venerdì 29 marzo 2013

Superbia & bontà


"L’uomo, monotono universo,
crede allargarsi i beni
e dalle sue mani febbrili
non escono senza fine che limiti."
(G. Ungaretti, La pietà)
E' facile fare i brillanti sui social network, tanto è vero che ci riesco anch'io!
Su Facebook, in particolare, dove sono sbarcata titubante, metà dei contenuti sono dei copia-incolla - alcuni molto belli - pescati chissà dove e rilanciati all'infinito. L'altra metà, invece, sono pillole di vita accuratamente scelte e presentate per risultare piacevoli a chi li legge: è così che funziona il gioco e, intendiamoci, è divertente. Somiglia un poco alla letteratura...
Non c'è bisogno di mentire. C'è chi fa anche questo, per crearsi almeno nel virtuale una vita migliore di quella che ha, e credetemi, lo capisco; ma non è necessario: basta selezionare.
Il blog, mi pare, consente un ritmo più disteso, testi più lunghi, ragionamenti più complessi, ma resta sempre un "best of", anche quando si parla di cose serissime e dolorose.
Poi tutti sappiamo che la vita vera è un'altra cosa.
Beh, quasi tutti...
A me Grillo che idolatra la rete come una panacea di tutti i mali, ad esempio, fa un po' rabbia e un po' tenerezza.
E' vero che se condividi un problema con mille persone anziché con i tuoi quattro amici è più probabile che qualcuno proponga una soluzione brillante e inaspettata, ma poi... bisogna metterla in pratica!
E le idee, a quanto ne so, per diventare cose, hanno ancora bisogno di camminare sulle gambe degli uomini e delle donne e prender forma dalle loro mani.
E gli uomini e le donne sono bestioline parecchio complicate che, assieme alle idee brillanti e alle trovate geniali, che pure covano in loro e saltano fuori più facilmente nell'incorporeità ovattata dei social network, si portano dietro anche un sacco di problemi pronti a schiudersi quando ci si incontra faccia a faccia.
Simpatie e antipatie più o meno giustificate, manie, paranoie, timidezze e tenerezze che complicano maledettamente i rapporti tra le persone; ma li rendono umani.
Avere a che fare con gli altri è un equilibrio sottile tra superbia e umiltà: la prima serve per portare avanti il più possibile le idee in cui si crede, la seconda per accettare che possano anche essere sbagliate ed adattarsi a quelle degli altri. E non è solo questione di idee, ma anche di impressioni, sensazioni e tutta una gamma di emozioni che hanno molto poco di razionale.
Ed è durissima!
E' talmente dura che a tutti almeno una volta - a me spesso - vien voglia di lasciar perdere: gettare alle ortiche impegni e amicizie e rinchiudersi nel proprio guscietto più o meno incrinato.
Anch'io, per esempio, adesso sto fingendo una razionalità che in questo momento non ho per motivi che non sto qui a spiegarvi; e mi costa una certa fatica augurarvi Buona Pasqua con l'impressione che per me, dopotutto, sia troppo spesso un quasi ininterrotto venerdì santo... ma lo faccio perché è giusto.
Perché spero che a forza di prenderlo a capocciate, questo guscietto incrinato si apra e conduca da qualche parte anche nella vita reale.
Auguri!

giovedì 21 marzo 2013

In primavera è più difficile

"Tra un fiore colto e l'altro donato
l'inesprimibile nulla."
(G. Ungaretti, Eterno)

In un cerchio di sei donne e un uomo, tutti abbondantemente sopra la trentina, solo una sposata da poco, tutti gli altri single, si parla di una conoscente di alcuni dei presenti in attesa del quinto figlio.
L'uomo, come da copione, se ne esce dicendo che son giusti giusti per una squadra di calcetto, o per una briscola in cinque, in caso di pioggia. Le donne single hanno tutte lo stesso pensiero che io, poco diplomatica come al solito, dico ad alta voce: la signora a me ignota ha fatto anche i figli che io non farò.
"Anche i miei", azzarda l'unico uomo, subito zittito da un'amica che osserva: "Taci tu, che non hai la data di scadenza!": un po' brutale, ma vero.
E hai un bel da dire che, infondo, ognuno ha la sua vita: né migliore né peggiore di quella degli altri, semplicemente diversa; e puoi ripeterti in tutta sincerità che ormai hai capito da molti eventi e molti ragionamenti che per certe cose proprio non ci sei tagliata e che saresti, dopotutto, una pessima moglie e un'insopportabile madre. E puoi anche inca**arti con sacrosanta ragione con chi si ostina a giudicare una donna solo perché ricopre - o no - questi due ruoli canonici; e rimanere allibita da chi, per rientrarci, in questi ruoli, si tappa il naso e accetta compromessi per te intollerabili. Ma comunque ci pensi a quel che poteva essere e non è stato. Forse è inevitabile, fisiologico, mi viene da dire.
Ci penso persino io, che sono ormai da anni maestra nell'arte autoconsolatoria dell' "è meglio così".
Un'arte che in primavera, a volte, mi riesce un po' più difficile...

PS: Visto, Simona, che leggendo il post del 5 marzo m'hai chiesto esattamente questa cosa e io t'ho risposto evasiva. Alla fine, devo ammettere, avevi ragione tu.

giovedì 14 marzo 2013

Gente così...

Sì, d'accordo, arrivava sempre con dei ritardi esasperanti che andavano dai 30 ai 120 minuti ed entrava tranquillo, senza nemmeno scusarsi.
Sì, d'accordo, mi costringeva a inviargli e-mail minacciose per ricordargli lavori in sospeso, che poi completava, invariabilmente all'ultimo momento, ma sempre in tempo utile per evitare problemi con i clienti.
Sì, d'accordo, ogni volta che ci incontravamo sembrava sempre appena tornato da una vacanza o in procinto di partire (e talvolta, effettivamente, lo era, essendo dotato di una morosa da andare a trovare in un lontano e caldo posto di mare): sorridente, rilassato e con l'aria di chi, dopotutto, sa godersi la vita; tanto che, lo confesso, mi faceva venire voglia di mettergli le mani addosso, non so bene se per dargli una bella scrollata e chiedergli: "Ci sei o ci fai?" o per abbracciarlo e dirgli: "Beato te, vorrei avere anch'io la tua leggerezza!".
Grazie al cielo non ho mai fatto né l'una né l'altra cosa: c'era tra noi troppa poca confidenza e chi mi conosce lo sa che faccio molta fatica ad essere espansiva. Soprattutto con gli uomini.
Però mi piaceva il suo modo di "occupare lo spazio", le rare volte che si installava nel nostro ufficio come se ci lavorasse da sempre: sistemava con cura le sue cose attorno al portatile e tra queste, a seconda della stagione, potevano comparire anche un thermos con tisana o un paio di mele, tirate fuori con estrema nonchalance dalle tasche di un improbabile e molto vacanziero paio di bermuda.
Mi piacevano le interminabili chat nate per risolvere qualche grana di lavoro, nelle quali s'insinuavano, spesso, dialoghi surreali e battute fulminanti.
Mi sorprendeva quando, ogni tanto, mi raccontava qualcosa di sé e delle sue insospettabili passioni, o mi mandava una foto fatta in qualche bel posto senza nessuna precisa ragione.
Ora, buon per lui, si è trovato un lavoro serio: ci ha detto che non ha più tempo per fare il free lance e che, quindi, non avremo più occasioni per lavorare insieme.
E io, anche se so che non ne ho alcun diritto, son qui che muoio dalla voglia di digli che, dopotutto, mi mancherà. Ma non lo farò. Purtroppo...

martedì 5 marzo 2013

Semplificare

"Ciò che accade tu lo scrivi?"
"Ciò che io scrivo accade"
(M. Ende, La storia infinita)

Semplificare. Semplificare, tagliare e banalizzare: questo è quanto mi viene chiesto ogni volta che mi trovo a scrivere un testo per i bambini.
Non usare metafore.
Non usare citazioni di libri, film, canzoni che loro non possono conoscere (non si sa mai venga loro la curiosità di chiedere ai genitori cosa sono e da dove saltano fuori...).
Limitare congiuntivi e condizionali (perché per i periodi ipotetici dell'irrealtà non hanno ancora inventato un vaccino!).
E, soprattutto, mi raccomando: paragrafi brevi con poche subordinate e testi non più lunghi di dieci righe alla volta, che se no non c'arrivano in fondo.
Ok, ok, guardate che lo so che sono prolissa e contorta anche quando mando un sms. E questo è sbagliato. Ci sto lavorando. Da anni ormai. E ben vengano suggerimenti e correzioni.
Ma, buon dio del cielo! Siamo davvero sicuri che proporre un testo che scorre via liscio e piatto, senza nessuna difficoltà, senza nessun guizzo di senso e di ritmo sia l'unico modo per far leggere i bambini?
Ok, ok. Io non scrivo libri, ma articoli per giornalini e siti internet, che stanno alla (buona) letteratura per l'infanzia come un hamburger del MacDonald sta a una cena da Cracco; ma voglio un mondo di bene ad ognuno di questi miei piccoli "figli di carta": le uniche cose che mi sia riuscito finora di mettere al mondo.
So che non sono perfetti e sarei disposta a correggerli fino allo sfinimento, se non sapessi che non mi si chiede di migliorarli, di renderli più chiari, comprensibili ed evocativi, ma solo di spiumarli quel tanto che basta per farli stare nello spazietto loro assegnato e perché non ci sia pericolo che volino, o che, per sbaglio, aiutino qualcuno a volare...
Eppure io sono tuttora infinitamente grata a tutti quegli autori di libri, film, cartoni animati e fumetti che, quand'ero bambina, non mi hanno trattato come una deficiente. E, pensate un po', mi piacerebbe essere capace di fare lo stesso. Anche se non sono certo Ende o Rodari o la Pitzorno.
Perché è grazie a Zio Paperone che so cosa vuol dire "autoctono" e so dov'è il Klondike (beh, più o meno)...
E sono convinta che nessuno si appassioni a nulla - tantomeno un bambino - se non si sente sfidato ad usare la sua intelligenza per comprenderlo.
Ma le convinzioni, dice un proverbio delle mie parti, sono come i sogni.
E Cenerentola insegna che i sogni son desideri.
Ma coi sogni e i desideri non si mangia. E nemmeno con la cultura, a quanto pare...
Oh, sì, oggi sono piuttosto arrabbiata. Si vede?
Saluti fumantini!

martedì 26 febbraio 2013

Corruttibili e corrotti, vanitosi e presuntuosi, scelgono il tornaconto anziché il dovere...

Il testo che segue me l'ha girato stamattina per e-mail la nostra Dani.
Mi pare faccia il paio con quello che ho inserito io ieri, quindi lo pubblico senza troppi commenti.
Li lascio a voi, se vorrete.

“Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto. Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano. Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuol rappresentare".

E' del 1945, scritto da Elsa Morante a proposito di Mussolini. Nel caso non l'aveste capito...

lunedì 25 febbraio 2013

Il ritmo della mia piccola voce

Pensavo che una lunga, triplice e preoccupante influenza che ha abbattuto l'intera famiglia potesse bastare a funestare questo finale d'inverno; ma poi è venuta la neve; ma poi ci si è rotta la caldaia; ma poi...
Che dire? Ormai lo sapete che, quando mi mancano le parole, uso quelle degli altri. Il solito Guido, nello specifico.

Ecco - pensavo - questa è l’Amarena,

ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena

di lotte e di commerci turbinosi,

 la cosa tutta piena di quei "cosi

con due gambe" che fanno tanta pena...


L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere

vane, divisi e suddivisi a schiere

opposte, intesi all’odio e alle percosse:

così come ci son formiche rosse,

così come ci son formiche nere...


Schierati al sole o all’ombra della Croce,

 tutti travolge il turbine dell’oro;

o Musa - oimè! - che può giovare loro

 il ritmo della mia piccola voce?

 Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro...


 L’alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,

dal cuore in mano e dalla fronte alta!

Oggi l’alloro è premio di colui

 che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta

per far di sé favoleggiar altrui...

Per la cronaca, la poesia è del 1909 e il ciarlatano che sale alla ribalta tra squilli di tromba è, molto probabilmente, D'Annunzio.
No, perché, a voi chi è venuto in mente?
Saluti allusivi, basiti e inutili.

lunedì 18 febbraio 2013

Il menestrello, l'uovo e la gallina


"C'è un posto uovo e uno gallina,
chissà dov'è.
Se non sai chi sia nato prima
dentro di te.
C'è un posto in pace e un posto in guerra,
chissà dov'è.
In piedi o tutti giù per terra,
dentro di te.
E un posto dove ci son io,
che cerco un posto tutto mio
lì di fianco a te!"


Era abbastanza ovvio che il ricciuto menestrello, francescano cantore di pulci d'acqua, cervi, lupi, uccelli e altre bestiole si ricordasse anche delle galline.
Le parole, in realtà, sono di Faletti, che come scrittore, diciamo così, sospendo il giudizio, ma come autore di canzoni va già meglio....
Saluti sempre più pennuti!

martedì 12 febbraio 2013

Scherzi da prete...

Mi dimetterei volentieri anch'io dalle mie troppe inutili paure e dalle mie altrettanto inutili, ma tenaci, fantasie.
Mi dimetterei volentieri anch'io da quel misto di timidezza e arroganza con cui mi tocca fare i conti ogni giorno nel rapporto con gli altri.
Mi dimetterei volentieri anch'io dalle nozze d'argento con la solitudine.
Mi dimetterei volentieri anch'io dai dubbi, dalle incertezze, dalle vane speranze.
Mi dimetterei volentieri anch'io dai doveri non voluti e dalle scelte che non si possono rimandare all'infinito.
Mi dimetterei volentieri anch'io da una fede che mi offre, al momento, più domande che risposte.
Ma non credo di esserne capace.
E allora tiro avanti, convinta che anche questa bufera passerà e troverà un senso, anche se la cosa, adesso, non mi consola.
Ma è così.
E così sia.

martedì 5 febbraio 2013

Fare un fuoco

"Confine e fuoco / questa è la direzione dello sguardo"
(Roberto Mussapi)

Fatemela prendere alla lontana, che me la voglio godere un po'.
Ai tempi quasi felici nei quali noi si faceva la rivista di cucina, mi capitò di accompagnare in auto una bambina che, assieme ad alcune amiche, avrebbe preparato i biscotti per un servizio fotografico. Ad un certo punto raccontò con emozione di aver imparato da poco ad accendere il fuoco. Il fuoco "serio", quello con la legna, non, ovviamente, il fornello a gas.
Ci siamo capite al volo, perché anch'io avevo bene in mente quella particolare emozione che, credo, ci venga da molto, molto lontano.
E anch'io di fuochi ne ricordo tanti, dai più classici, come quelli dei bivacchi scout da bambina, ai più recenti anche se, devo ammettere, ho perso un po' la mano.
A capodanno 1999-2000 tenni a bada, oltre ad un manipolo d'amici, anche un caminetto e una vecchia, deliziosa, stufa Becchi. A quest'ultima avevo imparato a chiudere lo sportellino leggermente sbilenco con un solo colpo di tacco ben assestato. Tacco da tre centimetri, s'intende.
Qualche anno prima, nella casa di campagna di un'amica, nel mezzo di una cospicua nevicata, mentre lei si divideva tra gli altri ospiti e l'attesa di un improbabile principe azzurro scoraggiato dalla tormenta, mi ritrovai a gestire una cucina economica e una stufa in ghisa, perché nessun altro aveva tempo e voglia di occuparsi del fuoco.
E vado molto fiera della foto che Dani mi ha fatto l'autunno scorso, quella in cui brandisco con aria tra il divertito e il minaccioso un attizzatoio accanto al barbecue: sono stata tentata di metterla nel mio profilo di Linkedin, ma ho pensato che non era molto rassicurante per i potenziali clienti della società per cui lavoro...
Accendere, anzi, fare un fuoco (perché "Un fuoco, all'inizio, va curato, nutrito e vestito..." accenderlo non basta), infatti, è uno dei gesti simbolici più antichi e universali che esistono.
E' discrimine tra civiltà e barbarie, dono divino e dannazione: Vesta, Prometeo, Efesto... E anche se oggi la definizione della donna come "angelo del focolare" ci fa sorridere o arrabbiare, a seconda dei contesti, c'è dietro il ricordo del tempo in cui nei documenti, per indicare il numero di famiglie presenti in un determinato territorio, si contavano semplicemente i "fuochi": luce, calore, cibo e, chiaramente, storie...
Tre anni fa ci provammo ad ascoltare una storia che s'intitolava, appunto, "Fare un fuoco", scritta da Jack London, ritradotta di recente e ripubblicata da Mattioli, animata da Simone Massi e raccontata dal solito Paolini.
Forse ricorderete che l'avventura non era finita benissimo e che a me soprattutto la cosa era rimasta parecchio sullo stomaco. E' vero che, nel frattempo, il racconto me lo sono letto e Paolini dal vivo ce lo siamo goduto in Itis Galileo e nel Milione, ma giovedì scorso, finalmente, abbiamo regolato i conti con quella storia. E ne sono felice.
Niente grandine stavolta, e niente montagne, ma nebbia fitta e incroci infidi fino a Reggio Emilia. A guidarci F., che tre anni fa ci smarrì per bellissimi boschi trentini, mentre tentavamo invano di riuscire a vedere almeno la replica. Direi che s'è fatto perdonare e lo ringrazio.
Il Valli è bellissimo e gremito. Per un paio d'ore, al calduccio del loggione, ci beviamo racconti di "Uomini e cani" persi nel grande nord.
Cani, soprattutto: Macchia, furbo fino all'esasperazione (dei padroni), Bastardo (un nome, un destino...), l'husky che assiste alla semplice e spietata fine del suo padrone, custode del fuoco. E uomini che tentano con le unghie e i denti, come cani, d'afferrare un'altra vita, fuori dalle regole: il vagabondo clandestino sul treno (toh, strano, Paolini che parla di treni...) e l'immigrato nascosto sotto un camion che trova la morte a Venezia.
Belle anche le canzoni, originali o tradizionali, interpretate dalla voce intrigante di Lorenzo Monguzzi; ma la parola stessa, a tratti, diventa ritmo incalzante e musica tra le mani di questo attore quasi cinquantasettenne che si sceglie ogni volta le storie giuste da raccontare e il modo migliore di raccontarle.

martedì 29 gennaio 2013

Il regalo più bello

Paolo ha occhi sornioni, l'accoglienza schietta e un po' schiva dei montanari.
L'ho conosciuto tempo fa per lavoro, quando ancora i piccoli comuni avevano i soldi per fare un giornalino, e ogni tanto mi capita di rivederlo.
Paolo, ogni tanto, mi regala un racconto: lo sceglie con cura dalla sua raccolta di storie vere, quasi vere o inventate che gli sono accadute o che s'è sentito raccontare dai vecchi quand'era bambino e che, a sua volta, si sente chiamato a tramandare.
Il primo, struggente, parlava di un ramarro innamorato di una bella casellante; il secondo di un merlo incantato da una serpe.
Sono storie semplici, garbate, senza particolari pretese letterarie, ma nelle quali si respira qualcosa delle atmosfere di Rigoni Stern e Mauro Corona: il realismo un po' magico di chi è abituato a osservare e ascoltare animali, boschi e montagne, oltreché persone.
Il solo fatto che gli sia venuto in mente di donarle a me, la cittadina che a malapena conosce, mi commuove profondamente e mi riempie di gratitudine.
Lui non lo sa - o forse sì? - che non poteva farmi un regalo più bello.
Paolo ha 84 anni.

mercoledì 23 gennaio 2013

Qualcuno era vintage perché...

"Un vecchio e un bambino si presero per mano
e andarono insieme incontro alla sera"
.
(Francesco Guccini)

Come forse ricorderete, tra i miei peccati di gioventù c’è stata anche la militanza in una specie di coro, nelle retrovie, ovviamente. Ne uscii al second’anno d’università, un po’ perché mi ero stancata, un po’ perché mi illudevo che diradando gli impegni sarei riuscita a non finire fuori corso, ma anche perché ci piombarono tra capo e collo un manipolo di agguerritissime bambine dalla bella voce, totalmente prive di panico da palcoscenico, che pretesero e ottennero di rinnovare il repertorio, costituito per lo più da canzoni italiane degli anni '60, che al nostro maestro ricordavano tanto la gioventù.
Si passò così dai Nomadi a Britney Spears. Non era questione di invidia. Sapevo benissimo che quel che facevano loro a me non sarebbe riuscito e non m'importava: non ho mai avuto aspirazioni da rockstar, mi bastava divertirmi a cantare cosa che, invece, accadeva sempre meno.
Pensandoci ora, credo di aver capito perché: il repertorio vintage era buono sia per noi, sia per il nostro "pubblico". Per noi, che andavamo dai 12 ai 20 anni, era un terreno inesplorato, che non ci apparteneva e, dunque, imparavamo le canzoni e le cantavamo in maniera piuttosto imparziale, scoprendo a volte qualcosa che ci piaceva - e che probabilmente non avremmo conosciuto in altro modo - e non facendoci grossi problemi per quel che non ci piaceva, perché non era roba che ascoltavamo normalmente e di cui discutevamo con i coetanei.
Per il nostro pubblico (se così si può definire...), composto da pensionati dei circoli Arci o parrocchiali (perfetta par condicio) nei quali ci esibivamo, e da genitori, nonni e fratelli nostri o dei membri degli altri gruppi con i quali partecipavamo a qualche rassegna, il repertorio andava bene perché era sufficientemente datato per essere noto - e spesso gradito - a più generazioni e per non appartenere più a nessuna.
Non è vero, infatti, che la contemporaneità, obbligatoria ora in ogni campo, non solo in quello musicale, favorisce la comprensione. A volte, anzi, crea più barriere di quelle che ci si illude di abbattere inseguendo la moda del momento.
Per questo ringrazio il maestro del coro che mi ha imbottito di Nomadi-Guccini-Battisti-Zero-Morandi-Pooh, come ringrazio i miei genitori che mi hanno regalato assaggi dagli anni '30 (le canzoni delle nonne), ai cori alpini all'opera. E ringrazio anche gli insegnanti che mi hanno fatto leggere testi vecchi di secoli (talvolta di millenni), che, molto probabilmente non sarei stata in grado (né avrei avuto voglia) di scoprire e affrontare per conto mio.
Perché mi hanno dato degli strumenti per dialogare con generazioni diverse dalla mia, impedendomi di vivere in un eterno e autoreferenziale presente.
Questo, credo, sia uno dei compiti degli educatori.
Perciò resto sempre un poco perplessa quando leggo, ad esempio, del nuovo "liceo sportivo", nel quale ore di latino e storia dell'arte (sic!) saranno sostituite da ore di educazione fisica. Così come non credo che l'informatizzazione spinta possa risolvere i problemi della scuola.
A conoscere e praticare gli sport e a imparare ad usare strumenti elettronici, infatti, i bambini son capaci anche da soli - per quanto sia necessario, ovviamente, dare loro delle "linee guida" - così come da soli (o, meglio, assieme ai coetanei) son capaci di leggere Harry Potter (già un po' datato), o di ascoltare la pop star di turno, che non è quella dei genitori, ma nemmeno quella dei loro fratelli di pochi anni minori: perché i successi sono quanto mai passeggeri e dettati più da regole commerciali che da questioni estetiche o di valore.
Alzi la mano chi di voi, invece, avrebbe letto da solo Shakespeare o Leopardi, che pure spalancano mondi d'immagini e di pensieri che è possibile condividere con altre persone di altre età e altre provenienze, gettando un ponte tra epoche e generazioni. Cosa che riuscirebbe molto più difficile facendo riferimento al presente, nel quale siamo immersi e che, perciò, è difficile anche giudicare e interpretare.
E compito della scuola (e degli educatori) non è forse quello di dare, oltreché nozioni, anche strumenti di giudizio?
Intendiamoci, non sto idolatrando il passato, né contestando le riforme. Credo che si debba e si possa ricalibrare i programmi, dare più spazio ad autori più recenti ma in qualche misura già "classici", far entrare nella scuola la quotidianità, ma senza esagerare.
Perché ho il forte sospetto che sia nonostante tutto più facile (e anche più bello) far capire ai ragazzi cosa dovrebbe essere la democrazia leggendogli il discorso di Pericle agli Ateniesi, piuttosto che facendoli assistere ad un talk show; o spiegare il significato della parola libertà ascoltando una canzone di Gaber anziché l'inno di un qualche partito...

PS: Ok, confesso, questo post l'ho pensato guardando lo speciale di "Che tempo che fa" di lunedì scorso.
PPS: Ma perché 'ste filippiche le scrivo io e non le mie colleghe insegnanti? Forse perché loro hanno più pudore e più buon senso?
Ai posteri l'ardua sentenza (a proposito di classici!)

lunedì 14 gennaio 2013

C'è grossa crisi...

Vorrei imitare
questo paese
adagiato
nel suo camice
di neve.
(Dormire, G. Ungaretti)

Venerdì mattina, di ritorno dall'ennesima riunione con potenziali clienti, il capo mi piomba in ufficio senza nemmeno salutare e pronuncia la seguente frase:
"E se noi piantassimo tutto e aprissimo una nuova agenzia, che ne so, in Giamaica?!"
Sabato tra le ciose si è cominciato a parlare di vacanze, perché, se "Dopo ferragosto è già Natale" (Costi dixit), dopo Natale, è già ferragosto...
Propongo il letargo fino a marzo.

PS: C'è qualche anima buona che ha visto "Cloud atlas" e c'ha capito qualcosa? No, perché noi ne siamo uscite un tantino confuse. Sarà perché siamo galline o sarà che è un po' contorto? Si accettano ipotesi.

PPS: (del 16 gennaio) Certo che è una soddisfazione vedere per l'ennesima volta la propria città in prima pagina per l'ennesimo scandalo di corruzione dei soliti politici. Sì, il letargo potrebbe essere una soluzione, ma temo dovrebbe durare molto a lungo per potersi risvegliare in un clima (non solo atmosferico) un po' migliore.

venerdì 4 gennaio 2013

Milan l'è un gran Milan

Milano con il sole è diventata ormai una nostra prerogativa. Dovremmo forse farci dare una percentuale, perché, mentre altrove, più di una volta, le nostre gite causano lo scatenarsi degli elementi, la capitale meneghina, finora, sia d'estate che d'inverno ci si concede al suo meglio.
Mattina luminosa, ammirata attraversando Parco Sempione, dove un'incredibile quantità di coppie di neosposi presumibilmente cinesi faceva le foto con i parenti sull'orlo del lago, e nell'anfiteatro semideserto dell'omonima piazza, mentre le mie compagne di viaggio, scendendo i quattro gradini di contorno, s'immaginavano una certa scalinata di Filadelfia...
La prima scusa ufficiale della gita era accompagnare Dani, che doveva andare a Milano per lavoro, la seconda era visitare al Castello sforzesco la mostra di illustrazioni di libri per ragazzi realizzata per celebrare i 150 anni della Salani, terza scusa: rivedere Elisa, che avevo promesso di andare a trovare per le feste. Bastano? Beh, le abbiamo fatte bastare!
E pazienza se, come spesso capita, poi si divaga per bancarelle rosso natalizio all'ombra benevola e arzigogolata del Duomo in una sera prima rosa, poi azzurra, scesa piano sulla piazza gremita.
La mostra è interessante e, tra un piccolo lord e una fata dai capelli turchini, abbiamo ritrovato un antenato del photoshop: la foto di una fanciulla inserita all'interno di un disegno fatto a mano, esperimento grafico innovativo datato 1912, ed anche i precursori di "Porta a Porta": librettucci che, già a fine Ottocento, narravano con dovizia di particolari macabri o scabrosetti fatti tratti dalla cronaca ed erano venduti a poco prezzo per la fame di grottesco che, evidentemente, non è così moderna.
Poi, ovviamente, incorniciate in oro, c'erano le copertine di Serena Riglietti per Harry Potter: sinuose e zeppe di simboli.
Il bookshop della mostra, poco abitato, era curato, guardacaso, dalla Libreria dei Ragazzi; ma anche la libreria a tema religioso nella quale ci siamo infilate lungo il tragitto, con notevoli presepi in legno d'ulivo e il libraio gentile, aveva un suo perché...
Elisa ci aspettava seduta sul bordo della fontana del castello, e anche se la prima cosa che le abbiamo chiesto, dopo i saluti, è stata di portarci a mangiare (erano quasi le due), sono pressoché certa che ci perdonerà, se non altro perché le abbiamo poi fatto da personal shopper per la scelta di una collana; e pazienza se avevamo pareri diversi e quelli di "Ma come ti vesti?", probabilmente, ci cestinerebbero buona parte del guardaroba.
In treno Costi aveva con sé il libro colpevole della magra figura raccontata in un altro post, che le ho sottratto e letto al volo, a parziale discolpa.
Attorno a noi, sia all'andata che al ritorno, tanti bambini tuttosommato quieti, a parte una piccola meraviglia color cioccolata che, diciamo così, ha manifestato con decisione la sua presenza. C'era il bimbetto biondino accompagnato da genitori in su con gli anni che gli stanno facendo scoprire, una ad una, le città. Tra quelle che ancora mancavano hanno nominato Trieste. Non ho potuto che approvare la scelta.
E c'erano quattro preadolescenti di ritorno dalla mostra di Picasso, che si sono sprofondate quasi con la stessa attenzione prima nel maxi catalogo acquistato dalle mamme, poi nei rispettivi videogiochi.
Bambini anche al parco: due, piccolini, che tentavano in tutti i modi di sabotare il papà intento a fare ginnastica (bravi, così si fa!) e uno più grande che, sollevato di peso dalla sua sedia a rotelle e posato su una panchina, si godeva il sole in faccia come il più prezioso dei tesori. Sullo sfondo, immobili e ancor più surreali, i bagnanti di De Chirico umidi di brina.
Eh sì, Milan l'è un gran Milan! Ma altre città, ormai, attendono il nostro ritorno: le scorte di tè alla rosa e bergamotto del Florian, infatti, sono agli sgoccioli...
Ah, e se fra due giorni vi occorre una befana, fatemi un fischio!
Saluti nasuti.

martedì 25 dicembre 2012

Dolcissimi auguri

Dimenticatevi i cake designer che infestano la tv.
Qui si fa quel che si può, ma con affetto...
Auguro a tutti un dolcissimo Natale.
E anche un buonissimo 2013, già che ci siamo.

martedì 18 dicembre 2012

A proposito di galline e di galli...

E’ da un po’ che cerco di pubblicare finalmente qualcosa di allegro, anche in vista delle prossime festività! Dopo la tristezza dei miei ultimi post ci voleva! L’ho fatta forse più tragica del previsto, ma è stato veramente triste soprattutto vedere la sofferenza degli altri… Comunque in tutto questo la gioia di una vita che nasce, che cresce, anche se non sostituisce la persona cara che viene a mancare, dà un forza che non ci si aspettava di avere. A me è successo così come succede, credo abbastanza normalmente, che vedendo crescere un bambino, ritorniamo un po’ bambini anche noi, almeno quanto basta per crescere insieme a lui. Così, tra le varie canzoncine che canto al mio piccolo, ho ritrovato questo canto popolare veneto, Me compare Giacometo, che avevo cantato durante il mio primo saggio di musica in terza elementare. Il canto ha per protagonista un galletto e, naturalmente, le galline del pollaio. Ho detto che si trattava di una cosa allegra, in realtà il galletto in questione fa un brutta fine…ma il mio bimbo ride da matti quando gliela canto, complici il ritmo allegro e la naturale simpatia del dialetto veneto (a proposito: se tra i simpatizzanti c’è un veneto D.O.C. potrebbe fare una traduzione esatta del testo…ma in ogni caso credo che sia ben comprensibile!)
Allora buona lettura!

Me compare Giacometo
el gaveva un bel galeto,
quando el canta el verze el beco
che'l fa proprio inamorar,
quando el canta el canta el canta
el verze el beco el beco el beco
che'l fa proprio proprio
proprio innamorar.
Un bel giorno la parona
per far festa agli invitati
la ghe tira el colo al galo
e lo mette a cusinar,
la ghe tira tira tira
el colo al galo galo galo
e lo mette mette mette a cusinar.
Le galine tutte mate
per la perdita del galo
le rebalta el caponaro
par la rabia che le gà,
le rebalta balta balta
el caponaro naro naro
par la rabia rabia rabia
che le gà.