martedì 5 febbraio 2013

Fare un fuoco

"Confine e fuoco / questa è la direzione dello sguardo"
(Roberto Mussapi)

Fatemela prendere alla lontana, che me la voglio godere un po'.
Ai tempi quasi felici nei quali noi si faceva la rivista di cucina, mi capitò di accompagnare in auto una bambina che, assieme ad alcune amiche, avrebbe preparato i biscotti per un servizio fotografico. Ad un certo punto raccontò con emozione di aver imparato da poco ad accendere il fuoco. Il fuoco "serio", quello con la legna, non, ovviamente, il fornello a gas.
Ci siamo capite al volo, perché anch'io avevo bene in mente quella particolare emozione che, credo, ci venga da molto, molto lontano.
E anch'io di fuochi ne ricordo tanti, dai più classici, come quelli dei bivacchi scout da bambina, ai più recenti anche se, devo ammettere, ho perso un po' la mano.
A capodanno 1999-2000 tenni a bada, oltre ad un manipolo d'amici, anche un caminetto e una vecchia, deliziosa, stufa Becchi. A quest'ultima avevo imparato a chiudere lo sportellino leggermente sbilenco con un solo colpo di tacco ben assestato. Tacco da tre centimetri, s'intende.
Qualche anno prima, nella casa di campagna di un'amica, nel mezzo di una cospicua nevicata, mentre lei si divideva tra gli altri ospiti e l'attesa di un improbabile principe azzurro scoraggiato dalla tormenta, mi ritrovai a gestire una cucina economica e una stufa in ghisa, perché nessun altro aveva tempo e voglia di occuparsi del fuoco.
E vado molto fiera della foto che Dani mi ha fatto l'autunno scorso, quella in cui brandisco con aria tra il divertito e il minaccioso un attizzatoio accanto al barbecue: sono stata tentata di metterla nel mio profilo di Linkedin, ma ho pensato che non era molto rassicurante per i potenziali clienti della società per cui lavoro...
Accendere, anzi, fare un fuoco (perché "Un fuoco, all'inizio, va curato, nutrito e vestito..." accenderlo non basta), infatti, è uno dei gesti simbolici più antichi e universali che esistono.
E' discrimine tra civiltà e barbarie, dono divino e dannazione: Vesta, Prometeo, Efesto... E anche se oggi la definizione della donna come "angelo del focolare" ci fa sorridere o arrabbiare, a seconda dei contesti, c'è dietro il ricordo del tempo in cui nei documenti, per indicare il numero di famiglie presenti in un determinato territorio, si contavano semplicemente i "fuochi": luce, calore, cibo e, chiaramente, storie...
Tre anni fa ci provammo ad ascoltare una storia che s'intitolava, appunto, "Fare un fuoco", scritta da Jack London, ritradotta di recente e ripubblicata da Mattioli, animata da Simone Massi e raccontata dal solito Paolini.
Forse ricorderete che l'avventura non era finita benissimo e che a me soprattutto la cosa era rimasta parecchio sullo stomaco. E' vero che, nel frattempo, il racconto me lo sono letto e Paolini dal vivo ce lo siamo goduto in Itis Galileo e nel Milione, ma giovedì scorso, finalmente, abbiamo regolato i conti con quella storia. E ne sono felice.
Niente grandine stavolta, e niente montagne, ma nebbia fitta e incroci infidi fino a Reggio Emilia. A guidarci F., che tre anni fa ci smarrì per bellissimi boschi trentini, mentre tentavamo invano di riuscire a vedere almeno la replica. Direi che s'è fatto perdonare e lo ringrazio.
Il Valli è bellissimo e gremito. Per un paio d'ore, al calduccio del loggione, ci beviamo racconti di "Uomini e cani" persi nel grande nord.
Cani, soprattutto: Macchia, furbo fino all'esasperazione (dei padroni), Bastardo (un nome, un destino...), l'husky che assiste alla semplice e spietata fine del suo padrone, custode del fuoco. E uomini che tentano con le unghie e i denti, come cani, d'afferrare un'altra vita, fuori dalle regole: il vagabondo clandestino sul treno (toh, strano, Paolini che parla di treni...) e l'immigrato nascosto sotto un camion che trova la morte a Venezia.
Belle anche le canzoni, originali o tradizionali, interpretate dalla voce intrigante di Lorenzo Monguzzi; ma la parola stessa, a tratti, diventa ritmo incalzante e musica tra le mani di questo attore quasi cinquantasettenne che si sceglie ogni volta le storie giuste da raccontare e il modo migliore di raccontarle.

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