venerdì 2 maggio 2014

La belle e-coque!

G. Kienerk: Il dolore, il silenzio, il piacere.
E così, dopo Campigli e Klimt, la nostra immersione nel ribollire dei movimenti artistici tra Ottocento e Novecento si è conclusa alla mostra del Liberty a Forlì.
Immersione nel vero senso della parola, vista l'acqua che veniva mentre si passeggiava per il centro semideserto della cittadina emiliana, inzuppandoci d'umidità almeno quanto ci siamo inzuppate di cultura. Ma va bene così: pioggia, gita e ciose è un trittico consueto e accettabile, visto che, se c'impegniamo, possiamo far venire anche la grandine!
Temevamo la coda e invece, benché le sale più piccole fossero piuttosto gremite, siamo riuscite ad entrare subito e a girare per bene la mostra, che si apriva, con mia grande gioia, con un quadro di Edward Burne-Jones e due citazioni poetiche: D'Annunzio - inevitabile, vista l'epoca dei quadri e la loro sottile sensualità, insieme elegante e inquietante - e il "mio" Guido Gozzano, con il suo ritratto della "preraffaellita", serio, sì, ma fino a un certo punto. E di Guido e Gabriele (sic) erano in mostra anche alcune prime edizioni dei libri, con illustrazioni fatte dai migliori artisti italiani che abbracciarono il nuovo stile. Stile che, complice l'espandersi di una società industriale, non è rimasto confinato negli atelier, ma ha riguardato la letteratura, l'architettura, l'arredamento (mobili e suppellettili, ceramiche, pizzi e vetrate), la moda e la pubblicità. Che meraviglia le locandine delle opere di Verdi e Puccini, i manifesti di località turistiche, lampade a gas e prodotti di bellezza: "novissime cose" di un tempo che faceva di tutto per essere moderno.
E, ancora una volta, donne: tante, maggiormente consapevoli del loro ruolo nella società e, forse proprio per questo, viste dai pittori con un misto di timore e reverenza: non più - o non solo - angeli o demoni, ma... entrambe le cose. Ocio!
E tanta mitologia, giusto per gradire, classica e persino nordica, in omaggio alle radici decisamente europee di questa tendenza dell'arte.
E natura, che da sfondo quasi realistico della figura umana tende a diventare protagonista dell'opera col suo rigoglio decorativo contorto e trabordante, elegante come pizzo, soffocante come edera.
Curiosamente ci siamo ritrovate, noi tre donne ad ammirare due trittici composti da tre donne con significati simbolici: quello di Kienerk e quello del "nostro" Amedeo Bocchi. Sulla figura centrale del primo, che è stato scelto per le locandine della mostra, abbiamo cominciato a sproloquiare fin da quando ci ha accolto all'uscita dalla stazione in un vistoso manifesto: "Mmmmh, perché tiene le mani davanti alla bocca? Non è molto rassicurante..." "Già, forse sta trattenendo un insulto a noi visitatori". "No, secondo me ha mal di denti". "No, secondo me è costipata...". E avanti di questo passo, finché non abbiamo scoperto che la fanciulla in blu notte era "Il silenzio", mentre le sue vicine di cornice erano "Il dolore" e "Il piacere". Nelle tre tele di Bocchi, invece, le tre donne sono "La colta", "La saggia" e "La folle" e ci è sorta spontanea la domanda: "Ma io... con quale mi identifico?" Dopo essere state tentate dirispondere all'unanimità "Con la terza!", abbiamo convenuto che c'è un po' di tutte loro in ognuna di noi. O viceversa?"
A. Bocchi: La colta, la saggia, la folle.
Dopo tre ore di lenta e dolce cottura, e rimpiangendo un poco di non avere il tempo e la pecunia necessarie per partecipare al laboratorio di ricamo, siamo riemerse affamate e ci siamo rifugiate (a un'ora inconfessabile) in un bar-trattoria dove, pur fuori tempo massimo, ci hanno sfamate a suon di crostini, pasta ben condita e fumante, dolce e caffè.
Nell'attesa, con ancora negli occhi un turbinio di forme sinuose, spirali, fiori e piume, e davanti al naso un'innocente tovaglietta di carta giallastra, mi sono messa a disegnarci sopra con la biro, imitando con scarso successo le chiome infinite e corpose delle fanciulle (che invidia!), e le ricche decorazioni dei fondali, fingendo di avere 6 anni anziché 36.
Dopo aver deciso a malincuore di abbandonare il rifugio caldino del bar, siamo tornate in centro, dove siamo riuscite a visitare l'abbazia di San Mercuriale, in un angolo della grande piazza, e il Duomo, leggermente defilato, alle spalle del Municipio. Entrambe le chiese passate - come tante altre - per innumerevoli vicissitudini e ricostruzioni; ma se, per la prima, ci sono andati con mano più leggera e l'impianto antico resta leggibile nel pavimento in cocciopesto, che digrada verso l'altare, e nella penombra spoglia delle arcate; con la seconda, invece, ci sono andati più pesanti e il guazzabuglio di forme e stili si armonizza solo per (ehm)... Grazia di Dio?!
Abbiamo rinunciato alla visita alla Rocca per raggiunti limiti di stanchezza e di umidità e per non rischiare di perdere il treno del ritorno. Il problema è che, arrivate in stazione, abbiamo scoperto che il treno si era perso non si sa bene dove e perché. E i minuti di ritardo si sono andati accumulando, annunciati un po' per volta con sadica profusione di scuse, e sono arrivati a 50! Ci siamo consolate con un tè bollente. Quando il convoglio, figlio di buona locomotiva, si è deciso a comparire era, ovviamente, gremito. Siamo riuscite a sederci soltanto a Bologna e, toccato finalmente il suolo parmigiano, ci ha accolto un clima assai poco primaverile, e siamo rincasate invidiando le nostre colleghe dipinte che se ne stanno al calduccio di sfondi dorati ed eterne primavere...
Saluti floreali!

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