lunedì 26 agosto 2013

Tre galline a Senigallia

"Tre galline a Senigallia
fan pollaio, non si sbaglia:
tra il castello e il lungomare
stanno sempre a chiacchierare..."
(da una cartolina)

Perché Senigallia? Beh, a parte l’assonanza, perché ne avevamo sentito parlar bene anni fa, perché non c’eravamo mai state e ci si arriva in treno senza cambi; e perché è una città antica, con tanto di castello e, quindi, ha un’anima, nascosta dietro i chilometri di lungomare affacciati sulla sua “spiaggia di velluto”. Chilometri che ci siamo fatte per lo più a piedi, visto che la pensioncina che ci ha ospitato per l’annuale settimana di vacanze era, secondo la felice definizione di Costi, “lontana nel tempo e nello spazio”.
Nel tempo perché, inaugurata negli anni ’50, conservava ancora, oltre a qualche mobile d’epoca frammisto all'arredamento moderno, anche una cert’aria vintage: gestione famigliare, foto in bianco e nero alle pareti, niente bancomat né ascensore, menu unico (ben cucinato, a dire il vero), e a chiedere se, per favore, poteva dare un’occhiata a internet per motivi di lavoro, sempre Costi s’è sentita rispondere: “Va bene, ma fai presto e non disturbare mia mamma che dorme qui a fianco”.
Nello spazio perché distante tre chilometri abbondanti dal centro storico e dalla stazione. In compenso, però, era vicinissima alla ferrovia, i cui binari correvano lieti, dopo una fascia d’orti e giardini colmi di farfalle, a venti metri dal balcone della nostra stanza…
Se però vi siete fatti leggendo l’impressione che fosse un postaccio, no, non lo era affatto: pulito, ordinato e popolato da una colorita fauna d’avventori, che andavano dalla comitiva di arzille e ciarliere vecchiette in fuga da mariti, figli e nipoti, alle famigliole con pargoli piccoli, simpatici e non troppo distruttivi, alle coppiette stranamente assortite: una, di giovani, aveva un’aria garbata, non fosse per le manette che entrambi avevano tatuate sul polpaccio; mentre un'altra, di ultraquarantenni, era formata da una lei piena di problemi che sciorinava a getto continuo anche in spiaggia (eravamo vicini d’ombrellone) e da un lui che ascoltava rassegnato e silente e, ogni tanto, si faceva un pisolino nascosto dietro gli occhiali da sole.
I proprietari, lui marchigiano con un’espressione tra il gentile e l’inquietante, rasserenata da rari sorrisi, lei francese, con un delizioso accento e abbigliamento casual-sportivo indossato con una strana eleganza, hanno cercato di venirci incontro. Prima ci hanno fornito di un abbonamento all’autobus. Poi, quando abbiamo fatto loro notare che gli orari dei suddetti, oltre ad essere più difficili da decifrare di un codice del kgb, erano anche assolutamente aleatori, ci hanno dotato di biciclette. Vintage anche quelle, ovviamente: tre deliziose “Grazielle” grigie con sedili tutt’altro che ergonomici, una senza luci, l’altra con la sola luce davanti e la terza con la sola luce di dietro funzionanti e un solo lucchetto per chiuderle.
Un po’ con queste, un po’ acchiappando autobus a sentimento, ma più spesso a piedi sul lungomare (“Ma quanto è lungo 'sto lungomare!?” “Dai, pensate a quanto rassoda!”), abbiamo raggiunto la celebre “Rotonda”, bianca e protesa sul mare come nella canzone, e da lì, poi, il paese. Abbiamo visitato la Rocca roveresca, attraversandone scale e saloni in quasi perfetta solitudine, il Foro annonario con i portici occupati da localini sfiziosi, i Portici ercolani, il Palazzo del duca, dove c’era una bella mostra di foto, e persino una scuola, nella quale un paio di sale sono allestite a museo dove sono conservati banchi, libri, registri, sillabari e altri oggetti del tempo che fu. Una sera abbiamo dato la caccia a una mostra di Diabolik, sfuggente quasi quanto lui, perché sul volantino che la pubblicizzava, molto furbescamente, non era indicato il luogo…
Oltre a goderci un po' di mare ("Mmmh, è un po' insipido", ho commentato annaspando con la consueta malagrazia), una mattina bigia abbiamo preso due treni e raggiunto Genga, da cui partono le visite guidate alle grotte di Frasassi. Peccato che la stessa idea fosse venuta anche a metà dei bagnanti in vacanza sulle coste marchigiane e romagnole, e la fila per i biglietti formasse un lungo serpentone che si snodava entro il cerchio di bancarelle di cibo e chincaglieria varia più o meno a tema con il luogo.
Chiedo a un venditore: “Scusi, ma qui c’è sempre tutta questa gente?” “Eh, magari…” risponde lui. “Che cu… ehm, che curiosa coincidenza esser venute proprio oggi!” dico laconica e ritorno in fila, cercando di immaginare d’avere la pazienza di una stalattite, che cresce di un millimetro all’anno.
Le quasi due ore d’attesa, però, sono ricompensate dall’incredibile bellezza: cascate di pietra d’un bianco scintillante, colonnati, guglie, candelabri, forme d’un eleganza surreale che nemmeno il più visionario artista della Biennale di Venezia sarebbe capace d’immaginarsi, create nei millenni, immense eppure fragilissime, tanto che la guida, che fende la folla fuori ordinanza come una vigilessa (“Fermi! Avanti! A destra! Lasciate passare…”), non fa che ripeterci allo sfinimento di non toccare niente, perché basta il minimo strato di grasso presente sulla pelle delle dita per impedire all’acqua calcarea di continuare il suo lavoro e per far “morire” una concrezione. I laghetti sotterranei hanno una trasparenza mai vista altrove. La maggior parte delle formazioni hanno nomi simpatici: le stalattiti giovani si chiamano “bucatini”, le stalagmiti “candele” o “giganti”, ma la punta di pietra lunga svariati metri e pesante parecchie tonnellate che pende dall’alto di una volta è stata battezzata dagli speleologi “Spada di Damocle” e, in effetti, è molto meno rassicurante…
In un altro giorno di nuvole, vento e mare mosso divaghiamo a Pesaro. Nel tempo di arrivare un cielo turchese si apre sopra la casa di Rossini e il teatro che porta il suo nome e io mi trattengo a stento dal canticchiare pezzi del Barbiere di Siviglia, la prima opera della mia vita; mentre dobbiamo ridimensionare Costi, che, avendo scoperto che la rocca della città porta il suo nome, ne vorrebbe rivendicare il possesso e trasferircisi seduta stante. Nel pavimento del Duomo si aprono finestre di cristallo che permettono di vedere i due strati di mosaici sottostanti, quel che resta delle precedenti basiliche paleocristiane: sirene, colombe, leopardi e altre creature si fanno largo tra complicati intrecci vegetali. Nel selciato di Piazza del Popolo, invece, sono murate riproduzioni di documenti che ricordano l’applicazione in città delle leggi razziali. A Pesaro, infatti, c’era, e c’è ancora, una comunità ebraica. Con Dani che ci guida tra i bei vicoli del centro, staniamo la Sinagoga, purtroppo chiusa; ma dalle finestre s'intravedono gli stucchi del soffitto. Alle spalle del lungomare, corredato dagli inevitabili albergoni, stanno elegantissime ville liberty, tra cui quella in foto, progettata da Oreste Ruggeri. Il contrasto tra antico e moderno si fa parecchio stridente. Persino un garage malandato, che scopriamo essere il primo che, agli inizi del '900 cominciò a vendere le prime automobili Fiat in città, con le sue serrande scrostate azzurro-verdi e la formella in terracotta con auto d'epoca sopra l'ingresso, ha un suo fascino. E rivalutiamo, dopotutto la nostra pensioncina.
La rivalutiamo anche quando, al penultimo giorno di permanenza, mentre ci convinciamo a vicenda ad alzarci per fare colazione ("Dai che se no ci mangiano tutte le brioches!"), l'armadio e i letti si mettono a ballare: non è l'ennesimo treno, ma un terremoto; però, dopo tutti quelli che ci siamo sorbite l'anno scorso dalle nostre parti, non ci turbiamo nemmeno troppo e pensiamo che, infondo, siamo solo al secondo piano.
Come d'abitudine, ci siamo date ai consueti sport vacanzieri cioseschi. Dimenticate beach volley e racchettoni, sto parlando di lettura di libri più o meno seri (la povera Dani s'era portata anche delle bozze da correggere), cruciverba, sudoku, passeggiatine con i piedi a mollo in cerca di conchiglie, sassolini e altri oggetti ("Toh, guarda, una collanina di perline!" "To, guarda, un nastro per capelli" "Toh, guarda, un pupo meraviglioso che gioca con la sabbia... no, quello però non possiamo raccoglierlo e portarcelo a casa!"), oltre a un pochino di shopping (mia madre mi ha vietato di indossare in pubblico i leggins a rigoni bianchi e neri: li abbinerò a una maglietta e ne farò un pigiama) e a tanti gelati.
E così anche le vacanze 2013 sono state archiviate. Restano un poco di sabbia sul fondo delle valigie, lavatrici da fare e una manciata di foto e ricordi da condividere, se vorrete, con voi.


martedì 6 agosto 2013

Punti di vista

"L'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono."
(Protagora, nel Teeteto di Platone)

"Hai una casa in campagna?"
"Sì... per ora."
"C'è la piscina?"
"No."
Il bambino mi spalanca addosso un paio d'occhi celesti parecchio perplessi, ma non demorde.
"E quante camere ha?"
"Due, piccoline, e un soppalco."
Mi guarda ancora più stupito e io decido di rincarare la dose: "E non c'è nemmeno il riscaldamento, soltanto un camino e una piccola stufa di terracotta".
Il bambino è interdetto. Io lancio un'occhiata divertita a suo padre, che mi sorride.
In realtà lo capisco: per lui la casa in campagna è il villone settecentesco del nonno, con una serie infinita di sale, salottini e camere da letto, una cucina grande quanto tutta casa mia, soppalco compreso, giardino, orto, frutteto, laghetto e, chiaramente, piscina. E una famigliola di filippini a tenere in ordine il tutto, perché se no non ce la si fa. Quindi è logico che il piccolo sia stupito, perché ognuno di noi misura le cose col metro della propria personale esperienza. Lo dicevano già gli antichi greci: gente che ha scoperto più cose di noi secoli prima e con meno mezzi di noi e per i quali, come sapete, continuo a nutrire una notevole ammirazione.
Poiché, però, dalle mie parti le cose vanno un poco diversamente e i filippini della questione siamo io e mio padre, è una gran fortuna che la casa sia piccola anzi, quando bisogna ripulirla, tagliare l'erba e pagarci l'Imu, è fin troppo grande e mi ritengo già molto fortunata ad averla e la difenderò finché potrò, benché da sola possa fare ben poco; e non saprei che farmene di un villone del Settecento.
Beh, no, saprei che farmene. E anche di una piscina, soprattutto in questi giorni d'aria rovente e densa come un brodo che fendo in bicicletta alle tre del pomeriggio per tornare al lavoro; però non lo invidio il bambino e gli auguro di cuore che, se un domani dovesse capitare anche a lui di fare un tuffo in una realtà diversa dalla sua non si prenda una panciata, ma, dopo l'inevitabile stordimento, sia capace di adattarcisi senza troppi problemi...
E lo auguro anche a me perché, seppure da una diversa altezza, i tuffi fanno sempre un po' di paura a tutti. Figurarsi a chi non sa nuotare.
E poi non è vero che non ce l'ho la piscina: forse frugando in soppalco con un po' d'impegno posso riuscire a recuperarne una gonfiabile di un metro per un metro; non proprio olimpionica, ma insomma, che volete da me? Sono una gallina, mica una sirena!