giovedì 6 marzo 2014

Angry chickens!

Un'altra gallina letteraria, fanciulle piumate, da aggiungere alla nostra personale collezione di "colleghe" immortalate in libri, film, quadri e canzoni. In realtà si tratta di un pollo, ma non stiamo qui a cercare il pelo nell'uovo, su!
Scusate se ultimamente latito (ma potreste sempre rimediare anche voi, vero?!) e quando non latito mi do ai titoli anglofoni, millantando conoscenze che non ho; ma stavolta non ho resistito alla tentazione di parafrasare il famoso videogioco.
Basta con le premesse. Ecco la citazione.

"Era nervosa, aveva bevuto troppo, e i suoi occhi avevano la fissità un po' irosa di quelli di un pollo".
(John Fante, Chiedi alla polvere)

Siete mai state guardate da una gallina? Immagino di sì. A me è capitato spesso, soprattutto quand'ero bambina, e devo dire che la descrizione di Fante è perfetta: c'è qualcosa di buffo, infatti, in quell'occhiata dal sotto in su con il capo piegato un po' da un lato; ma c'è anche una certa fierezza, tanto che vien facile immaginare che, mentre tu guardi incuriosita lei ("Toh, una gallina!"), lei faccia più o meno lo stesso con te ("Toh, un essere umano"), ma viene anche il sospetto che lei, in realtà, stia pensando: "Va bene, sei grande e grossa, ma non credere di potermi fregare: non sono un'oca io, dopotutto!"
Tornando al libro, diciamolo: il protagonista, nonché narratore interno della storia, mi sta cordialmente antipatico, con le sue frustrazioni da aspirante scrittore squattrinato e nullafacente e, ancor di più, con il suo modo di interagire con le donne che, non si sa bene come, hanno la strana abitudine di entrargli in camera di notte senza nemmeno che lui glielo chieda, salvo poi essere trattate con qualcosa che sta tra l'idealizzazione sensual-letteraria e il più becero maschilismo.
Ok, mi rendo conto che è una recensione molto parziale e limitata di una delle opere più celebri della letteratura americana e ammetto che leggerlo mi ha incuriosito; ma a parità di amori strampalati, devo dire che preferisco molto di più (e capisco assai più facilmente) quello assoluto, poetico e distruttivo del povero Jay Gatsby di Fitzgerald, la cui sfolgorante e contraddittoria New York anni Venti è, a tutti gli effetti, coprotagonista del racconto.
Chissà perché ma gli amori impossibili finiscono sempre per attrarmi di più di quelli reali, forse perché sono gli unici in grado di restare immuni dall'abitudine e dalla disillusione. Purtroppo.
Saluti in punta di penna!

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