Avete mai fatto caso a quanto sono belli i nomi che si trovano sui tubetti dei colori a tempera o a olio? Ci sono cose magnifiche come il blu di Prussia, il nero d'avorio, il bianco di titanio, il bruno Van Dyck, la lacca, il cinabro e la misteriosa "terra d'ombra". Poi ci sono le due "terre di Siena", naturale e bruciata: giallo dorata la prima, bruno rossastra la seconda. Sono molto usate e tutti, credo, ce le siamo trovate tra le mani (e a volte anche sulle mani, sulla faccia e sui vestiti) quando facevamo educazione artistica a scuola, ma viaggiarci dentro per due giorni è tutta un'altra faccenda...
Ancora una volta a caccia di luoghi sacri con la parrocchia dell'amica Francesca (non quella del nostro blog, sebbene anche lei sia stata, anni fa, mia presidentessa), che ogni volta, non si sa come, progettando l'itinerario, riesce ad azzeccare mete che desideravo vedere da una vita.
Quest'anno c'è riuscita con San Galgano, prodigioso scheletro di chiesa cistercense col cielo per soffitto, piantata tra i campi appena arati, e con Lucca, dove noi ciose è da un po' che meditiamo di andare senza mai riuscirci: l'abbiamo assaggiata il giorno dopo la festa dell'Esaltazione della Croce, con i resti delle luminarie ancora appesi alle facciate delle case e delle chiese e un immenso e affollato mercato dell'antiquariato, colmo di chincaglierie varie tra il malinconico e l'affascinante.
Il nostro percorso, infatti, ripercorreva un tratto di via Francigena, dalla Lunigiana fino a Siena, alla ricerca dei luoghi cari ai pellegrini: la pieve di Sorano, con le finestre dell'abside asimmetriche per acchiappare la luce d'oriente, il campanile, che serviva anche come torre di guardia e le statue-stele dell'età del bronzo reimpiegate come architravi; poi Lucca: San Frediano e il Duomo, che si contesero l'onore di ospitare il "Volto santo", un crocifisso decisamente orientale, con la tunica e gli occhi spalancati, che la tradizione - falsa, ma non per questo meno affascinante e significativa - vuole sia stato scolpito nientemeno che da Nicodemo.
In un pilastro sulla facciata del Duomo c'è un labirinto, forse fatto dai templari. A guardarlo viene da pensare che noi saremo pure avanzati e telematici, ma non ci riesce più di fare una cosa che ai nostri antenati riusciva benissimo anche se erano analfabeti: decifrare i simboli.
Il catino di piazza del Campo di sabato sera è pieno di gente accampata: pare piazzale della Pace senz'erba e in pendenza. Avvistiamo da lontano anche un corteo di contradaioli che cantano e sventolano bandiere e l'effetto Medioevo è assicurato. Anche le cameriere del ristorante dove ceniamo hanno vesti medievali, ma con le scarpe da tennis. La più loquace ci porta una ciotola di "ceci piccini del Chianti". Già così suona bene, ma provate a pronunciarlo con le c aspirate e vedrete che è notevole.
Dormiamo in una "casa per ritiri" appena fuori Siena gestita da suore in borghese. E' decisamente vintage: stanzette quasi tutte senza bagno con il lavandino in camera che paiono celle di convento. Nella sua Dani trova appeso alla parete un quadretto con un motto che invita a parlare poco e con giudizio. Chissà perché, leggendolo, mi prende una botta di vergogna.
Al mattino scopriamo che la casa è antica: era di una nobildonna che la donò alla chiesa. Sarà per l'aria un poco decadente o per l'orto che contende spazio al giardino, ma mi ricorda la "Vill'Amarena" di Gozzano, anche se dall'alto non si scorgono "Ivrea turrita e i colli di Montalto", ma tutta quanta Siena, che ha anch'essa il colore delle sue famose terre.
Il giorno dopo arriviamo a Sant'Antimo sfiorando Montalcino (l'intero pullman, compresa me, astemia, pensa al brunello). La pieve è un prodigio romanico in pietra bionda, onice e alabastro in una conca tra gli ulivi. La messa è in latino con canti gregoriani. No, tranquilli, il Vangelo e l'omelia sono in italiano, peccato che il sacerdote ultraottantenne che li pronuncia entrambi è francese e parla come il nonno di Poirot, mentre il giovane frate che fa da chierichetto ha la mano pesante con l'incenso, che sale a scenografiche volute illuminate dalla luce dorata che piove dalle finestrelle sopra i matronei.
Assieme a noi ci sono molti stranieri, forse turisti, ma forse no, visto che molti casali abbandonati nelle campagne toscane che tutto il mondo ci invidia (a ragione!) sono stati salvati da inglesi e tedeschi.
L'ultima tappa è Monte Oliveto Maggiore, casa madre dei benedettini olivetani, tra le cui fila si annoverano valenti pittori, incisori e architetti. Buona parte di ciò che vediamo è opera loro, comprese le tarsie del coro, talmente belle che Napoleone (ladro di buongusto) provò a portarsele via. Il complesso quattrocentesco è tutto in mattoni rossi fatti di argilla locale: ancora la terra!
Ci porta in giro una guida anzianotta e istrionica che si diverte moltissimo a raccontarci i dispetti che il Sodoma (un soprannome, una garanzia!), incaricato d'affrescare il chiostro, combinò ai frati dal braccino corto. Dani ha il sospetto che qualcosa s'inventi, ma lui sostiene di aver letto tutto nelle dettagliatissime cronache dell'epoca, più divertenti dei racconti di Boccaccio.
E' ora di rientrare. Prima di infilarci in autostrada ci godiamo ancora per un po' la vista di paesi circondati da mura, ulivi, cipressi e campi. La luce radente fa più scuri i solchi sinuosi lasciati dall'aratro: sembrano onde, e noi ci naufraghiamo dentro per benino nell'inevitabile abbiocco di fine viaggio...
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2 commenti:
gran bel reportage di viaggio.
Complimenti per la tua capacità di comunicare
Un grosso saluto
Fedele & Elisa
(Sorbolo)
Grazie a voi per la gentilezza, la compagnia e le magie telematiche ;-)
Alla prossima!
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