lunedì 6 settembre 2010

Si va per santuari...

Ovvero: come imbucarsi in gite parrocchiali altrui. Non è difficile, basta avere un'amica che organizza il pellegrinaggio e si trova con la corriera mezza vuota che telefona a un'amica che a sua volta... Insomma, è più o meno così che Costi, Dani e io, in quest'ultimo scampolo d'estate, siamo finite ad ingrossar le fila (ed abbassare la media d'età) di una comitiva diretta a S. Luca, Fonte Avellana, Loreto, Portonovo e Ancona.
La prima tappa bolognese è stata una piacevole sorpresa: abbiamo visitato finalmente la chiesa sul colle, vista sempre solo dal treno. Siamo entrate all'ora del risveglio, tra pochi pellegrini assonnati, patiti del jogging che annaspavano per l'interminabile portico che la collega alla città, un buffo prete vecchio e secco che pareva uscito da un film western e giardinieri che tosavano aiuole profumate di menta. Poi un lungo tuffo fino all'appennino marchigiano con tornanti quasi alpini fino all'eremo citato da Dante e descritto (stavolta non è colpa mia, la meta non l'ho scelta io) da Rumiz. Il fiorentino ne ha cantato l'asprezza selvaggia, il triestino ne esaltava il silenzio, noi ci siamo ritrovate nel mezzo di una comitiva di laziali caciaroni, ma, dentro le mura spesse due metri dell'antica chiesa e sotto gli archi bassi del chiostro il tempo riesce ancora a fermarsi e l'incanto rimane. Io, poi, amo a prescindere i monasteri camaldolesi, peccato che, a quanto pare, l'amore non sia ricambiato: scendendo verso Loreto sul pullman traballante mi ha preso una nausea che non ricordavo dai tempi della corriera Camaldoli-Bibbiena. Per questo, più che per un eccesso di devozione, appena arrivata ho provato l'intenso desiderio di baciare la terra.
La città del santuario la sera è silenziosa e spopolata come un qualsiasi paesino dell'entroterra, con l'unica differenza della cupola illuminata che la sovrasta e racchiude lo scrigno barocco nel quale, ancor più bella per contrasto, si cela la casa nuda di Maria, che - angeli a parte - pare sia proprio quella. Portonovo è un paese invisibile, con ville nascoste tra gli alberi e la spiaggia di ciottoli chiari di un fascino (e di una trascuratezza) già meridionale, su cui si affaccia una chiesa romanica semplice e luminosa che, purtroppo, abbiamo potuto vedere solo da lontano, coi piedi a mollo nell'acqua tiepida, perché in restauro. Ancona è in salita, come la Genova di Caproni, con vestigia romane e rinascimentali incastrate tra i capannoni del porto. Il suo duomo la guarda dall'alto con il campanile staccato dal corpo della chiesa, come quello di Caorle, secondo una tradizione orientale che percorre tutto l'Adriatico. Prima di ripartire abbiamo anche fatto in tempo a vedere una sposa elegantissima, la quale probabilmente non saprà mai che, poco prima del suo arrivo, mentre il quartetto d'archi provava marce nuziali e un estemporaneo (spero) "farfallone amoroso, un sagrestano per poco non si accapiglia con le fioriste che finivano di sistemare gli addobbi. Siamo tornate verso le dieci piuttosto cotte e, mentre Costi e Dani si consolavano pensando di avere tutta la domenica per riprendersi, a me già montava l'ansia per la settimana di fuoco che mi aspetta e gli effetti benefici del pellegrinaggio sono spartiti in un istante, ma almeno mi sono tolta la soddisfazione, dopo anni, di cantare in corriera.
Come sempre un grazie alle mie inossidabili e pazienti compagne d'avventura e... a quando (e dove) la prossima gita?

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