domenica 23 giugno 2013

Zute dunje

E' la seconda volta che do a un post un titolo in una lingua che non conosco. La prima era colpa di un fumetto e di una città, stavolta è colpa di un libro e ancora di una città.
Là erano arabo e Venezia, qui sono bosniaco e Sarajevo. Significa "cotogne gialle" ed è il titolo di una canzone, ma anche di un libro "La cotogna di Istambul" e di uno spettacolo.
Dell'autore, invece, vi ho già parlato a sfinimento, è il solito Paolo Rumiz, ascoltato giovedì sera assieme alle rondini che planavano basse sfiorando la facciata di San Francesco del Prato, la chiesa che fu carcere, ed ora è un luogo perduto, affascinante come quelli che a lui piace raccontare.
Ho ancora il dubbio che questa non sia, dal punto di vista letterario, la sua cosa migliore, ma è senza dubbio la "sua" storia, in gran parte - chissà quanta? - autobiografica. Una storia che, davvero, gli "mangia l'anima" e non finirà mai di ripetere. Infatti, dopo averla detta molte volte a voce agli amici, l'ha scritta, ma non in prosa, perché non gli sembrava rispettosa del ritmo e del fascino del racconto, ma in endecasillabi sciolti. Poi l'ha riscritta, correggendo gli errori, limando versi, per renderla sempre più simile al suo ricordo; e infine, di nuovo, s'è messo a narrarla nelle piazze, accompagnato da un manipolo di bravi musicisti, e lo fa con "occhi di ghiaccio e voce di fuoco, capace d'incantare ogni persona", che, tecnicamente, sarebbero quelli del protagonista del racconto, ma sono, evidentemente, anche i suoi, che qui si mette in gioco come autore, narratore e personaggio. E dunque merita rispetto e, mi viene da dire, compassione.
Perché la sua è una storia dolorosa che riprende il più classico e tragico dei binomi: "amore e morte". Parte da una leggenda, quella descritta nella canzone, che parla di una donna malata che chiede all'amato, per farla guarire, di portarle una cotogna da Istambul, ma il giovane non tornerà in tempo; poi si incarna nella realtà, dove accade qualcosa di simile, e di nuovo, diventa racconto.
L'amore di Max e Masa "dai femori lunghi ed occhi di ciliegia", si muove tra città che conosce e ama: Sarajevo ai tempi dell'"inganno sanguinoso" che qui chiamammo guerra, Istambul porta d'oriente e incrocio di razze e di storie, e una Vienna molto triestina col cielo attraversato da nubi-bastimenti cariche di voci dei trapassati. E anche i canti seguono lo stesso itinerario: slavi, greci, turchi, austroungarici.
Come sempre Paolo è un maestro a descrivere i luoghi per impressioni, che scavano dentro e mettono voglia di viaggiare solo per ritrovarle o poterle confrontare con le proprie provate nello stesso posto.
E alla fine, esattamente come in alcuni poemi medievali, ce la consegna la sua storia a patto che anche noi proviamo a riraccontarla, perché le parole non sono fatte soltanto per stare appiccicate ad un foglio, ma sono fatte anch'esse per viaggiare, perché nascono "dal ritmo del cuore, dal respiro e dal cammino": non sono solo uno strumento, sono, in qualche modo, la parte migliore della nostra anima.
Capirete che non fatico ad essere d'accordo con lui.
E oltretutto, lo devo ringraziare, non solo per le due ore di meraviglia che mi ha regalato, ma perché d'ora un avanti, ogni volta che mi capiterà di incappare in una cotogna, questa sarà per me molto più di un frutto: sarà il ricordo di una storia. Esattamente come a tutti noi viene facile con una mela in mano, partire per la tangente e arrivare da Adamo ed Eva (anche se il frutto, in realtà, in quel caso non è specificato) fino a Biancaneve passando per Paride ed Elena; così come non riesco a guardare un melograno con occhi neutri dopo aver letto il mito di Persefone e la bella tavola di La casa dorata di Samarcanda.
Perché siamo tutti affamati di senso, almeno quanto lo siamo d'amore.

mercoledì 12 giugno 2013

Corsi e ricorsi

"Caro Daniel, so che, in teoria, non potrei scriverti una lettera, visto che tu non esisti, però questa non è una vera lettera, ma il mio tema d'esame di terza media, quindi..."

Il figlio maggiore del capo oggi comincia l'esame di terza media con il consueto tema. E, poiché l'ufficio nel quale ci siamo da poco trasferiti è praticamente annesso alla loro casa, inevitabilmente, mentre lavoro me lo trovo accanto che fa prove Invalsi al computer e sottopone bozze di testi alle doppie forche caudine di suo padre e mie, poiché son stata richiesta di un parere esterno...
Mi rendo conto così che non ricordo nulla del mio esame di terza media, a parte l'attacco del tema: quello che, a spanne, vi ho citato sopra.
La consegna era, se non sbaglio, di scrivere a un amico riflettendo sul percorso di studi che si stava concludendo ed esprimendo sogni e progetti per il futuro.
E io, anziché scrivere a una persona reale, chissà perché, scelsi il mio migliore amico immaginario. Fu un clamoroso azzardo. Uno dei pochi della mia vita: sono troppo ansiosa per amare il rischio e l'improvvisazione; ma quella volta andò bene e l'alzata d'ingegno impressionò positivamente la commissione.
Non ricordo come proseguiva il tema, né che sogni avessi allora per il futuro: è passato tanto tempo.
Forse scrissi che volevo fare l'archeologa come il mio amico immaginario, che, oltretutto, non era un bambino, ma una specie di Indiana Jones (per il quale all'epoca stravedevo) più giovane, meno bellicoso e più sfortunato, ma altrettanto ironico e avventuroso.
Erano i primi anni Novanta e noi ragazzine si andava vestite con i fuseaux colorati (ne avevo uno strepitoso paio giallo!) e le maxi maglie, cantando canzoni degli 883 e di altra gente che oggi ci vergogniamo persino di nominare, ma che allora ci piacevano tanto e ci ricordavano belle estati adolescenziali.
Alt, ferma, stop! Aspettate un momento.
Io ieri mattina sono andata al lavoro esattamente con un paio di leggins (che altro non sono che i vecchi fuseaux redivivi e minimamente rivisitati dai corsi e ricorsi della moda) e con una lunga maglia (assai utile oggi a coprire magagne). E l'altra sera, scanalando a ora più che tarda, sono incappata in uno speciale dedicato proprio agli 883 per i vent'anni di carriera. Superato il trauma di vedere un Mauro Repetto quarantacinquenne, mi son resa conto che le canzoni ancora me le ricordavo, e, anche se non saranno capolavori, ancora mi fanno tanto estate.
Dunque, nonostante gli anni passati e le preoccupazioni acquisite, non molto è cambiato da allora, o, meglio, qualcosa, a volte, ritorna.
Anche gli amici immaginari? Chissà...
Comunque sia, Stefano, in bocca al lupo!

mercoledì 5 giugno 2013

Mani


"But touch my tears with your lips,
touch my world with your fingertips."
(Queen, Who wants to live forever)

"La carezza è un ponte tra due abissi di solitudine.
Perché il cielo e la terra passeranno, 
ma certe carezze non passeranno mai."
(Diego Cugia/Jack Folla, Alcatraz)

Va bene, confessiamolo subito così ci togliamo il pensiero: questo post ho cominciato a pensarlo mentre il fisioterapista, un giovane asciutto e occhialuto dai modi garbati e professionali, mi tastava la schiena, frugando il men peggio e il peggiore (come direbbe il solito "Guido") e io non ho potuto fare a meno di constatare, con il solito misto di ironia e amarezza, che nonostante i trentacinque suonati (molto suonati, of course), gli unici uomini che si son presi una certa confidenza con la mia pelle e quel che ci sta sotto son stati i medici. E non so se devo dire per fortuna (mi sono risparmiata attenzioni sgradite), o purtroppo.
Comunque sia, da lì son partita per uno dei miei soliti contorti viaggi mentali, che fan sì che io poi mi distragga e faccia cose come ieri mattina, quando, in arrivo trafelata al nuovo ufficio (dove non ho più l'uso cucina e ho a malapena quello del bagno), ho infilato il borgo sbagliato e ho tentato di scassinare un altro garage anziché quello del mio capo per tentare di parcheggiarci la bici...
Stavo dicendo che ho cominciato a pensare a quanto ci stiamo disabituando ad usare le mani (fa un po' rissa da bar, detta così...) nei rapporti con gli altri, se non per digitare messaggi su una tastiera.
E mi sono tornati in mente la bella immagine della canzone dei Queen e il pezzo del programma radiofonico di Diego Cugia che vi ho citato sopra.
Paradossale vero? Da una parte abbiamo le relazioni virtuali (non importa che siano d'amicizia o d'amore), relativamente semplici anche perché "incorporee" (ma che possono comunque far danno nella vita reale, come si è visto nella cronaca recente); dall'altra, un eccesso di, come chiamarla? esibizione di gesti forti ed espliciti talmente quotidiana che nemmeno i puritani (come me) ci fanno più caso, o quasi, e che, per questo, finiscono col diventare banali e insignificanti.
In mezzo a questi due estremi poco o nulla.
Ci siamo persi abbracci brevi e timidi, o lunghi e commoventi, carezze decise o poco più che sfiorate, mani che s'infilano al braccio di qualcuno o gli stringono appena un polso per guidarlo o lasciarsi guidare; mani a toccare il ginocchio della persona seduta accanto a noi: gesto fraterno, o allusivo, a seconda del conteso; mani calde sulla schiena o le spalle di qualcuno da consolare o a cui, semplicemente, far capire che gli siamo accanto, anche se non sappiamo esattamente spiegargli come o perché.
Ci siamo persi, con questi gesti, anche la capacità di dare una forma a tutta una gamma di sentimenti che stanno tra l'amicizia e l'amore, a cui già è difficile dare un nome, figuriamoci trovare una emoticon per rappresentarli!
Ci siamo persi la capacità di entrare in comunicazione con l'altro con discrezione, ascoltandolo anche con la punta delle dita e indovinando i suoi sentimenti.
Insomma, ci siamo persi le sfumature (non di grigio, per carità! ma di altri più intriganti colori).
E credo che questo in qualche modo abbia a che fare anche con l'eccesso di violenza che vediamo ogni giorno nei rapporti tra uomo e donna, ma non solo: perché tra l'indifferenza e l'amore folle troppo spesso si fa un solo unico balzo che, per forza di cose, ai più fa perdere l'equilibrio. E rende la vita molto difficile a chi sa benissimo di non essere tagliato per i grandi balzi. A me, per esempio...
Si tocca per afferrare e possedere, non per conoscere. Così, mentre crediamo di essere moderni e disinibiti, in realtà stiamo solo perdendo per strada la capacità di comprendere la complessità dell'altro (e anche la nostra), letteralmente "a pelle", senza bisogno che ce la spieghi l'esperto di turno, magari con un tutorial.
Lo stesso discorso, ovviamente, si potrebbe fare a proposito degli sguardi; ma per ora ve lo risparmio.
V'è andata bene...

PS: i due della foto si chiamavano Marcus Gratidius Libanus e Gratidia Chrite, immortalati nel gesto classico del matrimonio romano: la "dextrarum iunctio". La mano di lei sulla spalla di lui, però, è assai meno classica e molto più tenera.