesi e continua a parlare del suo lavoro e io non ho il coraggio di chieder conferma delle mie ipotesi.
E' dura esser timidi e pudichi quando si fa i giornalisti... per fortuna (o purtroppo?) io non faccio esattamente la giornalista!
Mentre ci aggiriamo per i recinti di vacche e vitellini, circumnavigando balloni e scavalcando cumuli di fieno che - dice la donna - il marito sa distinguere a occhio da quale campo vengano, pensiamo che spesso le persone più interessanti si nascondono nei luoghi più impensati. E ce ne andiamo felici di aver collezionato, noi che bene o male viviamo di parole, un'altra bella storia da ricordare e raccontare.
Di sudore perché faceva un caldo afoso persino su per i monti, tanto che, al ritorno, dopo aver colto tra gli alberi una visione del castello di Bardi sfocato per la foschia, siamo state costrette a una sosta tecnica in un bar di Varano sorprendentemente popolato di soli under 25, gestori compresi, che, vedendoci entrare, ci hanno squadrato sospettosi prima di servirci acqua e gelato, che ci hanno consentito di ritornare sane e salve in città.
Inutile dire che io, che normalmente sono una lucertola, quel pomeriggio il caldo lo sentivo più del solito perché, come ogni donnina all'ascolto sa, più ti aspetta un giorno impegnativo, più è probabile che ti capiti in uno di quei giorni...
Poiché ero arrivata a casa mezz'ora prima del solito e già in condizioni pietose, ho pensato bene di completare la giornata indossando un paio di braghette inguardabili e la storica maglietta del liceo e darmi il colpo di grazia ridipingendo di giallo un paio di pareti.
Ed ecco spiegato anche l'odore di vernice.
L'inevitabile conclusione della giornata? Ovvio: una doccia!
Saluti odorosi...

mercoledì 10 luglio 2013

Le vite degli altri

E' uno sport che a noi ciose, in genere, piace praticare sia in vacanza, sia quando si passeggia, specialmente nelle sere d'estate: sbirciare in casa d'altri.
Non è che siamo curiose... è che proprio ci viene naturale, quando ci piove dall'alto la luce di una finestra aperta, dare un'occhiata.
Ad attrarci sono, prima di tutto, le librerie (più grandi sono, più proviamo istintiva simpatia per gli ignoti proprietari), ma anche i non pochi soffitti affrescati che si scorgono nelle case del centro, meglio se corredati di ricchi lampadari, che ci fanno subito ballo in maschera con noi calate nell'improbabile parte delle Cenerentole col 38/39 di piede.
Ci piacciono gli stucchi e le tappezzerie vecchia Inghilterra, ma anche le camere minuscole, colorate e caotiche degli studenti universitari fuorisede, che ci parlano di una vita che noi non abbiamo provato e che forse ora, superati i trent'anni, ci accorgiamo che c'è mancata e che, forse, oggi saremmo meno paurose e più indipendenti.
Ci piacciono i portoni che s'aprono su stretti corridoi dai quali, anche nel più torrido luglio, sale un'ondata di umido e frescura dalle cantine, che ci vien facile immaginare antiche e misteriose; oppure le cancellate eleganti, da cui si scorgono scorci di giardini segreti nel bel mezzo della città.
E ci piacciono, ovviamente, le cucine, da cui scendono fino in strada un rassicurante acciottolio di stoviglie e odore di pietanze estere o nostrane da tentare di indovinare a naso; ma anche la musica nota o ignota, sia che provenga da un cd sia, meglio ancora, suonata dal vivo da qualche parte dietro una finestra che non riusciamo a individuare per via dell'eco che la fa rimbalzare da un lato all'altro dei borghi più stretti.
Ci piacciono, inutile dirlo, i fiocchi rosa e azzurri sulle soglie, che ci fanno pensare a una culla, a notti insonni e felicità.
Perché a sbirciare in casa d'altri ci si sente un po' meno sperduti e la città di case, strade e negozi diventa città di persone che, per quanto diverse e sconosciute, dopotutto, non sono poi tanto distanti da noi.
Ora a me questo sport viene particolarmente facile praticarlo, trasferita controvoglia a lavorare in una viuzza del centro, con il palazzo di fronte a quattro metri dalle finestre dell'ufficio.
Così, ogni giorno, vedo le scaffalature piene di faldoni di un altro ufficio; un grande letto con un lenzuolo bianco coperto di lettere nere come una storia d'amore da scrivere ogni giorno, e la scrivania piena di penne e di libri sottolineati di una studentessa, che mi ricorda tanto me stessa una decina d'anni fa e, osservandola, anch'io mi sforzo di sentirmi un po' meno sperduta.

mercoledì 3 luglio 2013

La migliore (s)offerta

Meraviglioso e terribile. Se non ricordo male i greci avevano un termine che significava entrambe le cose e che aveva a che fare con la stessa radice di luce/splendore: qualcosa che abbaglia e incenerisce, insomma.
Un po' così ci siamo sentite ieri sera uscendo stordite dalla visione di "La migliore offerta", in una tiepida serata all'arena dell'Astra, che con i suoi magnifici oleandri e scomode sedie è un must dell'estate parmigiana.
Che non sarebbe andato a finire bene lo sospettavamo: io, forse, costituzionalmente pessimista, un po' più di Dani e Antonella, l'amica palermitana "acquistata" al corso di ginnastica posturale.
Che sarebbe finito come è finito ci siamo arrivate forse pochi istanti prima che succedesse, perché anche noi, dopotutto, ci eravamo lasciate trasportare nell'inganno e c'eravamo cadute con tutti e due i piedi, come il "povero" Virgil.
E bravo Tornatore, che, dopo averci lasciato molto perplesse con Baarìa (anche allora le ciose presenti erano uscite dal cinema un tantino sconvolte, ma in una maniera del tutto diversa), qui mette in piedi un meccanismo intricato e intrigante, come l'automa la cui costruzione prosegue per tutto il film.
Eh sì, perché chi di noi, gentili fanciulle, poteva restare indifferente alla storia del vecchio battitore d'aste misantropo, che affronta il mondo in punta di guanti, tocca a mani nude soltanto le opere d'arte e ama solo le donne dipinte il quale, pian piano, si trasforma in una specie di improbabile cavaliere che cerca di stanare la principessa misteriosa rinchiusa nella sua villa-torre d'avorio?
Villa che è anche labirinto, prigione, museo con le sue stanze affrescate, mobili e quadri antichi, soffitte, solai e inevitabili passaggi segreti: inquietante e affascinante nella sua polverosa decadenza.
Accanto ai due protagonisti, dalle vite decisamente fuori dal comune, ruotano quelli che potrebbero essere gli amici "normali": il meccanico-orologiaio-restauratore donnaiolo con bella fidanzata al seguito, che gli dà lezioni di seduzione, e il vecchio compare, pittore fallito, che acquista per Virgil alle sue stesse aste i quadri per la sua collezione. Potrebbero essere, ma non sono...
E tutto precipita verso il dolorosissimo inganno finale che, inevitabilmente, porta alla follia e proprio da una piccola folle-sapiente viene alla fine svelato.
Perché tutto si può fingere, anche l'amore.
Grazie, lo sapevo già. E non so se averne avuto anche una conferma cinematografica sia un bene o un male...
Però nel falso resta sempre qualcosa di vero.
Ecco, questo è bello crederlo, anche se, purtroppo, non basta.

domenica 23 giugno 2013

Zute dunje

E' la seconda volta che do a un post un titolo in una lingua che non conosco. La prima era colpa di un fumetto e di una città, stavolta è colpa di un libro e ancora di una città.
Là erano arabo e Venezia, qui sono bosniaco e Sarajevo. Significa "cotogne gialle" ed è il titolo di una canzone, ma anche di un libro "La cotogna di Istambul" e di uno spettacolo.
Dell'autore, invece, vi ho già parlato a sfinimento, è il solito Paolo Rumiz, ascoltato giovedì sera assieme alle rondini che planavano basse sfiorando la facciata di San Francesco del Prato, la chiesa che fu carcere, ed ora è un luogo perduto, affascinante come quelli che a lui piace raccontare.
Ho ancora il dubbio che questa non sia, dal punto di vista letterario, la sua cosa migliore, ma è senza dubbio la "sua" storia, in gran parte - chissà quanta? - autobiografica. Una storia che, davvero, gli "mangia l'anima" e non finirà mai di ripetere. Infatti, dopo averla detta molte volte a voce agli amici, l'ha scritta, ma non in prosa, perché non gli sembrava rispettosa del ritmo e del fascino del racconto, ma in endecasillabi sciolti. Poi l'ha riscritta, correggendo gli errori, limando versi, per renderla sempre più simile al suo ricordo; e infine, di nuovo, s'è messo a narrarla nelle piazze, accompagnato da un manipolo di bravi musicisti, e lo fa con "occhi di ghiaccio e voce di fuoco, capace d'incantare ogni persona", che, tecnicamente, sarebbero quelli del protagonista del racconto, ma sono, evidentemente, anche i suoi, che qui si mette in gioco come autore, narratore e personaggio. E dunque merita rispetto e, mi viene da dire, compassione.
Perché la sua è una storia dolorosa che riprende il più classico e tragico dei binomi: "amore e morte". Parte da una leggenda, quella descritta nella canzone, che parla di una donna malata che chiede all'amato, per farla guarire, di portarle una cotogna da Istambul, ma il giovane non tornerà in tempo; poi si incarna nella realtà, dove accade qualcosa di simile, e di nuovo, diventa racconto.
L'amore di Max e Masa "dai femori lunghi ed occhi di ciliegia", si muove tra città che conosce e ama: Sarajevo ai tempi dell'"inganno sanguinoso" che qui chiamammo guerra, Istambul porta d'oriente e incrocio di razze e di storie, e una Vienna molto triestina col cielo attraversato da nubi-bastimenti cariche di voci dei trapassati. E anche i canti seguono lo stesso itinerario: slavi, greci, turchi, austroungarici.
Come sempre Paolo è un maestro a descrivere i luoghi per impressioni, che scavano dentro e mettono voglia di viaggiare solo per ritrovarle o poterle confrontare con le proprie provate nello stesso posto.
E alla fine, esattamente come in alcuni poemi medievali, ce la consegna la sua storia a patto che anche noi proviamo a riraccontarla, perché le parole non sono fatte soltanto per stare appiccicate ad un foglio, ma sono fatte anch'esse per viaggiare, perché nascono "dal ritmo del cuore, dal respiro e dal cammino": non sono solo uno strumento, sono, in qualche modo, la parte migliore della nostra anima.
Capirete che non fatico ad essere d'accordo con lui.
E oltretutto, lo devo ringraziare, non solo per le due ore di meraviglia che mi ha regalato, ma perché d'ora un avanti, ogni volta che mi capiterà di incappare in una cotogna, questa sarà per me molto più di un frutto: sarà il ricordo di una storia. Esattamente come a tutti noi viene facile con una mela in mano, partire per la tangente e arrivare da Adamo ed Eva (anche se il frutto, in realtà, in quel caso non è specificato) fino a Biancaneve passando per Paride ed Elena; così come non riesco a guardare un melograno con occhi neutri dopo aver letto il mito di Persefone e la bella tavola di La casa dorata di Samarcanda.
Perché siamo tutti affamati di senso, almeno quanto lo siamo d'amore.

mercoledì 12 giugno 2013

Corsi e ricorsi

"Caro Daniel, so che, in teoria, non potrei scriverti una lettera, visto che tu non esisti, però questa non è una vera lettera, ma il mio tema d'esame di terza media, quindi..."

Il figlio maggiore del capo oggi comincia l'esame di terza media con il consueto tema. E, poiché l'ufficio nel quale ci siamo da poco trasferiti è praticamente annesso alla loro casa, inevitabilmente, mentre lavoro me lo trovo accanto che fa prove Invalsi al computer e sottopone bozze di testi alle doppie forche caudine di suo padre e mie, poiché son stata richiesta di un parere esterno...
Mi rendo conto così che non ricordo nulla del mio esame di terza media, a parte l'attacco del tema: quello che, a spanne, vi ho citato sopra.
La consegna era, se non sbaglio, di scrivere a un amico riflettendo sul percorso di studi che si stava concludendo ed esprimendo sogni e progetti per il futuro.
E io, anziché scrivere a una persona reale, chissà perché, scelsi il mio migliore amico immaginario. Fu un clamoroso azzardo. Uno dei pochi della mia vita: sono troppo ansiosa per amare il rischio e l'improvvisazione; ma quella volta andò bene e l'alzata d'ingegno impressionò positivamente la commissione.
Non ricordo come proseguiva il tema, né che sogni avessi allora per il futuro: è passato tanto tempo.
Forse scrissi che volevo fare l'archeologa come il mio amico immaginario, che, oltretutto, non era un bambino, ma una specie di Indiana Jones (per il quale all'epoca stravedevo) più giovane, meno bellicoso e più sfortunato, ma altrettanto ironico e avventuroso.
Erano i primi anni Novanta e noi ragazzine si andava vestite con i fuseaux colorati (ne avevo uno strepitoso paio giallo!) e le maxi maglie, cantando canzoni degli 883 e di altra gente che oggi ci vergogniamo persino di nominare, ma che allora ci piacevano tanto e ci ricordavano belle estati adolescenziali.
Alt, ferma, stop! Aspettate un momento.
Io ieri mattina sono andata al lavoro esattamente con un paio di leggins (che altro non sono che i vecchi fuseaux redivivi e minimamente rivisitati dai corsi e ricorsi della moda) e con una lunga maglia (assai utile oggi a coprire magagne). E l'altra sera, scanalando a ora più che tarda, sono incappata in uno speciale dedicato proprio agli 883 per i vent'anni di carriera. Superato il trauma di vedere un Mauro Repetto quarantacinquenne, mi son resa conto che le canzoni ancora me le ricordavo, e, anche se non saranno capolavori, ancora mi fanno tanto estate.
Dunque, nonostante gli anni passati e le preoccupazioni acquisite, non molto è cambiato da allora, o, meglio, qualcosa, a volte, ritorna.
Anche gli amici immaginari? Chissà...
Comunque sia, Stefano, in bocca al lupo!

mercoledì 5 giugno 2013

Mani


"But touch my tears with your lips,
touch my world with your fingertips."
(Queen, Who wants to live forever)

"La carezza è un ponte tra due abissi di solitudine.
Perché il cielo e la terra passeranno, 
ma certe carezze non passeranno mai."
(Diego Cugia/Jack Folla, Alcatraz)

Va bene, confessiamolo subito così ci togliamo il pensiero: questo post ho cominciato a pensarlo mentre il fisioterapista, un giovane asciutto e occhialuto dai modi garbati e professionali, mi tastava la schiena, frugando il men peggio e il peggiore (come direbbe il solito "Guido") e io non ho potuto fare a meno di constatare, con il solito misto di ironia e amarezza, che nonostante i trentacinque suonati (molto suonati, of course), gli unici uomini che si son presi una certa confidenza con la mia pelle e quel che ci sta sotto son stati i medici. E non so se devo dire per fortuna (mi sono risparmiata attenzioni sgradite), o purtroppo.
Comunque sia, da lì son partita per uno dei miei soliti contorti viaggi mentali, che fan sì che io poi mi distragga e faccia cose come ieri mattina, quando, in arrivo trafelata al nuovo ufficio (dove non ho più l'uso cucina e ho a malapena quello del bagno), ho infilato il borgo sbagliato e ho tentato di scassinare un altro garage anziché quello del mio capo per tentare di parcheggiarci la bici...
Stavo dicendo che ho cominciato a pensare a quanto ci stiamo disabituando ad usare le mani (fa un po' rissa da bar, detta così...) nei rapporti con gli altri, se non per digitare messaggi su una tastiera.
E mi sono tornati in mente la bella immagine della canzone dei Queen e il pezzo del programma radiofonico di Diego Cugia che vi ho citato sopra.
Paradossale vero? Da una parte abbiamo le relazioni virtuali (non importa che siano d'amicizia o d'amore), relativamente semplici anche perché "incorporee" (ma che possono comunque far danno nella vita reale, come si è visto nella cronaca recente); dall'altra, un eccesso di, come chiamarla? esibizione di gesti forti ed espliciti talmente quotidiana che nemmeno i puritani (come me) ci fanno più caso, o quasi, e che, per questo, finiscono col diventare banali e insignificanti.
In mezzo a questi due estremi poco o nulla.
Ci siamo persi abbracci brevi e timidi, o lunghi e commoventi, carezze decise o poco più che sfiorate, mani che s'infilano al braccio di qualcuno o gli stringono appena un polso per guidarlo o lasciarsi guidare; mani a toccare il ginocchio della persona seduta accanto a noi: gesto fraterno, o allusivo, a seconda del conteso; mani calde sulla schiena o le spalle di qualcuno da consolare o a cui, semplicemente, far capire che gli siamo accanto, anche se non sappiamo esattamente spiegargli come o perché.
Ci siamo persi, con questi gesti, anche la capacità di dare una forma a tutta una gamma di sentimenti che stanno tra l'amicizia e l'amore, a cui già è difficile dare un nome, figuriamoci trovare una emoticon per rappresentarli!
Ci siamo persi la capacità di entrare in comunicazione con l'altro con discrezione, ascoltandolo anche con la punta delle dita e indovinando i suoi sentimenti.
Insomma, ci siamo persi le sfumature (non di grigio, per carità! ma di altri più intriganti colori).
E credo che questo in qualche modo abbia a che fare anche con l'eccesso di violenza che vediamo ogni giorno nei rapporti tra uomo e donna, ma non solo: perché tra l'indifferenza e l'amore folle troppo spesso si fa un solo unico balzo che, per forza di cose, ai più fa perdere l'equilibrio. E rende la vita molto difficile a chi sa benissimo di non essere tagliato per i grandi balzi. A me, per esempio...
Si tocca per afferrare e possedere, non per conoscere. Così, mentre crediamo di essere moderni e disinibiti, in realtà stiamo solo perdendo per strada la capacità di comprendere la complessità dell'altro (e anche la nostra), letteralmente "a pelle", senza bisogno che ce la spieghi l'esperto di turno, magari con un tutorial.
Lo stesso discorso, ovviamente, si potrebbe fare a proposito degli sguardi; ma per ora ve lo risparmio.
V'è andata bene...

PS: i due della foto si chiamavano Marcus Gratidius Libanus e Gratidia Chrite, immortalati nel gesto classico del matrimonio romano: la "dextrarum iunctio". La mano di lei sulla spalla di lui, però, è assai meno classica e molto più tenera.



martedì 28 maggio 2013

Ritorni (2003-2013)

"Mai mancante neve di metà maggio
chi vuoi salvare?
Chi ti ostini a salvare?"

(Andrea Zanzotto)

L'ho già detto, lo so: alcuni luoghi ci chiamano e ci appartengono più di altri, per ragioni che a volte è difficile definire.
Camaldoli è uno di questi. E fa quest'effetto a molti, evidentemente, se un manipolo di ex fucini più giovani di noi si sono inventati d'organizzare un convegno per avere una scusa per ritornare; e se uno di questi ex fucini ha deciso addirittura di rimanerci, facendosi monaco.
Di Emanuele, incrociato matricola alle "settimane teologiche" del 2004 e rivisto a Pisa, quando stava per diventare presidente nazionale, avevo perso le tracce, come di altri compagni di cammino di quelli che sono stati tra i migliori anni della mia vita. Ritrovarmelo davanti sorridente all'ingresso del monastero è stata una bella sorpresa e, diciamolo, un segno che anch'io lì dopotutto avevo lasciato qualcosa, che la storia non era ancora finita. Se poi ci aggiungete che ora il responsabile della foresteria, nonché maestro dei novizi, è un parmense, capirete che tutto torna. E anch'io non potevo non ritornare.
Dieci anni fa, come sapete, qualcuno si prese la briga di scrivermi una lettera - una lettera vera, di carta e francobollo - e di stanarmi fino in campagna per invitarmi ad andare lassù; dieci anni dopo è bastata una mail; ma è stato molto più difficile partire: oltre agli anni (e ai chili), sono aumentati gli impegni e le ansie; ma, nonostante tutto (compreso un feroce mal di gola), sono riuscita ad andare.
Certo, lo sapevo che non sarebbe mai stata la stessa cosa; non lo fu nemmeno l'anno dopo, se è per questo, benché sia stata comunque una bella esperienza (vero, Meg?).
Non c'era Chiara a prendermi per un polso ogni volta che mi perdevo per i corridoi e le scale del labirintico (e millenario) edificio; non c'era Vale, grazie alla quale tornai a casa portandomi dietro, oltre a una nuova amica, anche un vago accento veneto, che mi accompagnò per qualche giorno, lasciando i miei un po' perplessi. Non c'erano i nostri cavalieri milanesi e la loro arguta conterranea valchiria bionda, né la dolce Maria (che pure voleva venire) e... non c'è più nemmeno il Laurus color Tantum verde: ora è giallino, perché si son decisi a togliere il colorante, ma pare il sapore sia lo stesso, anche se, ovviamente, io non posso testimoniarlo.
Ad accompagnarmi (e a invitarmi) è stata stavolta Claudia, nove anni più giovane di me, per la quale spero di essere stata una compagna di viaggio almeno decente. Era lei a conoscere le organizzatrici, sue coetanee ed ex presidentesse nazionali; ma qualcuna delle persone che hanno nominato, ritrovandosi e riallacciando il filo dei ricordi, io pure le conoscevo e questo mi ha aiutato a sentirmi meno estranea.
Così, ancora una volta, mi sono seduta sulle alte sedie impagliate della sala del Landino, osservando perplessa e intirizzita un'inedita neve di fine maggio; mi sono riscaldata a suon di tisane col miele (sì, compresa la mitica melissa!); e ho stonato paurosamente tentando di cantare le ore canoniche con i monaci. Ho anche saccheggiato l'antica farmacia dalla quale, per fortuna, hanno tolto lo scheletro di donna che aveva, allora, la mia altezza e la mia età.
E ho ritrovato un po' di pace?
Ci speravo, ma temo di no: mi ci vorrebbe ben altro in questo periodo!
Però sapere che Camaldoli è ancora, e sarà sempre, un luogo dove tornare non da sconosciuti, è comunque una consolazione...

venerdì 17 maggio 2013

Abitiamoci


Le case sono entità bizzarre. Se non fosse eccessivo, sospetterei che abbiano un’anima o, per lo meno, un’identità. Ovviamente dicono molto delle persone, ma non è solo questo.
Mi piace pensare che vivano una vita parallela che può incrociarsi con la nostra per una vita intera (auspicabilmente), per molti o pochi anni o anche solo per i pochi giorni di una vacanza o le poche ore della visita a un amico. E alcune, come le persone, ci restano indelebili alla prima occhiata, mentre di altre ci dimentichiamo. Loro si adattano a noi e noi ci adattiamo a loro: si respira meglio in una casa dagli alti soffitti e dalle larghe finestre; ci si sente più protetti in certe casine piccine coi muri spessi e le travi di legno.
A volte invecchiano meglio di chi le abita, offrendo un punto fermo alle generazioni; altre volte peggio, creando grane agli sventurati proprietari, e vanno curate come e più di un bambino.
Hanno i loro rumori più o meno sinistri ai quali abituarsi (se la vostra ha problemi idrici vi sconsiglio vivamente di leggere “Una goccia” di Buzzati, se non volete farvi venire gli incubi…).
E  hanno un odore: un misto di mobili, libri, elettrodomestici, cibo, vestiti e, ovviamente, persone, che, però, dura a lungo anche dopo che queste ultime se ne sono andate.
Comunque la si prenda, cambiare casa è sempre una faccenda delicata e un tantino destabilizzante. Certo c’è chi, beato lui, si sente a casa ovunque e chi, purtroppo, in nessun luogo. C’è chi cambiando casa va in depressione, chi, persino, ci muore, come certi vecchi costretti al ricovero; e chi, dopo anni d’attesa, nella casa nuova riesce finalmente a farci un figlio che, evidentemente, voleva nascere lì e non altrove.
Disfare la casa di qualcuno che se n'è andato è una delle cose peggiori che può capitarti, perché mentre sei lì che prendi possesso con curiosità di cose non tue, pensi che anche delle tue capiterà la stessa cosa: che qualcuno getterà senza scrupolo, o quasi, oggetti che per te erano importanti e ne conserverà avidamente altri di cui non t'importava nulla. E non è un bel pensiero.
Da tempo ho la vaga idea che il desiderio di farsi una famiglia o, almeno, di metter su casa per conto proprio, nasca anche perché, con gli anni, la nostra vita cresce e non ce la facciamo più a contenerla tutta in una cameretta, che si va riempiendo oltre che di cose, anche di umori e ricordi che rischiano di soffocarci.
A pensarci bene, metter su casa è una bella espressione: fa un po’ chiocciola, o tartaruga: la casa è guscio e scudo; benché sappiamo che, all’interno di essa possono accadere le cose più orribili, proprio perché, sentendoci sicuri, ci togliamo la maschera che indossiamo volenti o nolenti in società, e quel che ne esce non è detto sia sempre migliore.
Sarà per questo che a me tutti questi giovani e meno giovani che vagolano per le strade ad ogni ora della notte in ogni giorno della settimana impegnati nella cosiddetta movida, a me, dopotutto, mettono tristezza, perché significa che dopo una giornata fuori per studio o lavoro non hanno cuore di tornare a casa, perché non ci si riconoscono; perché loro stessi e le persone che con loro la abitano hanno così poca anima da non essere capaci di regalargliene un po’ e renderla viva. Non sono capaci di abitarci. E così fuggono, fingendo di divertirsi a stare in piedi di notte con un bicchiere in mano davanti a un bar.
Sarà perché le serate più belle della mia vita le ho passate nella mia casa piena di amici o a casa di qualcuno. Sarà perché io alle case, a volte, mi affeziono quasi quanto alle persone.
Eh, Cri, andiamo, sinceramente, c'è qualcosa a cui non ti affezioni?
Ai malanni e alle sfighe, ovvio, ma loro mi s'affezionano ugualmente...
Comunque sia,tanto per non sbagliare, io la mia casa, nella quale ancora non so se riuscirò mai ad andare ad abitare, visto che le rogne e le spese pare si moltiplichino a giorni alterni, la saluto ogni volta che ci entro, calpestando polvere fine che mi s’attacca alle scarpe e annusando cemento.
Anche se non ho la più pallida idea di come metterci i mobili e mi raggela il pensiero di tutto quello che resta da fare e di non avere la forza di farlo, intanto cerco di farmela amica.
Non si sa mai…

mercoledì 8 maggio 2013

L'assenza

"Piovono petali di girasole, sulla ferocia dell'assenza" 
(P. Fabrizi - F. Mannoia, L'assenza)

Ormai lo sapete quanto m'intrigano gli strani incroci che saltano fuori quando si leggono cose molto diverse nello stesso periodo, dunque, portate pazienza.
Dice Safran Foer, nel suo tanto strampalato quanto fortunato (forse le due cose sono collegate?) "Ogni cosa è illuminata",  che "scrivere è una seconda occasione" e che "l'origine di una storia è sempre un'assenza".
Mentre la Tamaro, nella sua autobiografia alquanto ansiogena "Ogni angelo è tremendo", afferma che "tutti i miei libri perlustrano i territori dell'inquietudine e dello smarrimento"; e che "soltanto nel momento in cui si accetta l'inquietudine come dato fondante, si entra davvero nell'umanità".
Entrambi i libri, ovviamente diversissimi, sono, infondo, dolorosi viaggi nella memoria, alla ricerca delle origini, l'uno condito di ironia e surrealismo a tratti un po' fastidiosi (almeno per me), l'altro purtroppo, si prende fin troppo sul serio.
Entrambi gli autori, diversissimi (se si fa eccezione per la comune tradizione ebraica), hanno, però, un'idea non troppo dissimile della scrittura (e della lettura), che da una parte scava e dall'altra colma, che nasce da un disagio e ne è, in qualche modo, anche una possibile cura.
Non è, insomma, puro esercizio di stile ma, in un certo senso, un modo per sopravvivere.
Sarà per quello che a me piace tanto?

lunedì 29 aprile 2013

Là dove lo "gnocco fritto" suona

Come fare ad accorgersi che si sono varcati i confini della provincia di Parma per inoltrarsi in quelli di Reggio Emilia o Piacenza?
Semplice: basta leggere i menu delle trattorie: se ti propongono gnocco fritto anziché torta fritta hai fatto il salto. Per il resto, per le strade basse di campagna, attraversando paesi e periferie, si respira la stessa aria di pianura agricolo-industriale e ci si perde più o meno per le stesse rotatorie, fiancheggiate da campi d'un verde luminoso, in una rara giornata di sole di questa primavera avara.
Piacenza è bella, la mattina del 25 aprile, sotto un cielo turchese, con piazza Cavalli colta nel pieno delle celebrazioni. Ho in mano una guida rossa del Touring, recuperata fortunosamente in cantina prima di mettermi in viaggio. Un carabiniere in servizio ci si avvicina e attacca bottone. Evidentemente abbiamo scritto in fronte "Turiste". Chiede se per caso stiamo cercando la chiesa di San Sisto, che nessuno trova. Confessiamo candide di ignorarne l'esistenza e che, in realtà, stiamo cercando la galleria d'arte moderna, ma, già che ci siamo, ci facciamo spiegare entrambe le strade (dimenticandocele cento metri dopo, ma questa è un'altra faccenda...).
Evitiamo di dirgli che anche della (bellissima) Galleria Ricci Oddi, che ci si rivela luminosa di meraviglie italiane e straniere dalla fine dell'Ottocento alla metà del Novecento, abbiamo appreso l'esistenza meno di tre ore prima, cercando su internet "Piacenza-mostre" e scoprendo che, quella mattina l'entrata era gratuita; ma i viaggi migliori, ormai lo sappiamo, funzionano così: sono loro che fanno te, non viceversa, come direbbe il solito Rumiz.
Dani ritrova con gioia e sorpresa persino un Carl Larsson, a me ignoto, ricordo delle sue scorribande nordiche; io ritrovo con commozione un'intera parete di tele di Amedeo Bocchi.
Dopo pranzo torniamo verso la macchina e scopriamo che l'enorme edificio accanto al quale l'abbiamo parcheggiata è nientemeno che Palazzo Farnese. Somiglia alla nostra Pilotta e, in effetti, anche quello è zeppo di musei. Tempo per visitarli non ce n'è, ma ci infiliamo ugualmente in un paio di sale alle cui pareti si racconta la storia della Madonna Sistina di Raffaello (ora a Dresda), quello con i celeberrimi angioletti, e scopriamo - con vergogna - di non avere mai saputo, noi, "cugine parmigiane", che era stato dipinto per una chiesa di Piacenza, ovviamente proprio quella San Sisto che ci aveva nominato il carabiniere la mattina. Ormai non possiamo sottrarci: quella chiesa va vista!
La troviamo percorrendo borghetti semideserti nella controra festiva, ed effettivamente meritava una visita. Poi puntiamo verso gli Appennini. Azzecchiamo dopo minimi, direi fisiologici, smarrimenti, la Valtrebbia e costeggiamo il fiume verde-grigio e impetuoso su fino a Bobbio: la troviamo colma di motociclisti, camperisti e famigliole in gita che fan su e giù sul Ponte Gobbo e per le vie del centro. Anche qui ci perdiamo per borghetti ancora più stretti alla ricerca di una chiesa. La chiesa! L'abbazia di San Colombano che, in realtà, ci delude un po': i secoli e rimaneggiamenti l'hanno resa un po' estranea a se stessa, ma nella cripta, al cospetto della tomba del monaco irlandese che fondò monasteri in Francia e in Italia, pensiamo che il Medioevo non era poi così buio e l'Europa, forse, un concetto meno astratto di quanto sia ora.
Scendiamo dai monti maledicendo le buche (e la scarsa ammortizzazione della mia auto) e ci immettiamo di nuovo sulla via Emilia, ancora perfettamente orientata est-ovest, tanto che il sole ormai basso ci occhieggia dallo specchietto retrovisore.
E anche questo 25 aprile la nostra gitina ce la siamo fatta, nonostante tutto...