Che avete capito?! Non ho intenzione di parlare di luoghi di (presunto) piacere, né di mondane d'altri tempi; ma, letteralmente, di quelle case che restano chiuse per molti mesi all'anno e, in genere, vengono riaperte d'estate. Seconde case, insomma. Al mare, in montagna, in collina: ereditate dai nonni o acquistate con pochi risparmi per garantirsi una solida via di fuga dalla città. Chiuse sì, ma non disabitate, perché durante l'assenza degli inquilini umani, diventano rifugio accogliente per muffe variopinte, che chiedono asilo politico agli angoli dei muri, e per una varia accolita di bestiole che vanno dalla blatta al millepiedi, passando per inquietanti scorpioni e ragni fuori ordinanza; per non parlare degli acari, che costruiscono popolose metropoli nell'umido dei materassi di lana, e dei condomini di tarli. Persino la casa, quando è chiusa, si prende delle libertà: appena ve ne andate tira un sospiro di sollievo e ovunque fioriscono crepe e nevicano fiocchi di vernice e intonaco. E tutta questa vitalità non si dilegua al primo sole: va scacciata con metodo e pazienza, per renderla di nuovo abitabile, e ne resta sempre un poco nascosta da qualche parte. Eppure queste case hanno fascino. Sospetto sia merito del mobilio spaiato, che viene da altre case e da altre epoche. Facendo lo stemma codicum di ogni frammento si può ricostruire la storia di una famiglia: l'armadio del nonno, il letto che mamma acquistò col suo primo stipendio, il baule coi libri delle prozie. Insomma, queste case sono per gli oggetti (e i ricordi) un'ancora di salvezza prima del diluvio.
Per questo mi piacciono, anche se, a prima vista, paiono scomode e poco eleganti; anche se "sanno di vecchio". Perché questo odore dimesso e sconosciuto ai figli della "generazione ikea" è stato, da sempre, parte della mia estate. E vorrei che continuasse ad esserlo ancora per un po', per quanto sia difficile. Incrociate le dita, per favore.
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