giovedì 26 aprile 2012

Per le terre basse

Vi garantisco che non l'ho fatto apposta. E' soltanto la prima cosa interessante trovata su internet alla ricerca di una meta adatta a una gita del 25 aprile: Casa Cervi a Gattatico. Nessuna di noi c'era mai stata e, in occasione della ricorrenza, eran previste anche mostre, musica e bancarelle. Poiché è piuttosto vicina e noi s'intendeva starcene in giro più o meno per tutta la giornata, abbiamo pensato di spingerci prima fino al Po. E' stato allora che, sempre scorrazzando in internet, è saltato fuori che a Boretto c'era sagra per il patrono, San Marco, ma v'assicuro che l'unica cosa che ho pensato leggendolo è stata: "Toh, lo stesso santo a cui è intitolata la mia parrocchia". Il dubbio mi è venuto soltanto quando, parcheggiando a tre metri dal porto fluviale, ho visto i nomi dei due pontili: "San Marco" (normale: è il patrono del paese!) e... "Giudecca"! Ho sobbalzato, ma non ho detto niente. E' stata Dani, allora, ad esclamare: "Hai visto? Come a Venezia!". Ho visto sì. Quei nomi paiono un tantino surreali lì, sulla sponda limacciosa del Grande Fiume, con alle spalle l'argine coperto d'erba grassa che nasconde alla vista un paesino che più nostrano non si può. Però, nella piazza su cui s'affacciano sia la chiesa, tanto imponente quanto male in arnese, dedicata, chiaramente, a San Marco, sia il Municipio (un classico da queste parti), sta piantata anche un'alta colonna con sulla cima, udite udite, un leone alato con il Vangelo tra le zampe. Eh no, adesso basta! La questione va approfondita! M'avvicino al basamento e leggo: "Venezia a Boretto tra il giubilo di tutto il popolo, 21 settembre 1958". Siamo sempre più stupite. Ci soccorre un cartellone turistico sul muro del Municipio, che spiega come, nei secoli passati, la città che tanto amiamo e il paesino della bassa fossero legati da stretti rapporti commerciali: fin lì arrivavano le navi della Serenissima a sbarcare le merci da vendere a una larga fetta di pianura padana. E i veneti vi abitarono anche, probabilmente già prima dell'anno mille. Il "giubilo" cui si fa cenno nell'iscrizione, pare si debba al fatto che nel 1958 il paese divenne Comune e festeggiò, ricordando le sue origini, l'indipendenza da Brescello. Già, Brescello. E' da quando abbiamo visto il Po che ci siamo messe a canticchiare la colonna sonora dei film di don Camillo e a immaginarci il prete d'assalto che l'attraversa a nuoto (in realtà la scena fu girata da una controfigura di
Fernandel, che aveva paura dell'acqua). Quindi, considerato che la sagra a Boretto si rivela costituita soltanto da due bancarelle e quattro baracconi, decidiamo di fermarci anche lì. Non è la prima volta che ci andiamo, ma ci aggiriamo ugualmente felici alla ricerca delle atmosfere dei libri e dei film di cui, come tanti in tutta Italia, conosciamo parecchie battute a memoria. Ci facciamo le foto di rito con le statue di Peppone e don Camillo che si salutano ai due lati della piazza; passiamo a salutare il crocefisso parlante (eh, magari!) nella cappellina laterale della chiesa e ci infiliamo nei due musei (sic) dedicati a un'epopea cinematografica durata più di vent'anni. Pranziamo a suon di gnocco fritto (e questo ci ricorda che abbiamo sconfinato in territorio reggiano) e salume in una rosticceria-panetteria-pizzeria-trattoria che più alla buona non si può, conversando con i vicini di tavolino: una coppia di motociclisti pavesi ferratissimi in "doncamillologia". Infine, per strade basse e strette, fiancheggiate ora da argini, ora da campi, ora dal binario unico di quel magnifico treno-giocattolo che è la Parma-Suzzara, raggiungiamo fortunosamente la nostra meta iniziale. O meglio, il parcheggio del Fuori Orario a Taneto, da cui partono i bus navetta per Casa Cervi. Vedendo che non sono pulmini ma corriere da cinquanta posti, cominciamo a sospettare che la faccenda sia più seria di quel che ci aspettavamo. All'arrivo troviamo una marea di gente, spesso accompagnata da bambini, cani e armamentario da pic-nic in piena regola, che bazzica tra gli stand gastronomici e quelli di chincaglieria varia, che affolla i tavoli, l'area attorno al palco e la casa museo con la storia e i cimeli di questa famiglia simbolo della Resistenza. Certo che se prendi in affitto un podere che si chiama "Campi Rossi" ti verrà più difficile fare il fascista! Illuminante più di tante parole la ricostruzione della camera da letto del padre e della madre dei sette (che, per la cronaca, avevano anche due sorelle): sul muro accanto al letto alto, stretto e massicio, da una parte il crocefisso, dall'altra la foto di Togliatti. Avete presente quel verso della canzone di Gaber "Qualcuno era comunista" dove si dice che "il papà, il nonno, lo zio... la mamma no!"?
Devo dire, però, che la cosa che ha mi fatto più impressione è stata una mostra collaterale, dedicata all'educazione nel Ventennio: pagine di sussidiari del tempo in cui s'insegnava la matematica facendo contare i fasci littori e calcolare il costo complessivo di una divisa da balilla. Semplice e agghiacciante, ma non così remoto nel tempo né irripetibile, come ricordava un'opera di un artista contemporaneo di cui non ho fissato il nome, che raffigurava l'ex ministro dell'istruzione circondata da un gruppetto di alunni inebetiti con addosso occhiali per il 3D. Eccessivo, certo, ma interessante come accostamento. Il ritorno è lungo e complicato per via della folla che ha preso d'assalto le navette. A parte quello, la defezione di Costi all'ultimo momento, il solito mio mal di ginocchio e una bieca spia luminosa che ha pensato bene d'accendersi sul cruscotto dell'auto appena partite, direi che è stata una bella giornata. Inutile dirvi che l'ho conclusa bevendomi d'un fiato le tre ore abbondanti di "Itis Galileo" e successivo approfondimento in diretta dai laboratori del Gran Sasso, durante le quali, tra l'altro, s'è parlato di un esperimento di nanotecnologie applicate alle onde radio svoltosi tra San Marco e la Giudecca, quelli veri, stavolta! Che si fa il 1° maggio?

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