venerdì 1 aprile 2011

In memoria

Stavolta faccio nomi e cognomi. Si chiamava Maria Pesci, ma tutti la conoscevano come "la Maria del prete". Prima di farvi venire strane idee, chiariamo che il prete era lo zio, spedito negli anni Trenta a far servizio in un microscopico paese d'Appennino e lei, giovanissima, lo seguì per fargli da "perpetua". Sarebbe stato bello chiederle chi decise per lei questo ruolo e se e quanto ne fosse contenta all'inizio. Fatto sta che ne fece la sua vita. Anche quando lo zio morì, e i preti erano ormai merce troppo rara per sprecarne uno in un paese da nulla, lei continuò, di fatto, a fare la perpetua; a curare la chiesa nuova, che aveva voluto e visto nascere sotto i suoi occhi, e la chiesa vecchia: una minuscola meraviglia romanica di disarmante semplicità, in bilico su una scarpata affacciata sul fiume. Dentro, lei e un amico fotografo, avevano allestito una specie di piccolo museo, perché Maria non amava solo la sua chiesa, ma l'intero suo paese e ne divenne la memoria.
La sua casa era piantata nella roccia, come quella della parabola; da un lato guardava la via principale del paese - l'unica a dire il vero - e dall'altro s'affacciava a un burrone boscoso di inquietante bellezza, oltre il quale luccicava, ancora, un'ansa del fiume. Aveva la penombra fresca e l'odore di pietra e fumo delle vecchie case e cassetti ricolmi di ritagli di giornale, lettere, fotografie e libri in cui si nominava, sia pure di sfuggita, il suo paese.
Anch'io l'ho amato. Molto. E' il luogo in cui abitano i primi ricordi e le prime immagini a cui riesco a risalire; e sono profondamente convinta di essergli, in qualche modo, debitrice della parte migliore di me: praticamente un imprinting. E' Pietramogolana. Impossibile non girarsi a guardarlo mentre gli si sfreccia accanto sull'autostrada del mare: uno sperone di roccia nera proteso sul Taro. Nel punto più alto i pochi resti di un castello, all'ombra della rupe le due chiese, sotto le quattro case e attorno campagna. Negli anni Ottanta c'erano anche un'osteria di cacciatori, gestita da un altro personaggio leggendario: la Lina; e un mulino in disuso con la ruota posata contro un muro a marcire e il bagno in cortile: lì ho passato le prime estati della mia vita, a cento metri dal fiume dove andavo a giocare, stringendo sottobraccio un salvagente giallo a papera. Lì ho imparato ad amare il rumore dell'acqua; ho annusato l'odore di colori a olio e trementina dei quadri di mia madre, messi ad asciugare sul davanzale, scoprendo, così, che esisteva l'arte. Ho ascoltato i primi racconti di guerra e di contadini e le prime leggende, a cominciare da quella sul nome del paese, sonoro e vagamente inquietante, a cui devo, forse, il gusto per le parole.
Un luogo arcano e antichissimo, insomma, ma così piccolo che persino una bambina di quattro anni lo poteva capire. Nel passaggio strettissimo tra il campanile della chiesa nuova e la base dello sperone sul quale s'innalzava il castello bastava allargare le braccia per toccare da una parte la roccia e dall'altra i mattoni e cominciare a farsi un'idea della Storia.
Esagero? Non so, ma mi piace pensarla così e ricordare Maria, che di questo mondo è stata a lungo custode. Negli ultimi anni, per una sorta di contrappasso crudele, è stata proprio la memoria a tradirla. D'accordo, aveva novant'anni e credo sia stata serena. Altri sono meno fortunati. In ogni caso comincia male questo mio aprile! Speriamo non peggiori...

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