mercoledì 23 gennaio 2013

Qualcuno era vintage perché...

"Un vecchio e un bambino si presero per mano
e andarono insieme incontro alla sera"
.
(Francesco Guccini)

Come forse ricorderete, tra i miei peccati di gioventù c’è stata anche la militanza in una specie di coro, nelle retrovie, ovviamente. Ne uscii al second’anno d’università, un po’ perché mi ero stancata, un po’ perché mi illudevo che diradando gli impegni sarei riuscita a non finire fuori corso, ma anche perché ci piombarono tra capo e collo un manipolo di agguerritissime bambine dalla bella voce, totalmente prive di panico da palcoscenico, che pretesero e ottennero di rinnovare il repertorio, costituito per lo più da canzoni italiane degli anni '60, che al nostro maestro ricordavano tanto la gioventù.
Si passò così dai Nomadi a Britney Spears. Non era questione di invidia. Sapevo benissimo che quel che facevano loro a me non sarebbe riuscito e non m'importava: non ho mai avuto aspirazioni da rockstar, mi bastava divertirmi a cantare cosa che, invece, accadeva sempre meno.
Pensandoci ora, credo di aver capito perché: il repertorio vintage era buono sia per noi, sia per il nostro "pubblico". Per noi, che andavamo dai 12 ai 20 anni, era un terreno inesplorato, che non ci apparteneva e, dunque, imparavamo le canzoni e le cantavamo in maniera piuttosto imparziale, scoprendo a volte qualcosa che ci piaceva - e che probabilmente non avremmo conosciuto in altro modo - e non facendoci grossi problemi per quel che non ci piaceva, perché non era roba che ascoltavamo normalmente e di cui discutevamo con i coetanei.
Per il nostro pubblico (se così si può definire...), composto da pensionati dei circoli Arci o parrocchiali (perfetta par condicio) nei quali ci esibivamo, e da genitori, nonni e fratelli nostri o dei membri degli altri gruppi con i quali partecipavamo a qualche rassegna, il repertorio andava bene perché era sufficientemente datato per essere noto - e spesso gradito - a più generazioni e per non appartenere più a nessuna.
Non è vero, infatti, che la contemporaneità, obbligatoria ora in ogni campo, non solo in quello musicale, favorisce la comprensione. A volte, anzi, crea più barriere di quelle che ci si illude di abbattere inseguendo la moda del momento.
Per questo ringrazio il maestro del coro che mi ha imbottito di Nomadi-Guccini-Battisti-Zero-Morandi-Pooh, come ringrazio i miei genitori che mi hanno regalato assaggi dagli anni '30 (le canzoni delle nonne), ai cori alpini all'opera. E ringrazio anche gli insegnanti che mi hanno fatto leggere testi vecchi di secoli (talvolta di millenni), che, molto probabilmente non sarei stata in grado (né avrei avuto voglia) di scoprire e affrontare per conto mio.
Perché mi hanno dato degli strumenti per dialogare con generazioni diverse dalla mia, impedendomi di vivere in un eterno e autoreferenziale presente.
Questo, credo, sia uno dei compiti degli educatori.
Perciò resto sempre un poco perplessa quando leggo, ad esempio, del nuovo "liceo sportivo", nel quale ore di latino e storia dell'arte (sic!) saranno sostituite da ore di educazione fisica. Così come non credo che l'informatizzazione spinta possa risolvere i problemi della scuola.
A conoscere e praticare gli sport e a imparare ad usare strumenti elettronici, infatti, i bambini son capaci anche da soli - per quanto sia necessario, ovviamente, dare loro delle "linee guida" - così come da soli (o, meglio, assieme ai coetanei) son capaci di leggere Harry Potter (già un po' datato), o di ascoltare la pop star di turno, che non è quella dei genitori, ma nemmeno quella dei loro fratelli di pochi anni minori: perché i successi sono quanto mai passeggeri e dettati più da regole commerciali che da questioni estetiche o di valore.
Alzi la mano chi di voi, invece, avrebbe letto da solo Shakespeare o Leopardi, che pure spalancano mondi d'immagini e di pensieri che è possibile condividere con altre persone di altre età e altre provenienze, gettando un ponte tra epoche e generazioni. Cosa che riuscirebbe molto più difficile facendo riferimento al presente, nel quale siamo immersi e che, perciò, è difficile anche giudicare e interpretare.
E compito della scuola (e degli educatori) non è forse quello di dare, oltreché nozioni, anche strumenti di giudizio?
Intendiamoci, non sto idolatrando il passato, né contestando le riforme. Credo che si debba e si possa ricalibrare i programmi, dare più spazio ad autori più recenti ma in qualche misura già "classici", far entrare nella scuola la quotidianità, ma senza esagerare.
Perché ho il forte sospetto che sia nonostante tutto più facile (e anche più bello) far capire ai ragazzi cosa dovrebbe essere la democrazia leggendogli il discorso di Pericle agli Ateniesi, piuttosto che facendoli assistere ad un talk show; o spiegare il significato della parola libertà ascoltando una canzone di Gaber anziché l'inno di un qualche partito...

PS: Ok, confesso, questo post l'ho pensato guardando lo speciale di "Che tempo che fa" di lunedì scorso.
PPS: Ma perché 'ste filippiche le scrivo io e non le mie colleghe insegnanti? Forse perché loro hanno più pudore e più buon senso?
Ai posteri l'ardua sentenza (a proposito di classici!)

Nessun commento: