lunedì 23 dicembre 2013

In una notte...

"In una notte come questa,
in una notte come questa l’anima,
mia compagna fedele inavvertita
nelle ore medie
nei giorni interni grigi delle annate,
levatasi fiutò la notte tumida
di semi che morivano, di grani
che scoppiavano, ravvisò stupita
i fuochi in lontananza dei bivacchi
più vividi che astri. Disse: è l’ora"
.
(Mario Luzi, Epifania)

Auguri a tutti gli amici piumati e spiumati, a ciose, galline, pulcini, ciosi e galletti assortiti.
Un abbraccio e un frullo d'ali!
Cri

venerdì 13 dicembre 2013

Il dono che mi desti

Diciamo la verità: non ci siamo amati molto nei cinque anni in cui ci siam visti sei mattine su sette, da settembre a giugno, e io avevo dai sei agli undici anni e tu qualcuno in più dei miei genitori.
Non mi piaceva la tua arrendevolezza nei confronti delle madri che, a differenza della mia, facevano la voce grossa quando sgridavi i loro figli e, di conseguenza, la disparità di trattamento che riservavi ai miei capricci e ai loro; non mi piaceva che mi prendessi in giro quando piangevo per un nonnulla, anziché consolarmi e, forse, qualche volta, mi annoiavi anche un po' con la tua voce sottile e monocorde…
Però, a distanza di anni, devo ammettere, maestro, che non sono stata un'alunna facile: alternavo rabbia e lacrime, paura e caparbietà e non ero agevole da maneggiare. Non lo sono nemmeno ora, benché da molti anni cerchi di smussare gli spigoli più odiosi del mio carattere.
Era praticamente impossibile convincermi a smettere di parlare o disegnare o ritagliare - anziché ascoltare le tue lezioni - fintanto che non avevo finito di dire o fare quel che stavo facendo. Dopo - e solo dopo - me ne stavo buona e attenta come volevi tu.
Durante le ore di scuola ho costruito teleferiche di spago per mandare bigliettini agli amici seduti nelle file dietro, ho giocato a flipper con le biro e le palline di stagnola, ricavate dall'involucro dei panini che mio padre preparava per merenda; ho realizzato fondali per spettacoli di burattini incollando tra loro con lo scotch i fogli di quaderno; mi sono persino spostata con tanto di banco e sedia in fondo all'aula, assieme a quello che è stato, per un paio d'anni, il mio migliore amico: bisognava davvero essere meravigliosamente ingenui per immaginare che tu non te ne accorgessi, però, in quel caso, devo riconoscerlo, hai fatto finta di niente, e te ne sono grata.
Soprattutto, però, ti sono grata per avermi insegnato a scrivere.
Lo so che era semplicemente il tuo dovere, compiuto per anni per centinaia di bambini e, diciamolo, con correttezza, ma senza brillare d'entusiasmo. Però, per me, è stato un dono grandissimo.
Me ne rendo conto ora, quando ti incontro invecchiato e incurvato, con la voce ancor più sottile e tremante, ora che sono più alta di te, che sei sempre stato un omino minuto: un sarto mancato sceso in città dagli Appennini per studiare e trovare un posto fisso, quando era ancora possibile. E, soprattutto, me ne rendo conto quando, un volta all'anno, in questo periodo, mi chiedi un articolo per il giornalino parrocchiale e io, dopo averlo imbastito ad ore improbabili della notte, te lo mando via mail sperando che abbia un senso e pregandoti, per favore, di correggerlo.
Quasi quasi m'immagino che me lo rimandi indietro con annotazioni rosse e blu e un voto in fondo alla pagina, come quasi trent'anni fa. E provo ancora la stessa trepidazione di allora. A essere sinceri, la provo ogni volta che mando a qualcuno qualcosa che scrivo, o che pubblico qualcosa qui o altrove. Perché per me la scrittura è molte cose: un lavoro, che mi permette di avere un seppur magro stipendio facendo qualcosa che amo e per cui ho studiato (il che, di questi tempi, non è poco!); è un supporto alla mia pessima memoria, che si nutre di appunti e post-it, e un grimaldello per la mia timidezza. Infine, inutile dirlo, è uno sfogo, un rifugio, un passatempo, una consolazione.
Allora grazie, maestro, davvero, per ogni singola lettera, sillaba e parola che mi hai insegnato, per ogni racconto e per ogni poesia che mi hai fatto leggere e imparare a memoria (qualcuna me la ricordo ancora!), perché mi hai dato gli strumenti con i quali posso anch'io tentare, alla meno peggio, di procurarmi la mia dose quotidiana di bellezza e libertà.

lunedì 2 dicembre 2013

AA: Assemblatori Anonimi

"Ciao mi chiamo Cri".
"Ciao, Cri, benvenuta. Te la senti di raccontarci la tua storia?"
"Va bene, proviamo…"
In principio furono due innocue scrivanie: quattro tavole di legno, quattro binarietti e una manciata di brugole. E già allora, pur consapevole che anche un bambino ci sarebbe riuscito, devo ammettere che provai una certa soddisfazione.
Qualche giorno dopo tentai con una cassettiera: era un modello basico, senza pomoli né piedini; ma comunque, oltre ai binarietti e alle brugole, fecero la loro comparsa tasselli e chiodini.
Poi, per alcuni anni più nulla. E quasi mi dimenticai della faccenda. Finché, dalla scorsa primavera, complice una casa da arredare con il mio magro stipendio, ahimè, ho ricominciato.
Subito mi sono accontentata di un paio di surrogati di un'altra marca: un carrellino per la cucina parecchio traballante con cassettini già pronti in rete metallica e ruotine da incastrare a pressione; e un già più impegnativo porta cd che, per diventare tale, partendo da una spirale di lamiera e dei quadretti di compensato, aveva bisogno di quaranta (40!) viti.
Poi ci si sono messi anche i miei, regalandomi una monumentale cassettiera blu, rimasta per mesi chiusa nelle sue brave scatole, prima che trovassi il coraggio di metterci le mani; ma alla fine, dopo tre dopocena di duro lavoro, ne ho avuto ragione.
Ricordo di aver provato, allora, una punta di orgoglio solo in parte giustificato dal fatto che, stando alle istruzioni, bisognava essere in due per dominare l'arnese; mentre io me la sono cavata, inevitabilmente, da sola.
Fu così che osai il divano. Appena vidi lo scatolone torreggiare in mezzo alla sala, l'ho guardato con la stessa emozione di quando avevo cinque anni, pensando a quali meraviglie avrei potuto inventare avendo a disposizione quella quantità incredibile di cartone.
Solo dopo qualche minuto di contemplazione mi decisi ad aprirlo per scoprire che il contenuto, benché apparentemente innocuo, così bianco e imbottito, nascondeva un'animo insidioso, come appurai quando una vite sfuggita al controllo, tentò, fortunatamente senza successo, di centrarmi un occhio.
Dopo qualche settimana mi sono resa conto che in camera, oltre all'armadio, mi occorrevano almeno un comodino e una cassettiera. E così ho avuto una ricaduta.
Anche ieri sera, purtroppo, ho ceduto: tirando la mezzanotte in compagnia di un mobiletto del bagno (quattro ripiani, quattro piedini, uno sportello) e di un'esile scaffalatura in bambù.
Adesso basta, però! Perché le stanze sono sufficientemente arredate e il portafogli sufficientemente sguarnito; inoltre, ho sulle mani calli che neanche un carpentiere: nemmeno Sherlock Holmes riuscirebbe a indovinare, osservandole, quale sia il mio vero mestiere.
Badate: so benissimo che, in realtà, è un inganno; che il vero lavoro non l'ho fatto io ma gli ingegneri/designer che hanno progettato tutto fino all'ultimo incastro e la bassa manovalanza sfruttata in qualche parte del mondo che ha tagliato e forato i pezzi al millimetro (o quasi), ha dato forma alla ferramenta e inscatolato il tutto a mio uso e consumo.
Però il signor Ikea ha avuto un'idea geniale: ha capito che tutti noi, animaletti tecnologici, coviamo il desiderio di costruire qualcosa con le nostre mani, di dire "questo l'ho fatto io", anche quando sarebbe più corretto dire "l'ho assemblato io". Perché se l'avessi fatto davvero io nessun altro al mondo avrebbe un oggetto uguale; mentre la cassettiera di cui vado orgogliosa se ne può stare identica in un salotto di Roma, in una camera di Stoccolma o in un bilocale a Parigi. Ma il brivido rimane, ed è forse uno dei pochi segni di resistenza dell'uomo a rassegnarsi ad essere solo un utente e un acquirente di cose fatte da altri. E che anche questo brivido sia stato trasformato in un business è affascinante e inquietante allo stesso tempo. Eppure l'esserne consapevoli non azzera il piacere.
Ah, dimenticavo: se vi occorre una mano a montare un mobile… fatemi un fischio.
Argh, no, ci sono ricascata: dovrebbero scrivere nelle avvertenze che le brugole possono dare dipendenza!