Diciamo la verità: non ci siamo amati molto nei cinque anni in cui ci siam visti sei mattine su sette, da settembre a giugno, e io avevo dai sei agli undici anni e tu qualcuno in più dei miei genitori.
Non mi piaceva la tua arrendevolezza nei confronti delle madri che, a differenza della mia, facevano la voce grossa quando sgridavi i loro figli e, di conseguenza, la disparità di trattamento che riservavi ai miei capricci e ai loro; non mi piaceva che mi prendessi in giro quando piangevo per un nonnulla, anziché consolarmi e, forse, qualche volta, mi annoiavi anche un po' con la tua voce sottile e monocorde…
Però, a distanza di anni, devo ammettere, maestro, che non sono stata un'alunna facile: alternavo rabbia e lacrime, paura e caparbietà e non ero agevole da maneggiare. Non lo sono nemmeno ora, benché da molti anni cerchi di smussare gli spigoli più odiosi del mio carattere.
Era praticamente impossibile convincermi a smettere di parlare o disegnare o ritagliare - anziché ascoltare le tue lezioni - fintanto che non avevo finito di dire o fare quel che stavo facendo. Dopo - e solo dopo - me ne stavo buona e attenta come volevi tu.
Durante le ore di scuola ho costruito teleferiche di spago per mandare bigliettini agli amici seduti nelle file dietro, ho giocato a flipper con le biro e le palline di stagnola, ricavate dall'involucro dei panini che mio padre preparava per merenda; ho realizzato fondali per spettacoli di burattini incollando tra loro con lo scotch i fogli di quaderno; mi sono persino spostata con tanto di banco e sedia in fondo all'aula, assieme a quello che è stato, per un paio d'anni, il mio migliore amico: bisognava davvero essere meravigliosamente ingenui per immaginare che tu non te ne accorgessi, però, in quel caso, devo riconoscerlo, hai fatto finta di niente, e te ne sono grata.
Soprattutto, però, ti sono grata per avermi insegnato a scrivere.
Lo so che era semplicemente il tuo dovere, compiuto per anni per centinaia di bambini e, diciamolo, con correttezza, ma senza brillare d'entusiasmo. Però, per me, è stato un dono grandissimo.
Me ne rendo conto ora, quando ti incontro invecchiato e incurvato, con la voce ancor più sottile e tremante, ora che sono più alta di te, che sei sempre stato un omino minuto: un sarto mancato sceso in città dagli Appennini per studiare e trovare un posto fisso, quando era ancora possibile. E, soprattutto, me ne rendo conto quando, un volta all'anno, in questo periodo, mi chiedi un articolo per il giornalino parrocchiale e io, dopo averlo imbastito ad ore improbabili della notte, te lo mando via mail sperando che abbia un senso e pregandoti, per favore, di correggerlo.
Quasi quasi m'immagino che me lo rimandi indietro con annotazioni rosse e blu e un voto in fondo alla pagina, come quasi trent'anni fa. E provo ancora la stessa trepidazione di allora. A essere sinceri, la provo ogni volta che mando a qualcuno qualcosa che scrivo, o che pubblico qualcosa qui o altrove. Perché per me la scrittura è molte cose: un lavoro, che mi permette di avere un seppur magro stipendio facendo qualcosa che amo e per cui ho studiato (il che, di questi tempi, non è poco!); è un supporto alla mia pessima memoria, che si nutre di appunti e post-it, e un grimaldello per la mia timidezza. Infine, inutile dirlo, è uno sfogo, un rifugio, un passatempo, una consolazione.
Allora grazie, maestro, davvero, per ogni singola lettera, sillaba e parola che mi hai insegnato, per ogni racconto e per ogni poesia che mi hai fatto leggere e imparare a memoria (qualcuna me la ricordo ancora!), perché mi hai dato gli strumenti con i quali posso anch'io tentare, alla meno peggio, di procurarmi la mia dose quotidiana di bellezza e libertà.
venerdì 13 dicembre 2013
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