mercoledì 14 dicembre 2011

La cripta senza cappuccini e altre storie romane

Indovinello: cosa posso aver infilato in valigia all'ultimo momento, prima di partire per un weekend lungo a Roma? Un paio di scarpe taccute? Una trousse? Un abito da sera perché non si sa mai? Acqua, acqua! Tenete conto che si tratta di me e quindi, l'ultima cosa finita in valigia è stata... un cacciavite! Ovviamente non un arnese da scasso, ma una cosetta minuta, a punta fine, lunga nemmeno dieci centimetri: quel che occorre per stringere la vitina degli occhiali che, ho scoperto pochi giorni fa, ogni tanto si allenta e mi ritrovo con una lente in mano. Per fortuna non mi è servita. In compenso mi sono serviti altri gadget che, in genere, fanno parte del mio armamentario da gita: l'ombrello, per schivare la coda del nubifragio che si è scatenato lunedì all'alba con tuoni e fulmini, procurandomi un brusco risveglio e un bel paio d'occhiaie; la mini torcia elettrica portatile, per inoltrarmi con Vale di Padova, mia compagna d'avventure, nei sotterranei di S. Crisogono: completamente sole tra tracce di mura, resti di affreschi, iscrizioni, sarcofagi e ombre misteriose. Ci guardavamo attorno circospette, con la paura di restar chiuse dentro, dicendoci "che bello" e, subito dopo, "che ansia".
Ci siamo infilate in tutte le chiese di Trastevere, che è, per tentare un paragone parmigiano, un Oltretorrente più grande e più bello, ma altrettanto popolare e colorato. In Santa Maria dell'Orto (che ha una storia simile all'omonima chiesa veneziana), abbiamo incontrato un custode logorroico, che ci ha raccontato tutta la sua vita; mentre un altro, in S. Maria in Trastevere, prima ci si è rivolto in inglese, poi, quando ha scoperto che eravamo italiane, ci ha fatto aprire da un collega l'anticamera della canonica dove son conservati resti di micromosaici romani con uccelli e pescatori: opus vermiculatum si chiama, me lo ricordo ancora. Ho scoperto, invece, di aver buttato al vento sia l'esame di epigrafia latina sia il diploma d'archivistica, perché non sono più in grado di decifrare né lapidi né documenti, come ho dovuto constatare con rammarico alla mostra di disegni e carte di Leonardo e Michelangelo ai Musei Capitolini. L'abbiamo visitata alla sera e quando siamo uscite ci hanno chiuso il portone alle spalle. Anche dalla splendida mostra di Filippino Lippi e Botticelli alle Scuderie del Quirinale ci hanno praticamente cacciato, noi e una manciata di persone che avevano optato per l'apertura notturna del sabato. Prima abbiamo cenato alla caffetteria delle Scuderie, col personale che aveva voglia di andarsene a casa e di rifilarci quel poco che era avanzato; ma dalla finestra vedevamo tutta la piazza, i Dioscuri e la luna piena sopra i palazzi e, per una volta, abbiamo deciso di prendercela comoda.
Mi è servita anche la cioccolata, per sopravvivere alla mia seconda volta (e spero non l'ultima) ai Musei Vaticani: dalle 9.30 alle 14.30 senza riuscire a vedere tutto. Non so voi, ma a me fa parecchia impressione, nelle stanze dedicate alla scultura romana, trovarmi davanti tutte quelle facce di uomini, donne, bambini vissuti millenni fa e così straordinariamente familiari. Si potrebbe mettersi a giocare alle somiglianze e scovare tra i marmi vicini di casa, amici e parenti.
Mi sono servite anche le pastiglie per il mal di gola, quasi inevitabile compagno di viaggio, soprattutto a Roma. In realtà non faceva freddo e noi nordiche intabarrate ci siamo stupite vedendo gente con giacchine leggere e, addirittura, qualche temerario in maglione e camicia girovagare per le vie dello shopping e le bancarelle natalizie di piazza Navona. Il problema, credo, è l'escursione termica tra il caldo-umido della metropolitana e l'infido "venticello de Roma", che mi frega tutte le volte. Comunque è andata meglio del Capodanno di qualche anno fa, come alcune ciose ben sanno...
Nei quattro giorni di permanenza, ridotti di fatto a due pieni e due mezze giornate causa lunghi, costosi e avventurosi viaggi in treno, siamo riuscite a farci stare anche un'altra mostra, un Angelus (imbucate tra i bambini degli oratori romani), lunghe passeggiate, un'incursione in un immenso negozio di giocattoli e, persino, un pranzo e una cena con due amici di Vale, pugliesi ma residenti a Roma, uno dei quali, peraltro, nostra vecchia conoscenza camaldolese. Insomma, un bilancio decisamente positivo con due sole note stonate: la defezione di Dani all'ultimo momento, che mi è molto spiaciuta (la prossima volta, prometto, si visita insieme Cinecittà!). E una profonda nostalgia per i tempi del Grand Tour, quando ci si poteva permettere di stare mesi o anni in una città, perché soprattutto nel caso di Roma, che ti stordisce di bellezze e di proposte, hai la sensazione che manchi sempre il tempo per conoscerla davvero, per tentare un poco di capirla, non solo di guardarla come si guarda una vetrina. Perché tante piccole visite sommate insieme temo non facciano un viaggio. Però si tenta, come si può, e, a volte, si ha fortuna: ci si trova in una chiesa deserta dove un baritono, una organista e un violinista provano pezzi classici per le celebrazioni, si incappa in una comitiva con una brava guida che spiega i sotterranei (ancora!) di S. Cecilia e si rimane ad ascoltare con discrezione nella stanza accanto, fingendosi molto interessate a un resto di pavimento romano; si rientra due sere di seguito in taxi e si ritrova lo stesso taxista e la città sembra un poco più piccola; poi si accende la tv a tarda notte, per guardare un tg, invece, la prima cosa che appare è un faccione occhialuto e abbronzato che intona "Grazie Roma!", che può piacere o meno, ma, senza dubbio, è una dichiarazione d'amore sincera.

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