sabato 27 maggio 2023

Sei cose impossibili prima di colazione

La stagista, che studia giornalismo, analizza il testo di un sito e afferma che una frase è troppo complessa perché "Nessuno può tenere a mente più di due concetti per volta". 

Il testo è effettivamente complesso e migliorabile.
(Sì, l'ho scritto io, dopo una lunga battaglia col cliente, che me ne aveva fornito uno ancor più contorto).
E le sue osservazioni sono consone e intelligenti. 

Però questa cosa del "Non più di due concetti per volta" sarei curiosa di sapere da dove le viene.
La insegnano a scuola?
Fa parte del pacchetto di nozioni che ti impartiscono quando ti accingi a scrivere per il web: sii breve, sii semplice, onora l'algoritmo e la SEO?
Non ne ho idea. Se ne avrò l'occasione, magari, glielo chiederò. 

Certo è che se, come pare, ne è sinceramente convinta, questo spiega molte cose.
Se nessuno mai nella vita ti propinerà più di due concetti per volta, è piuttosto ovvio che non riuscirai a dominarli; ma non significa che non li incontrerai. 

Perché la realtà è dannatamente complessa, e noi siamo molto complessi. E a volte nemmeno dieci concetti affastellati assieme ci bastano per descrivere chi siamo e ciò che stiamo vivendo e provando. 

E se nessuno mai ti avrà insegnato a leggere - e scrivere - testi che contengono più di due concetti in una stessa frase, non solo non saprai più capire un libro, un articolo un saggio, ma non saprai più capire te stesso/a. 

Nemmeno Dio s'è accontentato di essere due e s'è inventato la Trinità.
E se anche ce la fossimo inventata noi, fa lo stesso: sarebbe comunque un'ulteriore testimonianza della ricerca incessante dell'umanità di spiegare quel "molto" inquieto e sempre in movimento che osserva fuori e che sente dentro. 

Vedere quindi una ventenne convinta che esista un limite a ciò che si può scrivere e dire, pena l'incomunicabilità, mi pare particolarmente triste.
Perché, in realtà, è esattamente ponendosi - o lasciandosi acriticamente porre - quel limite, che l'incomunicabilità si costruisce.

mercoledì 8 febbraio 2023

Cos'è che trema...?

Il clima musicarello della settimana sanremese mi ha riesumato un ricordo.
 

Da bambina passavo le estati in un piccolo paese d'Appennino.
La domenica andavo a messa nella piccola chiesa, costruita all'ombra di uno sperone di roccia nera, sul quale un tempo c’era un castello.
Lo sperone si protendeva fin quasi a sfiorare il campanile ("Speriamo regga" era l'accorato pensiero di tutti i fedeli, stipati entro le ombrose mura durante la celebrazione), tanto vicino che persino io, che avevo cinque o sei anni, non di più, allargando le braccia, riuscivo a toccare roccia con una mano e intonaco con l'altra. 

Ebbene, il coro di pie donne della chiesina cantava ogni singola canzone - da quelle che probabilmente datavano a prima del Concilio (scegliete voi quale) fino alle hit del buon Sequeri, che allora erano quasi nuove - con una specie di curioso tremolio. 

La prima volta che le udimmo, noi "villeggianti", provenienti dalla città, ne rimanemmo prima stupiti, poi divertiti. Tanto che, per anni, rievocando quelle estati, ci veniva da cantare “alla maniera del coro della chiesina di P.”, finendo inevitabilmente a ridere prima ancora di arrivare al ritornello. 

Oggi, a mente fredda, e totalmente digiuna di musica, mi chiedo da dove venisse quel tremolio.
Chi avesse per primo/a insegnato a quelle donne di un paese d’Appennino che il modo giusto di cantare era quello e non ciò che si ascoltava allora alla radio, in tv, in musicassetta e, appunto, sul palco di Sanremo. 

Chissà che curiosa e forse persino remota origine aveva quello stile, più simile a quello dei tenores sardi e a certe cose ascoltate nei documentari sull’Africa o il Medioriente che alla musica pop. 

Ecco, pensandoci in questi termini diventa all’improvviso molto meno ridicolo e molto più pieno di significato.
Una tradizione che s’è persa, come tante altre. 

E, magari gli antropologi e i musicologi del futuro si chiederanno le stesse cose della trap…

mercoledì 18 gennaio 2023

Quelli che non pensano

 

Il post che ho scritto per la pagina Facebook di un cliente termina con: "L'offerta è valida in negozio e online" + link alla pagina dell'e-commerce.
Una tipa chiede via Messenger: "Fate spedizioni?"
Vabbè, forse ho sbagliato io e dovevo scrivere: "L'offerta è valida in negozio e anche nell'e-commerce presente sul nostro sito a questa pagina".
Anche se, boh, un po' mi dispiace lavorare considerando sempre che chi legge sia scemo. Oltretutto, lo trovo molto presuntuoso.
 
Allora mi armo di pazienza e mi appresto a rispondere: "Si, certo, signora. Ecco qui la pagina del nostro e-commerce da cui può acquistare il prodotto e farselo spedire comodamente a casa".
Apro Messenger e vedo che qualcuno (un collega o il cliente, non voglio indagare), ha già risposto: "Sì, facciamo spedizioni". E basta. Senza ulteriori indicazioni.
 
Come pensate che andrà a finire?
 
Un dialogo tra sordi, praticamente, in cui nessuno è più in grado di fare una cosa che normalmente ti insegnano alle elementari: leggere un testo e capirlo. E, se non lo si è capito, rileggerlo due o tre volte e poi pensare.
Non so a voi, ma a me questa cosa che gente adulta oggi non pensi fa paura quasi quanto il global warming (a proposito di cose cui la gente non pensa...)
 
Da una parte dovrei essere contenta, perché se tutti fossero capaci di pensare e di scrivere, il mio lavoro non esisterebbe; ma quando ho cominciato, circa 17 anni fa, il nostro scopo era rendere più fruibili e gradevoli notizie che, comunque, le persone avrebbero potuto anche trovare e capire da sole: era un "di più", un servizio opzionale, un favore.
 
Ora è una necessità.
 
E a me, onestamente, fa paura.
Perché i pochi che pensano, se pensano male, e non fanno i copywriter in una piccola città di provincia, ma fanno i politici, gli imprenditori, o i truffatori (o le tre cose assieme) possono rigirarsi tra le dita migliaia di persone che, magari, c'hanno pure una laurea in tasca ma hanno comunque smesso di pensare, senza accorgersene.
E io vorrei davvero tanto sapere quando è successo e perché. E poter fare qualcosa.