"Cui videberis bella?" (Catullo, Carme VIII)
Sì, dopotutto, abbiamo diritto all'imperfezione. E alla bellezza. Non c'è contrasto tra le due cose, se solo si fa lo sforzo di uscire, una buona volta, dalle paure e dagli stereotipi.
Anch'io avevo paura, sabato sera, prima che iniziasse lo spettacolo nel quale recitavano insieme donne disabili e non. Paura di vedere esibito un dolore che ho sotto gli occhi tutti i giorni; di commuovermi, intristirmi, arrabbiarmi. Non è successo nulla di tutto questo. Lo spettacolo che, per la cronaca, s'intitolava "vivere spettinata" (cosa che a me capita spesso), era un grido di libertà, lieve e autoironico: libertà per ciascuna donna - in piedi o su ruote - di portare in giro il proprio corpo e anche i propri pensieri per quello che sono, quindi non sempre belli e quasi mai impeccabili, ma veri.
Invece troppo spesso siamo costrette (o ci costringiamo?) a nascondere molte cose: i brufoli prima, le rughe poi, i chili (e i peli) di troppo e, ovviamente, le emozioni. Perché quando traboccano - come si è visto di recente con le lacrime di un sindaco e di un ministro - suscitano simpatia, tenerezza, ma anche, diciamolo, un po' di diffidenza: "Eh, le donne, si sa: sono umorali, instabili, sentimentali, insomma, deboli e inaffidabili". Sicuri? E allora vai col trucco, le creme, le tinture, le palestre, i push up e altri ammennicoli che dovrebbero servire a farci assomigliare a ciò che vorremmo/dovremmo essere: giovani, belle, forti. Servono? Certo! E anch'io ne avrei un gran bisogno. Ci sono momenti in cui vorrei essere più bella, più elegante, più piacevole, non avere la fastidiosa consapevolezza dei miei difetti fisici e di carattere, che a volte mi spiace sinceramente sbattere in faccia agli altri. Purtroppo, però, ho capito che con me la cosa non funziona: con un abito elegante e una mano di fondotinta io mi sento, se possibile, ancora più insicura. Me ne dispiace, ma è così. Perché mi pare, in qualche modo, di ingannare l'altra o l'altro. Perché se è difficile portare in giro il mio corpo (e non oso nemmeno immaginare quanto possa esserlo per una persona disabile), mi pesa ancora di più nasconderlo con una maschera che non mi appartiene. Se pure mi spaventa pensare che qualcuno mi giudichi e mi rifiuti per il naso storto e i fianchi larghi, mi fa ancora più paura che qualcuno mi accetti per qualcosa che non ho: una pelle di pesca o capelli di un'altra forma e un altro colore, che saranno più belli, ma non sono miei. Insomma, se devo scegliere tra il disagio della finzione e quello dell'imperfezione, scelgo il secondo; pur essendo consapevole che anche "tenersi su" non è una scelta banale, ma richiede misura, pazienza e una certa forza d'animo. Anzi, le invidio le donne che hanno saputo trovare nell'abito, nel trucco, in un certo modo di porgersi, l'arma giusta per affrontare il mondo. Ma ancora di più invidio gli uomini, che, da sempre, possono portare in giro la loro faccia e il loro corpo senza bisogno di maschere: nessuno contesta loro capelli grigi e maniglie dell'amore, ma nemmeno gli scatti di rabbia o i momenti di commozione. Anzi, di un uomo che piange si resta piacevolmente stupiti: "Toh, guarda com'è sensibile...". Però sarei maledettamente curiosa di sapere se anche a loro capita di sentirsi a disagio quando qualcuno - o qualcuna - li guarda, e di desiderare che il loro corpo assomigli a ciò che sentono di essere davvero: abbia una profondità, non solo una superficie. Se a loro non capita, dopotutto, sono fortunati e, forse, dovremmo imparare da loro. Se, invece, capita anche a loro, non sarebbe un gran sollievo smetterla di nasconderci e ingannarci a vicenda e accettarci per quello che siamo: creature comunque imperfette, che si stancano, si arrabbiano, invecchiano, ma volendo, possono farlo, semplicemente, insieme?
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