"Le parole prima cantano, poi dicono qualcosa" (Marco Paolini, Il milione, Campo S. Trovaso, 25 agosto 2011)
Ormai è inutile negarlo: questo per me, Dani e Costi è l'anno di Venezia. E di Paolini, d'accordo, ma stavolta non è tutta colpa mia. Ammetto di aver sobbalzato quando ho letto che avrebbe rifatto, dopo 13 anni, il mio spettacolo preferito nei luoghi ai quali è dedicato; e ammetto anche di aver inoltrato immediatamente la notizia. Ma solo quando mi sono sentita rispondere "perché no?" anziché esser mandata a quel paese, ho cominciato a crederci anch'io. Dani ha preso i biglietti, Costi ha fermato una stanza dalle sue suorine, e io mi sono limitata a trovare un bed & breakfast che ci permettesse di trasformare la fuga in qualcosa di simile a una vacanza. Poi le cose, come pare inevitabile ogni volta che ci muoviamo, si sono maledettamente complicate, tanto che, fino a poche ore prima del treno non sapevamo in quante saremmo partite e quando tornate. Poi per fortuna siamo state tre per tutti e quattro i giorni previsti.
Arrivate nel tardo pomeriggio del 25, oltre allo spettacolo, siamo persino state ammesse alla "conversazione" precedente, tra artigiani che disquisivano della forma delle forcole, noi, che a malapena abbiamo guidato un pedalò! Ci hanno invitato (e aiutato) a sedere sulle barche ormeggiate di fronte allo squero ombroso e silenzioso: io e Costi su una caorlina, l'avventurosa Dani su un sandolo. E' deliziosamente bello imparare i nomi di questa città, che parla una lingua sua anche quando non usa il dialetto. Nella sera caldissima, sedute sui masegni del campo (a seguito, sospettiamo, di un raro caso di overbooking teatrale), queste parole ce le siamo lasciate dire volentieri e, nei giorni successivi, ci siamo scoperte a ripetercele (non solo io, vi giuro), nel nostro vagabondare e a trovarle vere. Anche noi - come ha affermato il nostro durante la conversazione, perdendo per un attimo la sua aria torva (ma fascinosa: l'ha detto Costi!) - abbiamo vissuto a lungo sull'onda di un'emozione; perché è inutile: al di là della loro bellezza, che può anche essere oggettiva, siamo noi che diamo senso alle cose, caricandole di ricordi e aspettative. Così abbiamo sorriso a ogni barca da trasporto che incontravamo, ricordandoci del Gatto e del suo "mototopo", abbiamo letto su un campanello il cognome "Sambo", proprio come il misterioso personaggio che guida Marco nella sua "Odissea in Iliade", e sentito due anziani cantare la stessa serenata cantata da lui.
Il giorno dopo abbiamo deciso d'andar per isole, vergognandoci un poco d'intrupparci nel "triangolo delle bermuda del turismo mondiale". Forse è per questo che a Murano non siamo riuscite a vedere la classica dimostrazione della lavorazione del vetro; in compenso a Burano, dove Dani non era mai stata e io e Costi siamo tornate volentieri, siamo riuscite a cogliere il momento in cui, terminata l'orda amata-odiata, gli abitanti, pian piano, si riappropriano della città. Vecchietti uscivano sostenendosi a coppie per la loro passeggiatina, robuste signore piazzavano sedie nei campielli per conversare al fresco.
Sabato abbiamo passato una mezza giornata a prenderci in giro pensando che, tra le nostre mete, era previsto un pellegrinaggio alla chiesa delle Zitelle alla Giudecca. L'abbiamo trovata chiusa. Dite che è un buon segno? Forse sì, visto che, a San Giorgio Maggiore, appena entrate a visitare una mostra d'arazzi antichi e moderni, collaterale alla Biennale, una guida ci chiesto da dove venivamo e ci ha detto - testuale - che avevamo dei visi dolcissimi (a me è venuto in mente Tiziano Scarpa quando parla dell'espressione dei "serenissimi" veneziani, storditi dalla bellezza che li circonda ogni giorno: forse basta un giorno a ridursi così); mentre al piano di sopra un'altro ci ha permesso di camminare a piedi nudi sulle opere d'arte...
Il Lido, che all'inizio ci era parso quasi romagnolo, ci ha regalato scenari oceanici e letterari: la spiaggia poco affollata era spazzata da un vento caldo, che sollevava nuvole di sabbia dorata oltre le file delle cabine dal sapore primonovecentesco, fino a lambire lo scheletro del Grand hotel des bains, quello di "Morte a Venezia". Abbiamo attraversato controvento il cantiere della mostra del cinema che s'aprirà tra pochissimo, tra operai indaffarati e bagnanti, in un'atmosfera vagamente surreale. A sera, alla Giudecca, ci siamo dovute "accontentare" della chiesa del Redentore, sbirciata con discrezione durante un matrimonio, e di una messa in Sant'Eufemia, abbassando di colpo la media d'età dei partecipanti. Osservando enormi navi da crociera di ogni parte del mondo attraversare lentissime il bacino, abbiamo scoperto di non invidiarne troppo i passeggeri. Ci siamo concesse una passeggiata notturna in una piazza San Marco poco affollata e con un principio d'acqua alta. Nelle pozzanghere nere si riflettevano lampioni e marmi dei palazzi, mentre una coppia elegantissima di stranieri improvvisava un tango davanti al Florian.
Ci siamo tornate la mattina dopo e pareva un altro mondo. Ma noi siamo entrate in Palazzo Ducale dall'uscita, dove una mostra di Monika Bulaj (fotografa innamorata dell'oriente che, guardacaso, ha lavorato anche con Paolini) ci ha riportato subito altrove. A farci tornare coi piedi per terra c'ha pensato l'ansia del ritorno, che ci ha tolto energia e ha reso più complessa la digestione del nostro pranzo a base di "cicchetti". Abbiamo provato a perderci per strade nuove, per vedere ancora qualche angolino da ricordare e ci siamo infilate in tutte le chiese che incontravamo lungo il percorso incappando in Tiziani e Tintoretti. Poi, strette con le valigie sul vaporetto affollato di tutte le lingue, abbiamo ascoltato emergere a tratti, morbida e invitante, quella di chi rimane. Sul treno eravamo silenziose: stanche certo, ma anche svuotate e malinconiche.
E stanotte io, piantata di nuovo in mezzo alla pianura padana, nella mia città che amo e in cui mi riconosco, ho sentito che mi mancava l'acqua sotto i piedi. Certo non basta questo a farci promuovere da turiste a viaggiatrici, ma è comunque una bella illusione...
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4 commenti:
Che struggente descrizione...
peccato che non mi abbiate chiamato, avremmo potuto bere un ombra assieme ;-)
sarà per la prossima...
Grazie. T'abbiamo pensato, sai, ma essendoci la possibilità di ritorni precipitosi, ci dispiaceva dover poi disdire. Come avrai capito, però, ormai la città ci ha prese e torneremo.
Questo è uno di quei casi in cui mi spiace essere astemia; ma le mie amiche non lo sono e terremo buono l'invito!
Un abbraccio.
Tentativo numero 250: Prova, prova, prova....
Pronto? Pronto? C'è nessuno in casa?
Simo, sei proprio tu?
Dai che forse stavolta siam riuscite sul serio a sbloccare i commenti!
Che bello!
Torna presto a mettere il becco tra noi...
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