E' la seconda volta che do a un post un titolo in una lingua che non conosco. La prima era colpa di un fumetto e di una città, stavolta è colpa di un libro e ancora di una città.
Là erano arabo e Venezia, qui sono bosniaco e Sarajevo. Significa "cotogne gialle" ed è il titolo di una canzone, ma anche di un libro "La cotogna di Istambul" e di uno spettacolo.
Dell'autore, invece, vi ho già parlato a sfinimento, è il solito Paolo Rumiz, ascoltato giovedì sera assieme alle rondini che planavano basse sfiorando la facciata di San Francesco del Prato, la chiesa che fu carcere, ed ora è un luogo perduto, affascinante come quelli che a lui piace raccontare.
Ho ancora il dubbio che questa non sia, dal punto di vista letterario, la sua cosa migliore, ma è senza dubbio la "sua" storia, in gran parte - chissà quanta? - autobiografica. Una storia che, davvero, gli "mangia l'anima" e non finirà mai di ripetere. Infatti, dopo averla detta molte volte a voce agli amici, l'ha scritta, ma non in prosa, perché non gli sembrava rispettosa del ritmo e del fascino del racconto, ma in endecasillabi sciolti. Poi l'ha riscritta, correggendo gli errori, limando versi, per renderla sempre più simile al suo ricordo; e infine, di nuovo, s'è messo a narrarla nelle piazze, accompagnato da un manipolo di bravi musicisti, e lo fa con "occhi di ghiaccio e voce di fuoco, capace d'incantare ogni persona", che, tecnicamente, sarebbero quelli del protagonista del racconto, ma sono, evidentemente, anche i suoi, che qui si mette in gioco come autore, narratore e personaggio. E dunque merita rispetto e, mi viene da dire, compassione.
Perché la sua è una storia dolorosa che riprende il più classico e tragico dei binomi: "amore e morte". Parte da una leggenda, quella descritta nella canzone, che parla di una donna malata che chiede all'amato, per farla guarire, di portarle una cotogna da Istambul, ma il giovane non tornerà in tempo; poi si incarna nella realtà, dove accade qualcosa di simile, e di nuovo, diventa racconto.
L'amore di Max e Masa "dai femori lunghi ed occhi di ciliegia", si muove tra città che conosce e ama: Sarajevo ai tempi dell'"inganno sanguinoso" che qui chiamammo guerra, Istambul porta d'oriente e incrocio di razze e di storie, e una Vienna molto triestina col cielo attraversato da nubi-bastimenti cariche di voci dei trapassati. E anche i canti seguono lo stesso itinerario: slavi, greci, turchi, austroungarici.
Come sempre Paolo è un maestro a descrivere i luoghi per impressioni, che scavano dentro e mettono voglia di viaggiare solo per ritrovarle o poterle confrontare con le proprie provate nello stesso posto.
E alla fine, esattamente come in alcuni poemi medievali, ce la consegna la sua storia a patto che anche noi proviamo a riraccontarla, perché le parole non sono fatte soltanto per stare appiccicate ad un foglio, ma sono fatte anch'esse per viaggiare, perché nascono "dal ritmo del cuore, dal respiro e dal cammino": non sono solo uno strumento, sono, in qualche modo, la parte migliore della nostra anima.
Capirete che non fatico ad essere d'accordo con lui.
E oltretutto, lo devo ringraziare, non solo per le due ore di meraviglia che mi ha regalato, ma perché d'ora un avanti, ogni volta che mi capiterà di incappare in una cotogna, questa sarà per me molto più di un frutto: sarà il ricordo di una storia. Esattamente come a tutti noi viene facile con una mela in mano, partire per la tangente e arrivare da Adamo ed Eva (anche se il frutto, in realtà, in quel caso non è specificato) fino a Biancaneve passando per Paride ed Elena; così come non riesco a guardare un melograno con occhi neutri dopo aver letto il mito di Persefone e la bella tavola di La casa dorata di Samarcanda.
Perché siamo tutti affamati di senso, almeno quanto lo siamo d'amore.
domenica 23 giugno 2013
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