lunedì 29 agosto 2011

La città delle parole che cantano

"Le parole prima cantano, poi dicono qualcosa" (Marco Paolini, Il milione, Campo S. Trovaso, 25 agosto 2011)

Ormai è inutile negarlo: questo per me, Dani e Costi è l'anno di Venezia. E di Paolini, d'accordo, ma stavolta non è tutta colpa mia. Ammetto di aver sobbalzato quando ho letto che avrebbe rifatto, dopo 13 anni, il mio spettacolo preferito nei luoghi ai quali è dedicato; e ammetto anche di aver inoltrato immediatamente la notizia. Ma solo quando mi sono sentita rispondere "perché no?" anziché esser mandata a quel paese, ho cominciato a crederci anch'io. Dani ha preso i biglietti, Costi ha fermato una stanza dalle sue suorine, e io mi sono limitata a trovare un bed & breakfast che ci permettesse di trasformare la fuga in qualcosa di simile a una vacanza. Poi le cose, come pare inevitabile ogni volta che ci muoviamo, si sono maledettamente complicate, tanto che, fino a poche ore prima del treno non sapevamo in quante saremmo partite e quando tornate. Poi per fortuna siamo state tre per tutti e quattro i giorni previsti.
Arrivate nel tardo pomeriggio del 25, oltre allo spettacolo, siamo persino state ammesse alla "conversazione" precedente, tra artigiani che disquisivano della forma delle forcole, noi, che a malapena abbiamo guidato un pedalò! Ci hanno invitato (e aiutato) a sedere sulle barche ormeggiate di fronte allo squero ombroso e silenzioso: io e Costi su una caorlina, l'avventurosa Dani su un sandolo. E' deliziosamente bello imparare i nomi di questa città, che parla una lingua sua anche quando non usa il dialetto. Nella sera caldissima, sedute sui masegni del campo (a seguito, sospettiamo, di un raro caso di overbooking teatrale), queste parole ce le siamo lasciate dire volentieri e, nei giorni successivi, ci siamo scoperte a ripetercele (non solo io, vi giuro), nel nostro vagabondare e a trovarle vere. Anche noi - come ha affermato il nostro durante la conversazione, perdendo per un attimo la sua aria torva (ma fascinosa: l'ha detto Costi!) - abbiamo vissuto a lungo sull'onda di un'emozione; perché è inutile: al di là della loro bellezza, che può anche essere oggettiva, siamo noi che diamo senso alle cose, caricandole di ricordi e aspettative. Così abbiamo sorriso a ogni barca da trasporto che incontravamo, ricordandoci del Gatto e del suo "mototopo", abbiamo letto su un campanello il cognome "Sambo", proprio come il misterioso personaggio che guida Marco nella sua "Odissea in Iliade", e sentito due anziani cantare la stessa serenata cantata da lui.
Il giorno dopo abbiamo deciso d'andar per isole, vergognandoci un poco d'intrupparci nel "triangolo delle bermuda del turismo mondiale". Forse è per questo che a Murano non siamo riuscite a vedere la classica dimostrazione della lavorazione del vetro; in compenso a Burano, dove Dani non era mai stata e io e Costi siamo tornate volentieri, siamo riuscite a cogliere il momento in cui, terminata l'orda amata-odiata, gli abitanti, pian piano, si riappropriano della città. Vecchietti uscivano sostenendosi a coppie per la loro passeggiatina, robuste signore piazzavano sedie nei campielli per conversare al fresco.
Sabato abbiamo passato una mezza giornata a prenderci in giro pensando che, tra le nostre mete, era previsto un pellegrinaggio alla chiesa delle Zitelle alla Giudecca. L'abbiamo trovata chiusa. Dite che è un buon segno? Forse sì, visto che, a San Giorgio Maggiore, appena entrate a visitare una mostra d'arazzi antichi e moderni, collaterale alla Biennale, una guida ci chiesto da dove venivamo e ci ha detto - testuale - che avevamo dei visi dolcissimi (a me è venuto in mente Tiziano Scarpa quando parla dell'espressione dei "serenissimi" veneziani, storditi dalla bellezza che li circonda ogni giorno: forse basta un giorno a ridursi così); mentre al piano di sopra un'altro ci ha permesso di camminare a piedi nudi sulle opere d'arte...
Il Lido, che all'inizio ci era parso quasi romagnolo, ci ha regalato scenari oceanici e letterari: la spiaggia poco affollata era spazzata da un vento caldo, che sollevava nuvole di sabbia dorata oltre le file delle cabine dal sapore primonovecentesco, fino a lambire lo scheletro del Grand hotel des bains, quello di "Morte a Venezia". Abbiamo attraversato controvento il cantiere della mostra del cinema che s'aprirà tra pochissimo, tra operai indaffarati e bagnanti, in un'atmosfera vagamente surreale. A sera, alla Giudecca, ci siamo dovute "accontentare" della chiesa del Redentore, sbirciata con discrezione durante un matrimonio, e di una messa in Sant'Eufemia, abbassando di colpo la media d'età dei partecipanti. Osservando enormi navi da crociera di ogni parte del mondo attraversare lentissime il bacino, abbiamo scoperto di non invidiarne troppo i passeggeri. Ci siamo concesse una passeggiata notturna in una piazza San Marco poco affollata e con un principio d'acqua alta. Nelle pozzanghere nere si riflettevano lampioni e marmi dei palazzi, mentre una coppia elegantissima di stranieri improvvisava un tango davanti al Florian.
Ci siamo tornate la mattina dopo e pareva un altro mondo. Ma noi siamo entrate in Palazzo Ducale dall'uscita, dove una mostra di Monika Bulaj (fotografa innamorata dell'oriente che, guardacaso, ha lavorato anche con Paolini) ci ha riportato subito altrove. A farci tornare coi piedi per terra c'ha pensato l'ansia del ritorno, che ci ha tolto energia e ha reso più complessa la digestione del nostro pranzo a base di "cicchetti". Abbiamo provato a perderci per strade nuove, per vedere ancora qualche angolino da ricordare e ci siamo infilate in tutte le chiese che incontravamo lungo il percorso incappando in Tiziani e Tintoretti. Poi, strette con le valigie sul vaporetto affollato di tutte le lingue, abbiamo ascoltato emergere a tratti, morbida e invitante, quella di chi rimane. Sul treno eravamo silenziose: stanche certo, ma anche svuotate e malinconiche.
E stanotte io, piantata di nuovo in mezzo alla pianura padana, nella mia città che amo e in cui mi riconosco, ho sentito che mi mancava l'acqua sotto i piedi. Certo non basta questo a farci promuovere da turiste a viaggiatrici, ma è comunque una bella illusione...

giovedì 18 agosto 2011

Quattro a Sesta in prima


Sì, dai, quest'anno per ferragosto diamo i numeri! Non si spiegherebbe altrimenti con che coraggio mi sia fatta 10 km di sterrato con la mia auto, che non è esattamente un fuoristrada, con tre persone consenzienti a bordo.
Ma procediamo con ordine (sparso). Per la tradizionale gitina del 15 abbiamo deciso di fare un percorso artistico-letterario nei nostri Appennini.
A Sesta, il rifugio-atelier di Walter Madoi, si arriva con una svolta secca poco prima di Bosco di Corniglio, su per una stradina stretta e ripida da percorrere rigorosamente in prima - come ha osservato Dani - soprattutto se in macchina ci sono tre ciose e un'amica (Antonella) con tutto l'occorrente per un lauto picnic.
Il paesino è un grumo di case piccole con finestre piccole, d'alta montagna, affacciate su viuzze piccole, cortili stretti o orticelli ben curati. Sui muri quel che resta degli affreschi coi quali, negli anni '60, il pittore cercò di far diventare famoso il suo paese d'elezione. Alcuni sono andati perduti, altri sono stati restaurati l'anno scorso, ma i più impressionanti sono, senza dubbio, quelli della chiesa: una crocefissione colta nell'attimo in cui il cielo si oscura e si scatena la tempesta. Tutti i personaggi hanno i volti dei paesani, tranne Cristo (per rispetto) e i due ladroni (per vergogna). Maria, ai piedi della croce, è un'anziana donna livida, in fin di vita. Posati nel transetto ci sono alcuni cartoni a carboncino, molto belli. A sinistra, seminascosto, il ritratto del pittore, avvolto in un mantello come nell'affresco del Corpus Domini. Nel praticello della chiesa una comitiva di villeggianti ha installato un tavolo e si prepara al pranzo, così anche noi decidiamo che è ora di trovare un posticino comodo. Ci sistemiamo in un campo falciato da poco, appena fuori dal paese, e ci mettiamo un po' a estrarre dalle borse le vettovaglie... Un plauso particolare va alle torte salate di Costi e alla torta Susanna di Dani. Dopo una pennichella en plein air, mi tolgo una piccola soddisfazione: risalire, dopo anni, in cima a un ballone di fieno. E' comodo e profumato come lo ricordavo.
Raccattato tutto quello che avevamo sparso decidiamo di andare a prendere il caffé sui laghi. Arrivate ai Lagdei, pareva d'essere a Rimini. Proseguiamo per i Lagoni: la strada è invitante: tutta immersa nel bosco, peccato sia sterrata! Ma ormai che siamo in ballo... balliamo. Letteralmente: visto che la Opel non abbonda in sistemi d'ammortizzazione. Mi tranquillizzo vedendo che, parcheggiate lungo il percorso, oltre a jeep e suv, si vedono anche modeste utilitarie: se sono arrivate fin qui, posso farlo anch'io! Mi tranquillizzano un po' meno i discorsi di Dani e Co, assidue dei "Giardini della paura" (vedi post del 15 luglio 2010), che non fanno altro che rievocare truculente scene di un film horror ambientato, ovviamente, in un bosco. Raggiungiamo polverose la meta. C'è meno gente (chissà perché) e al rifugio troviamo una vignetta di Fogliazza e un murales di Madoi (toh, chi si rivede!).
Vogliamo raggiungere la Casarola di Bertolucci, e la via più breve prevede altro sterrato. Lo affrontiamo impavide, shakerando il caffé. Valichiamo persino un passo a 1100 metri e arriviamo sotto la pioggia, immancabile nelle nostre gite, ma, per fortuna, passeggera. Casarola e Sesta si somigliano: case antiche, di sasso, in salita, legna già accatastata nei cortili. Qui, però, sui muri, al posto dei dipinti, versi di poesia.
Una signora esce di casa per attingere acqua alla fontana col tetto d'ardesia. Da una stalla una vecchia con il fazzoletto in testa e un forcone in mano ci chiama: ha voglia di fare due chiacchiere e ci indica la casa di Attilio. Spiove. Dal recinto della sua stalletta spunta il muso di un asino smunto. Troviamo la casa e ci giriamo intorno, calpestando susine bianche e nere cadute dagli alberi. C'è un senso d'abbandono ordinato. Pare d'essere in un altro tempo. Torniamo nel nostro al solito modo: facendo merenda sedute nella pensilina delle corriere. Non è una pensilina qualunque: è in legno e pietra e c'è persino una piccola fioriera. Scendiamo a valle in controluce, osservando con piacere che la montagna è ancora viva: schiviamo ciclisti della domenica (anche se è lunedì), famigliole a passeggio e anziani intenti a conversare sulle soglie di casa, pericolosamente in mezzo alla strada: le intruse, dopotutto, siamo noi. Le paline per la neve ci parlano di lunghi inverni. Poi spariscono e comincia, inesorabile, la linea dei salumifici: è Langhirano. Siamo arrivate. Anche ferragosto è passato e, come dice Costi, "Dopo è già Natale"... Accidentaccio!
PS: Scusate, ma quando pubblico più foto ho problemi d'impaginazione...

lunedì 8 agosto 2011

Metafore

Avete presente la faccia di Massimo Troisi nel Postino quando Noiret-Neruda gli comunica che ha fatto una metafora. Ecco, quella.

Domenica mattina. Esco dalla mia camera con addosso un'informe tuta lilla riadattata a pigiama, un occhio chiuso e uno aperto e la vitalità di uno zucchino, e questo è ciò che mi capita di sentire appena sveglia.
Mamma: "Che tempo fa?"
Papà, appena rientrato: "C'è un cielo musulmano."
Mamma, lievemente perplessa: "Come, scusa?"
Papà, convinto: "Eh, sì: è VELATO!"
Che faccio? Lo bacio in fronte o me ne torno a letto?

PS: Aggiungo una postilla che non c'entra nulla, o quasi. Venerdì sera sono andata per l'ennesima volta alla festa del paesuccio di campagna, quello dove sta la casa evocata nel post del 14 luglio. Finito di cenare sono andata a sbirciare in cucina, dove ho visto facce note di cuochi-volontari troppo indaffarati per riconoscermi e facce ignote di giovani camerieri-volontari che non erano nemmeno nati quando io stavo esattamente al loro posto. E ho provato la fortissima tentazione di infilarmi anch'io una maglietta rossa dello staff, imbracciare un vassoio e ricominciare a girare tra tavoli e panche a distribuire tortelli, grigliate e le inafferrabili patatine fritte ("guardi, c'è da aspettare qualche minuto..."); sorridere e scambiar battute con perfetti sconosciuti ritrovando una leggerezza che mi stupiva allora e che oggi temo di non possedere più. Neppure d'estate.

giovedì 4 agosto 2011

Amarcord...

Dove eravamo 10 anni fa? Forse ai piedi della Presanella, stordite di fatica e di meraviglia; o dall'Ortensia, a consolarci con uno strudel "king size" del tempo incerto; o forse, più probabile, a trasformare in un salotto ciarliero i letti a castello della scuolina di Ortisé, riadattata a casa per vacanze. Purtroppo non ricordo le date precise. Non le ho segnate nemmeno nel retro delle fotografie, tirate fuori per l'occasione dal fondo di un cassetto. Sarebbe bello sapere esattamente il giorno e l'ora in cui Francesca, nel mezzo dell'ennesima sessione di chiacchiere, buttò lì la fatidica frase "Siamo proprio delle ciose!" che fu, di fatto, la nostra data di nascita. Ma va bene così, anche perché qualcuna s'è aggiunta dopo, con qualcuna ci conoscevamo già da prima e non è il caso di andare a cercare... il pelo nell'uovo. Di sicuro erano i primi d'agosto del 2001 e quelle chiacchiere, condite, ammettiamolo, da qualche pettegolezzo, ci hanno permesso di conoscerci e di riconoscerci simili, di scoprire passioni e valori in comune, che, una volta tornate, abbiamo approfondito nel modo migliore: ovvero ritrovandoci a tavola, in una lunga serie di "cene delle ciose". Poi sono venute le vacanze al mare, a chiederci che ci facevamo noi tra la folla di vamp e discotecare d'assalto, ma nonostante tutto, a divertirci. E poi gite, compleanni, matrimoni, battesimi e tanti altri momenti condivisi, non solo di felicità, ovviamente, ma anche di amarezza e solitudine. Se no le amiche che ci stanno a fare?
Oggi che abbiamo 10 anni di più sulle piume, e molti più impegni sulle spalle, si sono purtroppo diradate le occasioni per stare insieme, strappate con becco ed artigli agli impegni di lavoro, alla famiglia, ai mariti e morosi più o meno rassegnati e consenzienti. Eppure siamo ancora qui, faticosamente e gioiosamente, a celebrare il nostro primo decennale...
AUGURI!