sabato 27 maggio 2023

Sei cose impossibili prima di colazione

La stagista, che studia giornalismo, analizza il testo di un sito e afferma che una frase è troppo complessa perché "Nessuno può tenere a mente più di due concetti per volta". 

Il testo è effettivamente complesso e migliorabile.
(Sì, l'ho scritto io, dopo una lunga battaglia col cliente, che me ne aveva fornito uno ancor più contorto).
E le sue osservazioni sono consone e intelligenti. 

Però questa cosa del "Non più di due concetti per volta" sarei curiosa di sapere da dove le viene.
La insegnano a scuola?
Fa parte del pacchetto di nozioni che ti impartiscono quando ti accingi a scrivere per il web: sii breve, sii semplice, onora l'algoritmo e la SEO?
Non ne ho idea. Se ne avrò l'occasione, magari, glielo chiederò. 

Certo è che se, come pare, ne è sinceramente convinta, questo spiega molte cose.
Se nessuno mai nella vita ti propinerà più di due concetti per volta, è piuttosto ovvio che non riuscirai a dominarli; ma non significa che non li incontrerai. 

Perché la realtà è dannatamente complessa, e noi siamo molto complessi. E a volte nemmeno dieci concetti affastellati assieme ci bastano per descrivere chi siamo e ciò che stiamo vivendo e provando. 

E se nessuno mai ti avrà insegnato a leggere - e scrivere - testi che contengono più di due concetti in una stessa frase, non solo non saprai più capire un libro, un articolo un saggio, ma non saprai più capire te stesso/a. 

Nemmeno Dio s'è accontentato di essere due e s'è inventato la Trinità.
E se anche ce la fossimo inventata noi, fa lo stesso: sarebbe comunque un'ulteriore testimonianza della ricerca incessante dell'umanità di spiegare quel "molto" inquieto e sempre in movimento che osserva fuori e che sente dentro. 

Vedere quindi una ventenne convinta che esista un limite a ciò che si può scrivere e dire, pena l'incomunicabilità, mi pare particolarmente triste.
Perché, in realtà, è esattamente ponendosi - o lasciandosi acriticamente porre - quel limite, che l'incomunicabilità si costruisce.

mercoledì 8 febbraio 2023

Cos'è che trema...?

Il clima musicarello della settimana sanremese mi ha riesumato un ricordo.
 

Da bambina passavo le estati in un piccolo paese d'Appennino.
La domenica andavo a messa nella piccola chiesa, costruita all'ombra di uno sperone di roccia nera, sul quale un tempo c’era un castello.
Lo sperone si protendeva fin quasi a sfiorare il campanile ("Speriamo regga" era l'accorato pensiero di tutti i fedeli, stipati entro le ombrose mura durante la celebrazione), tanto vicino che persino io, che avevo cinque o sei anni, non di più, allargando le braccia, riuscivo a toccare roccia con una mano e intonaco con l'altra. 

Ebbene, il coro di pie donne della chiesina cantava ogni singola canzone - da quelle che probabilmente datavano a prima del Concilio (scegliete voi quale) fino alle hit del buon Sequeri, che allora erano quasi nuove - con una specie di curioso tremolio. 

La prima volta che le udimmo, noi "villeggianti", provenienti dalla città, ne rimanemmo prima stupiti, poi divertiti. Tanto che, per anni, rievocando quelle estati, ci veniva da cantare “alla maniera del coro della chiesina di P.”, finendo inevitabilmente a ridere prima ancora di arrivare al ritornello. 

Oggi, a mente fredda, e totalmente digiuna di musica, mi chiedo da dove venisse quel tremolio.
Chi avesse per primo/a insegnato a quelle donne di un paese d’Appennino che il modo giusto di cantare era quello e non ciò che si ascoltava allora alla radio, in tv, in musicassetta e, appunto, sul palco di Sanremo. 

Chissà che curiosa e forse persino remota origine aveva quello stile, più simile a quello dei tenores sardi e a certe cose ascoltate nei documentari sull’Africa o il Medioriente che alla musica pop. 

Ecco, pensandoci in questi termini diventa all’improvviso molto meno ridicolo e molto più pieno di significato.
Una tradizione che s’è persa, come tante altre. 

E, magari gli antropologi e i musicologi del futuro si chiederanno le stesse cose della trap…

mercoledì 18 gennaio 2023

Quelli che non pensano

 

Il post che ho scritto per la pagina Facebook di un cliente termina con: "L'offerta è valida in negozio e online" + link alla pagina dell'e-commerce.
Una tipa chiede via Messenger: "Fate spedizioni?"
Vabbè, forse ho sbagliato io e dovevo scrivere: "L'offerta è valida in negozio e anche nell'e-commerce presente sul nostro sito a questa pagina".
Anche se, boh, un po' mi dispiace lavorare considerando sempre che chi legge sia scemo. Oltretutto, lo trovo molto presuntuoso.
 
Allora mi armo di pazienza e mi appresto a rispondere: "Si, certo, signora. Ecco qui la pagina del nostro e-commerce da cui può acquistare il prodotto e farselo spedire comodamente a casa".
Apro Messenger e vedo che qualcuno (un collega o il cliente, non voglio indagare), ha già risposto: "Sì, facciamo spedizioni". E basta. Senza ulteriori indicazioni.
 
Come pensate che andrà a finire?
 
Un dialogo tra sordi, praticamente, in cui nessuno è più in grado di fare una cosa che normalmente ti insegnano alle elementari: leggere un testo e capirlo. E, se non lo si è capito, rileggerlo due o tre volte e poi pensare.
Non so a voi, ma a me questa cosa che gente adulta oggi non pensi fa paura quasi quanto il global warming (a proposito di cose cui la gente non pensa...)
 
Da una parte dovrei essere contenta, perché se tutti fossero capaci di pensare e di scrivere, il mio lavoro non esisterebbe; ma quando ho cominciato, circa 17 anni fa, il nostro scopo era rendere più fruibili e gradevoli notizie che, comunque, le persone avrebbero potuto anche trovare e capire da sole: era un "di più", un servizio opzionale, un favore.
 
Ora è una necessità.
 
E a me, onestamente, fa paura.
Perché i pochi che pensano, se pensano male, e non fanno i copywriter in una piccola città di provincia, ma fanno i politici, gli imprenditori, o i truffatori (o le tre cose assieme) possono rigirarsi tra le dita migliaia di persone che, magari, c'hanno pure una laurea in tasca ma hanno comunque smesso di pensare, senza accorgersene.
E io vorrei davvero tanto sapere quando è successo e perché. E poter fare qualcosa.

venerdì 26 agosto 2022

Il lamento della copy alle elezioni


Vabbè, sapete più o meno che lavoro faccio; e sapete anche che per (brutto) carattere tendo a prendere tutto un tantino sul personale; tipo che, a luglio del 2010, quando grandinò sul Vajolet durante uno spettacolo di Paolini, mi arrabbiai ferocemente con Giove Pluvio, o chi per esso, e dopo dodici anni ancora non mi è passata... 

Fatta questa premessa, potete ben capire quanto fisicamente male mi faccia vedere e ascoltare le robe squallide prodotte dai consulenti di comunicazione dei politici di ogni schieramento, nel corso di questa deliziosa campagna elettorale.

Ora, delle due l'una:
- O sono tutti degli improvvisati, assunti per via di raccomandazioni o conoscenze o appartenenze, che si limitano a dare una mano di colore alle robe partorite da chi li paga. 

- O sono dei professionisti capaci che, vuoi perché devono campare (e lo sappiamo che il mondo del lavoro non è esattamente rigoglioso), vuoi perché "Sì, dai, guadagnamo dei bei soldi facili e poi si vedrà"; o ancora perché "Leghiamo l'asino dove vuole il padrone, che non si sa mai", a un certo punto decidono di spegnere il cervello ed evitare qualunque tentativo di mediazione con i loro committenti; anche solo avvertirli - per il loro stesso bene - che dicendo quella cosa c'è il 99% di probabilità di tirarsi la zappa sui piedi.

In realtà, esiste anche una terza ipotesi: quella che siano proprio loro a inventarsi slogani infelici, loghi imbarazzanti e grafiche che le saprei fare meglio io (no, fidatevi, non è un complimento!).

Ma a questa terza opzione non voglio nemmeno pensare.

Già per le prime due provo un poco di vergogna, ma posso capirle: che tutti siamo stati degli "improvvisati", che hanno imparato il mestiere sbagliando e riprovando (e ancora sbagliano, ci mancherebbe!); e tutti siamo scesi o scendiamo a compromessi, e a volte, in coscienza, non possiamo fare altro.

La terza, invece, mi dà davvero l'orticaria. E non perché io mi ritenga più brava o migliore di loro: al contrario! Proprio perché essendo consapevole dei miei limiti, mi prende il terrore di potere, prima o poi, per abitudine, stanchezza, esasperazione (tutte cose molto umane), arrivare a fare anch'io le stesse cose.
Nel caso, ringrazierò chiunque mi acchiappi per un polso e mi dica: "Ma sei sicura?".

venerdì 8 luglio 2022

Però poi anche basta


Faccio molta fatica a spiegare ai miei che il fatto che molti giovani oggi rifiutino lavori malpagati e al limite dello sfruttamento non sia necessariamente segno del degrado dei tempi.
O, perlomeno, non nel senso in cui lo intendono loro.
 

Anche io da giovane ho fatto la gavetta!
Eh, ma bisogna fare esperienza!
Non si può pretendere di avere tutto subito!
Questi giovani non sono più abituati al sacrificio!

Tutto vero.
Però…
La gavetta tu l’hai fatta DA GIOVANE, poi basta.
L’esperienza a un certo punto si acquisisce, poi si comincia a fare sul serio.
Va bene non avere tutto subito, ma qualcosa, prima o poi, bisognerà pure ottenerlo!
Se le generazioni precedenti, educate al sacrificio, hanno pensato bene (o male?) di crescere i lori figli e nipoti nella bambagia, rendendo loro la vita facile in ogni modo, forse a loro quell’educazione non era piaciuta granché, e avendola loro stessi rifiutata, non dovrebbero stupirsi così tanto che altri la rifiutino.

La mia modesta opinione è che chi rifiuta il sacrificio, l’esperienza, molto spesso non lo faccia perché è un pappamolla codardo e sfaticato, ma perché sa che questi… non finiranno mai.

Non è solo mancanza di soldi, ma mancanza di prospettiva. 

Un* giovane che non sia figlio/a di papà o cresciuto nel deserto ha ben chiaro che le sue condizioni di vita saranno peggiori di quelle dei suoi genitori, indipendentemente da quanto possa o voglia impegnarsi.
Sa bene che cambierà decine e decine di lavori e difficilmente arriverà ad avere un minimo di stabilità economica.
E che in pensione non ci andrà mai, e se ci andrà, farà la fame.
Sa che dovrà sempre ricominciare da capo in una gavetta infinita che non porterà mai a poter dire, con sollievo: “Sono arrivato/a”.

Perché è un’emerita boiata quella che vi vanno raccontato che è bello non sedersi mai sugli allori e imparare ogni giorno qualcosa di nuovo.
Perché al di là di poche - lodevoli - eccezioni, la maggior parte delle persone vorrebbero avere un po’ di certezze, costruirsi un nido di solide abitudini e accoccolarcisi dentro.

E questo nido di abitudini non è detto che porti sempre al fancazzismo e all’automatismo dell’impiegato da barzelletta, che si intana nel suo ufficio a fare il sudoku e bere caffè. 

A volte un nido è ciò che serve alle persone per poter spiccare il volo, per poter osare di più sapendo che, comunque, c’è un posto a cui ritornare, qualcosa di raggiungibile a cui aspirare.
Che va bene “Siate affamati, siate folli”, ma anche desiderare di essere - prima o poi - sazi e pacifici è una cosa profondamente umana e degna di rispetto e comprensione.

Che non si è giovani per sempre.

venerdì 29 aprile 2022

L5-S1

 

Mettiamo che tu, per dire, abbia un'ernia.
Per un po' i medici ti dicono che non c'è problema, che ormai non si opera più nessuno di ernia, che basta un po' di fisioterapia e qualche antidolorifico e passerà.
 

Poi però l'ernia non passa. E i medici dicono che occorre operare e che, anzi, è già troppo tardi per correre ai ripari e potresti comunque avere qualche strascico in futuro.
 

E tu, giustamente, t'incazzi, perché dici: ma allora questi medici non sanno nulla? Hanno sbagliato diagnosi? Dicono tutto e il contrario di tutto? Volevano approfittarsi di me?
Poi pensi che, al netto di qualche errore, che sicuramente c'è stato; probabilmente il tuo era un caso un po' inusuale, per il quale i comuni protocolli non hanno funzionato e si è dovuto navigare a vista, aggiustando la rotta man mano che si approfondivano le conoscenze.
 

Ti operi, fai la fisioterapia, prendi le medicine; ma dopo sei mesi la schiena ti fa di nuovo male e scopri che... l'ernia è tornata!
T'incazzi ancora di più, ti senti presa in giro; ti chiedi se tutta la fatica che hai fatto e il dolore che hai subito potevi risparmiartelo. Poi capisci che, ahimé, no: che esiste un margine d'errore in ogni procedura e tu c'hai avuto soltanto una gran sfiga. E che, anche se non potrai mai sapere con certezza come sarebbero andate le cose se non ti fossi operata la prima volta, almeno sai di avere fatto tutto il possibile per limitare i danni.
 

E ti rassegni a convivere con l'ernia. Il che non significa né “smettere di vivere” né “vivere esattamente come prima”,  ma trovare un buon compromesso tra i due poli, che, nel caso specifico, significa: fare tutte le mattine un po’ di stretching e qualcuno degli esercizi che ti hanno insegnato quando facevi fisioterapia, evitare di fare attività fisica intensa, cercare di stare seduta e camminare nel modo più corretto possibile, evitare di sollevare pesi e, se proprio devi farlo, ricordarti di indossare il busto, il quale, ammettiamolo, portato per ore, soprattutto d’estate, è piuttosto fastidioso…
 

Una bella rottura di scatole, certo, una limitazione della propria libertà - si potrebbe persino dire - ma sempre meglio di rischiare di rimanere immobile a letto per giorni con un dolore così intenso da non riuscire a muovere nemmeno un mignolo senza vedere le stelle e da dover mettere il pannolone, perché alzarsi per andare in bagno è pura utopia.
 

Attenzione, però, nonostante tutte queste precauzioni, tu sai bene che potresti rimanere bloccata comunque; e quindi? È tutto inutile? Direi di no, se anche solo serve ad abbassare la probabilità che questo accada, o a procrastinarla il più a lungo possibile.
 

Poi, certo, puoi sempre scegliere, di tanto in tanto, di prenderti dei rischi, perché buon Dio! Quel sentiero è troppo invitante e chissà che bel panorama si vede da lassù: speriamo in bene e percorriamolo comunque; oppure… col cavolo che faccio tre giri per portare la spesa dall’auto al garage: chiappe strette, bacino rigido e via che si va! Però, se non sei completamente scema, se ti va bene tiri un sospiro di sollievo e non pensi che, dal momento che non è successo niente, vuol dire che l’ernia non esiste; e se ti va male, non dai la colpa ai poteri forti a big Pharma e alla lobby dei fisioterapisti: taci e ti lecchi le ferite, dicendoti che, forse era meglio non farlo e sapendo benissimo che, magari, la prossima volta lo farai lo stesso, perché gli esseri umani non sono mai stati dei campioni di coerenza e forza di volontà.


E, se sarai molto onesta con te stessa, saprai pure che, non vivendo tu in un’isola lontana da tutto e tutti, le conseguenze delle tue decisioni potrebbero non danneggiare solo te, ma coinvolgono inevitabilmente tutti coloro che ti stanno attorno e che dovranno assisterti o sostituirti nei tuoi impegni di lavoro e di famiglia.
E tutto questo succede con un’ernia, che non è nemmeno contagiosa e non ti mette in pericolo di vita…

Ci arrivate da soli, o devo venirvi a percuotere le vertebrine una a una?

 PS: sì, ho un'ernia.

lunedì 22 novembre 2021

Quando mi sale il comunismo (o chi per esso)

Gentaglia lo volete un predicozzo non richiesto per peggiorarvi ulteriormente il lunedì mattina?
Di recente ho visto condividere con entusiasmo su LinkedIn la frase di non so quale economista, che diceva che finché si pagherà chi non lavora e si tasserà chi dà lavoro il mondo andrà a catafascio.
Ora, posto che ci percepisce indebitamente il reddito di cittadinanza o la pensione di invalidità o altre cose simili è un delinquente e che certamente la tassazione sul lavoro e sull'impresa è bel lungi dall'essere giusta (non me ne intendo, ma se tanti imprenditori se ne lamentano, dubito che siano tutti dei maledetti sfruttatori: qualcuno lo farà in buona fede, ecco).
Premesso questo, devo dire che l'affermazione di cui sopra continua a sembrarmi, con rispetto parlando, una colossale boiata. 

Non è vero che non c'è lavoro è che la gente non si adatta!
Sì, ma anche no. Perché certi lavori richiedono una certa prestanza fisica o capacità intellettive che non tutti hanno (mi ci vedete con la mia ernia ad andare a scaricare camion o consegnare pacchi in bicicletta? O con le mie pessime abilità matematiche, a occuparmi di contabilità? No, ecco, e come me ci sono parecchie migliaia di persone che, anche volendo, non potrebbero...).
Perché certi lavori richiedono di spostarsi in un'altra città e non tutti possono. Non perché sono pigri, ma perché, magari, hanno genitori anziani o figli piccoli da gestire, un disabile a carico o cento altre situazioni che rendono molto difficile sradicarsi dal proprio contesto di relazioni familiari e sociali per cominciare una vita ex novo da un'altra parte.
Per non dire del fatto che molti lavori non ti danno uno stipendio sufficiente per pagarti vitto e alloggio in un'altra città e riesci a camparci solo se vivi ancora assieme ai tuoi, o in una casa che i tuoi ti hanno comprato quando ancora era possibile con un lavoro normale mettere da parte dei soldi.

Ehi, puoi sempre fare il pendolare!
Vedi punto 1. Spesso non è questione di pigrizia o scarsa volontà, ma è che proprio ci vuole prestanza fisica e solidità mentale per uscire di casa alle sei e rientrare alle dieci e farsi ore di treno/pullman/autobus/auto/metro ecc. per raggiungere il posto di lavoro, rinunciando di fatto a una vita sociale.
Non è un caso che, dopo aver provato lo smartworking a causa del covid, molti non vogliono più tornare indietro: non sono dei pigri bastardi egoisti: hanno solo scoperto che se puoi lavorare in un modo che ti consente di conciliare meglio i tempi di vita e di lavoro perché non farlo? Perché l'impegno e il sacrificio vanno bene, ma non sempre, non per tutti e solo se e quando ne vale davvero la pena.

Eh, ma non pretenderai mica il posto fisso?!
Ma perché no? Al netto di certi lavori per i quali cambiare è quasi fisiologico, ce ne sono ancora molti altri per cui sarebbe non solo possibile, ma anche auspicabile tornare ad avere una certa stabilità. Perché ci sono competenze che si maturano in anni di esperienza e che nessun corso di formazione iperspecializzato potrà sostituire.
E non mi riferisco solo a lavori di alto livello, ma anche un buon cameriere, un buon commesso impara nel tempo.
E il fatto che ora, entrando in un negozio, si trovino solo giovani sottopagati e scoglionati, perché già sanno che tra sei mesi-un anno verranno cacciati non è che favorisca il piacere dell’acquisto… E non è certo colpa dei giovani, non solo, almeno.

Eh, ma se non trovi lavoro puoi sempre inventartelo!
Ma anche no! Ci sono persone che sono perfetti esecutori e pessimi imprenditori. Ci sono persone che hanno cento talenti e altre che ne hanno uno solo o nessuno. C’è chi si realizza nel lavoro e chi invece lo concepisce solo come un mezzo per guadagnare quel che gli serve per fare altro nel tempo libero. E non c’è nulla di sbagliato in questo.
È ovvio che quasi nessuno troverà il lavoro perfetto, ma il fatto che dopo tanti tentativi molte persone non riescano a trovarne nemmeno uno decente, forse non è solo colpa loro, ma di un sistema assurdo che pretende dalle persone cose che loro, anche volendo, non potranno mai dargli.

Eh, ma è colpa della scuola perché non forma i lavoratori!
Ma grazie al cielo! Lo scopo della scuola è formare cittadini, i quali certo dovranno lavorare, ma dovranno anche fare altro: occuparsi di politica, di volontariato, avere un’idea del mondo in cui si trovano a vivere e di quello che è stato prima di loro, farsi una famiglia e degli amici, viaggiare, andare al cinema o a teatro, o a un museo, avere interessi culturali, hobby ecc. Insomma, essere individui il più possibile preparati ad affrontare ogni aspetto della vita, mica solo il lavoro. Anche perché, diciamolo: possiamo anche cambiare programma scolastico ogni anno, cercando di prevedere quali saranno le competenze più richieste nel mondo del lavoro da qui a cinque-dieci anni, quando i ragazzi termineranno il loro percorso di studi; ma ormai lo sanno pure i sassi che persino i migliori economisti fanno fatica a prevedere come andrà l’economia l’anno prossimo, figuratevi immaginare il futuro!
Piuttosto che inseguire le tendenze, non sarebbe meglio fornire basi solide, uguali per tutti, da cui partire per costruire un percorso che sarà per forza di cose imprevedibile e peculiare per ciascuno?
Senza contare che non tutti hanno le stesse capacità e che i tipi di intelligenza sono diversissimi. E che si può consigliare a un ragazzo/una ragazza un percorso di studi che - secondo noi, in questo momento, potrebbe essergli più utile per il suo futuro, ma non c’è niente di peggio che obbligare qualcuno/a a studiare informatica o cinese se a lui/lei piacciono, che so, la fisica teorica e il tedesco.

E vogliamo aprire l’enorme parentesi del lavoro per le donne (“Ma lei ha intenzione di fare figli?” “Firmi un po’ queste dimissioni in bianco…”) o per chi non è più giovane, o rientra in qualche categoria protetta?
Quindi, con l’attuale sistema di lavoro che ci vuole tutti sani, tutti giovani e senza alcun legame famigliare è ovvio che servano degli strumenti per evitare che chi a queste condizioni non può lavorare muoia di fame.

Perciò, prima di venirmi a parlare di poveri imprenditori e lavoratori fannulloni, fate in modo che ci sia lavoro per tutti, donne vecchi, disabili, persone con limitate capacità cognitive e persone brillanti; che ci sia lavoro nelle grandi città e nei paesini sperduti della provincia e che sia lavoro pagato il giusto e il più possibile stabile, per permettere alle persone di avere un minimo di speranze per il futuro e di fare progetti.
Poi, se volete, ne riparliamo.

martedì 16 novembre 2021

In prospettiva

Quando è stato introdotto il vaccino contro l'influenza io ero ancora piuttosto giovane, ma ho cominciato a farlo quasi ogni anno perché, pur non avendo particolari patologie, sono sempre stata soggetta a malanni di stagione e, soprattutto, vivevo ancora con i miei genitori anziani, di cui una gravemente malata.
 

Nei molti anni in cui l'ho fatto, ho visto ridursi sensibilmente il numero e la frequenza delle influenze. Il che non significa, beninteso, che io non mi sia mai ammalata e che in un paio di occasioni io non sia stata anche parecchio male, ma in un paio di occasioni, appunto, non ogni inverno e più volte in un inverno, come accadeva prima.
E pur avendo fatto il vaccino, non è che andassi a sternutire e tossire in faccia al prossimo, anzi, ai primi sintomi di raffreddore e mal di gola, salvo casi di urgenza e necessità, mi rintanavo nella mia cameretta, rinunciavo a uscire con le amiche e me ne stavo a casa dall'università o dal lavoro, mi lavavo più spesso le mani e cercavo di stare il più possibile distante dalle altre persone, perfettamente consapevole di avere una responsabilità nei confronti degli altri.
E se anche da noi, come in alcuni paesi orientali, fosse già stata diffusa l'abitudine di andare in giro con una mascherina per evitare di spargere microbi a destra e a manca sull'autobus, a scuola, in ufficio o al cinema, lo avrei fatto senza alcun problema.
 

Non c'è nulla di strano o di eroico in questo: si tratta solo di educazione, buonsenso, rispetto degli altri. Cose che a tutti dovrebbero aver insegnato da bambini a scuola o in famiglia. Tutto qui.
Spiegatemi perché non dovrei farlo ora?
Spiegatemi in che modo fare questo è un attentato alla mia libertà e a quella altrui.
 

E, no, vi prego, non subissatemi di articoli in cui si fanno notare le contraddizioni nella legislazione, i dubbi sulla trasparenza e i sospetti che qualcuno si stia arricchendo alle spalle degli altri. Perché queste cose le vedo anch'io e posso, in piccola parte, pure condividerle.
 

La mia domanda è molto più semplice e priva di dietrologie: se mi vengono date delle regole e degli strumenti (non perfetti, d'accordo) per far stare meglio me stessa e gli altri perché non dovrei seguirle/utilizzarli?
 

E no, non venitemi a parlare di “siero sperimentale” perché un vaccino non è un siero (e questo ormai dovrebbero saperlo pure i muri) e qualunque medicina mai ideata sulla faccia della terra è comunque un “male minore” non privo di effetti collaterali a breve o lungo termine.
Buon Dio! Sono figlia di una generazione che si è bevuta litri di Bactrim prima che lo ritirassero dal commercio! Proprio per questo sono consapevole che le conseguenze - nel bene e nel male - delle scelte fatte oggi le potremo sapere solo tra molti anni e forse non tutte.

E anche questo è capitato e sempre capiterà per qualunque fatto storico di una certa portata come quello che stiamo senza dubbio vivendo: chi ci è immerso fino al collo, inevitabilmente, non capisce perché gli manca una visione d’insieme, perché è travolto dall’emotività, perché conosce e giudica un evento globale in base a ciò che vede e tocca con mano o in base alle notizie che circolano nella sua bolla mediatica, la quale - e anche questo ormai dovrebbe essere chiaro - non è mai obiettiva.
 

Non sapere tutto, avere una visione parziale degli eventi, però, non significa non poter fare una scelta.
Anche questo è già successo e sempre succederà.
Io ho scelto la cautela e responsabilità. Altri la ribellione e la negazione.
Vedremo in futuro - se sopravvivremo - chi avrà avuto ragione.

venerdì 24 settembre 2021

Periodo ipotetico della libertà

 


Qualche giorno fa un cliente mi ha chiesto di pubblicare un avviso sul suo sito e sulla pagina Facebook, nel quale invitava le persone a NON fare una determinata cosa e ne spiegava il motivo.

Prima di pubblicare suddetto avviso, l'ha fatto anche leggere a un paio di esperti perché fosse chiaro, e mi ha fatto correggere una frase che poteva suonare ambigua. L'ho corretta e ho pubblicato.

Su Facebook diverse persone hanno commentato l'avviso dicendo:

- Perché anziché un avviso non avete fatto un divieto? Se non vietate la cosa, non potrete impedire alle persone di farla ugualmente.

- Il testo è ambiguo: le persone non lo capiranno o lo interpreteranno a modo loro.

Entrambi i commenti, dopotutto, erano sensati e posti in tono costruttivo più che agressivo, quindi va bene così.

Però li ho trovati particolarmente significativi per due ragioni:

- Il cliente mi aveva chiesto esplicitamente di scrivere un consiglio e non un ordine, per stimolare il senso di responsabilità delle persone e invitarle a comportarsi bene ed essere ragionevoli, senza bisogno di imporre divieti e minacciare sanzioni. L'intenzione, secondo me, era lodevole; ma evidentemente molti pensano che un invito non basti più e che il buonsenso e il senso civico siano andati bellamente a farsi benedire e, onestamente, visto quanto è successo e sta succedendo in questo tempo di pandemia, mi verrebbe da essere d'accordo con loro. Però è davvero scoraggiante pensare di vivere in una società in cui tutti strepitiamo se qualcuno ci toglie un pezzettino di libertà in nome del bene comune, ma nessuno è disposto a rinunciare a nulla per gli altri se non gli viene implicitamente imposto dall'alto, salvo poi lamentarsi dell'imposizione... e così via, in loop.

- La frase era, in effetti, un pochino complessa, ma non incomprensibile: esprimeva una eventualità futura con la formula "Sta per succedere questo, quindi potrebbe accadere che". Né a me né al cliente era apparsa strana, ma molti lettori hanno intepretato l'eventualità come una certezza nel presente: "Non è vero! Non sta succedendo quello che dite! Perché raccontate balle?". Il che è piuttosto triste perché dimostra, ancora una volta, quanto si sia persa la capacità di interpretare le sfumature del linguaggio, che sono spesso anche sfumature del pensiero.

E alla fine tutto torna: perché è chiaro che se hai bisogno di un divieto esplicito per non fare una cosa che pure sai che potrebbe danneggiare te e gli altri, vuol dire che sei anche poco avvezzo a muoverti nel campo delle possibilità e delle loro conseguenze, che si esprimono tramite quelle cose contorte e bellissime che sono i periodi ipotetici. E che siamo tutti bravi a riempirci la bocca di futuro, ma non riusciamo più a immaginarlo.

domenica 6 giugno 2021

L'onda che non affrontai

Per chissà quale remota ispirazione, ho fatto il cambio di stagione riascoltando, dopo molto tempo, il cd di Notre Dame de Paris, che vidi dal vivo quando uscì, nei primi anni 2000, e che ho molto amato. Se mi prendete in buona posso ancora cantarvene dei brani piuttosto lunghi a memoria, ma non vi conviene: che ultimamente anche quel poco di voce che avevo sta andando per sprelle... 

Comunque, mentre ripegavo maglioni e riesumavo magliette, ho pensato che in quel musical io sono sempre stata Quasimodo, non Esmeralda. Al limite Gringoire o Clopin, in rari momenti persino Frollo (credo che "L'onda che non affrontai" sia una delle più potenti e, nel mio caso, condivisibili, definizioni della passione amorosa che io abbia mai letto o ascoltato); ma non certo la protagonista, che pure in questa versione dell'opera è meno scema di quella del libro (che avrei preso volentieri a testate!).

Mi era difficile già vent'anni fa immedesimarmi in una donna bellissima, capace di attrarre a sé tutti gli sguardi e animata dal desiderio di amare ed essere amata, figuratevi quanto sia poco probabile che ci riesca ora, che sono ancora meno bella, desiderabile (e desiderante) di quanto non fossi allora.

Mentre il gobbo brutto e sfigato che coltiva un amore impossibile, il mediocre poeta animato da altri ideali e meno alti istinti, il saltimbanco ribelle e l'integerrimo moralista turbato dalla sensualità del reale, beh quelli posso ancora capirli benissimo.

Per fortuna la mia ernia mi impedisce di arrampicarmi su un campanile a caso a sfogare la mia disperazione suonando campane. Potrei invece, senza grossi problemi, mettermi a conversare con un gargoyle, ma quelli parlavano nel cartone animato della Disney, non nel musical, e nel cartone, come da tradizione, erano tutti simpatici, anche la capra. 

Buonanotte, e sogni rindondanti. 

lunedì 15 febbraio 2021

Il re del presente

Non si nomina il passato. È peccato pressoché mortale affermare che dieci anni fa - forse anche cinque - si facessero (non solo, ma anche) cose più belle: già quelle dell’anno scorso non hanno più significato.
Solo il nuovo importa, che sia migliore o peggiore non conta. Bisogna andare sempre e solo avanti.

Non si dice mai a un cliente che si è data la priorità a un altro cliente, anche se è vero. Anche se la priorità è dettata non da qualche privilegio soggettivo, ma da puri motivi tecnici e pratici. Perché bisogna fingere che ogni cliente sia unico e che noi siamo sempre e solo a sua disposizione: come se fosse un bambino egoista e capriccioso, non una persona adulta che sa bene che nell’organizzazione del suo come dei lavori degli altri è inevitabile porsi delle priorità, avere delle scadenze, dover risolvere rapidamente imprevisti; e possa sentirsi abbandonato, anziché rassicurato, dal fatto che un suo fornitore si comporti esattamente come lui.

Non si parla mai di soldi. Non si può mai dire che ad un prezzo minore corrisponde un servizio più scadente. Bisogna inventarsi giri di parole, perigliose arrampicate sugli specchi, per dire che sì, in effetti, il budget è un po’ risicato però faremo il possibile e la qualità non ne risentirà quasi, forse, più o meno…
Tanto poi ci sarà sempre il coglione che sforerà le ore previste per non consegnare al cliente una ciofeca, e pazienza se non rientra nei costi, perché c’è una dignità da mantenere in qualunque professione. Perché lo sai che quella cosa l’hai fatta tu e ti dispiace se fa schifo, anche se il cliente non avrebbe diritto ad altro che a quello schifo. Lui sì, forse, ma tu no. E nemmeno chi ne dovrà fruire: loro non se lo meritano.

Ma, soprattutto, non si parla del passato.
Il passato è l’inutile e l’innominabile, più degli altri clienti, più dei soldi.
Perché il passato ci rivela che il re del presente è nudo.
E che anche il re del futuro va perdendo consistenza.

venerdì 20 novembre 2020

Les jeux sont faits

Sto facendo le bozze a un corso online sulla sicurezza sul lavoro. E ne ho concluso quanto segue.

1. Se le stesse cose presentate nel corso con ricco corredo di simpatiche animazioni - che, in teoria, dovrebbero servire a tener desta l'attenzione ma, in realtà, fanno solo venire voglia di mandare avanti veloce (peccato che il sistema lo impedisca) - le avessero semplicementre SCRITTE, con i loro bravi titoli, sottotitoli, qualche elenco puntato e qualche immagine, sarebbero state altrettanto chiare e molto più veloci da imparare.
Senza contare la possibilità, utilizzando un supporto cartaceo, di sottolineare, prendere appunti ecc.

2. La sicurezza sul lavoro, in sè una cosa egregia e necessaria, sta raggiungendo livelli di complessità assolutamente surreali: in pratica, chiunque di noi, se applicasse le norme alla lettera, non potrebbe fare il proprio mestiere.

L'impressione che ricavo sia dalla forma in cui è "somministrato" il corso, sia dal suo specifico contenuto, dunque, è la stessa: da anni i mezzi di informazione e di comunicazione ci trattano come se fossimo tutti dei bambini pigri e capricciosi, incapaci di stare attenti per più di due minuti e privi di buon senso: individui da stupire e blandire, da convincere e irretire, piu che soggetti a cui spiegare e con cui dialogare.

E mi verrebbe da dire - anche alla luce delle cronache recenti - che forse non hanno tutti i torti: perché le folle di negazionisti del covid e di seguaci del felpato di turno certo mettono in dubbio l'intelligenza e la capacità critica di molti. 

Però sarebbe troppo facile e anche autoassolutorio risolverla così: ci sono tanti scemi al mondo ed io, quindi, se voglio insegnare loro qualcosa o obbligarli a rispettare una norma, mi devo adattare al loro livello.

Mi chiedo, invece, se, al contrario, questo continuo gioco al ribasso, questa semplificazione estrema dell'apprendimento e dell'informazione, che devono essere sempre proposti come una cosa facile e divertente, non siano una delle cause e non una conseguenza di questa situazione. 

Questo post è il festival delle subordinate!
Ecco, immagino che proprio la sua forma contenga in sè la mia risposta alla domanda di cui sopra; ma nel caso non fosse sufficientemente chiara, posso fare io pure uno sforzo di semplificazione: la gamification, nonostante i suoi nobili intenti, è una ca*ata pazzesca!

lunedì 7 settembre 2020

L'instagrammer di Voghera

Leggo i commenti indignati di chi, giustamente, si scaglia contro l’ignoranza esibita alla manifestazione dei negazionisti: persone che qualcuno chiamerebbe capre, se quel qualcuno non fosse, ahimè, d’accordo con loro…
Io mi chiedo, però, da dove venga tutta questa ignoranza e se sia corretto liquidarla semplicemente come tale.

Si presume, infatti, che queste persone abbiano assolto l’obbligo scolastico e sappiano leggere e scrivere. Quindi, forse, dietro questa ignoranza c’è una responsabilità della scuola, che ha abdicato da tempo alla sua funzione di formare cittadini e mira piuttosto a formare giovani lavoratori, con qualche sapere tecnico-pratico in più e molte capacità logico-critiche in meno.

Si presume che queste persone, sapendo leggere e scrivere e possedendo di certo uno smartphone e un televisore e forse anche un computer, abbiano accesso a varie fonti di informazione. E penso, quindi, all’enorme responsabilità delle testate giornalistiche più importanti, che ospitano pubblicità ingannevoli e clickbaiting sui loro siti; che non verificano le fonti e non correggono le bozze, infarcendo i loro pezzi di errori di forma e contenuto, e rendendoli, di fatto, indistinguibili per un lettore medio da ciò che si trova nei siti di bufale, nati e costruiti per essere tali.

Si presume che queste persone abbiano un medico di famiglia, che magari li visita per telefono, li tratta con sufficienza e dà loro risposte evasive, spingendoli, senza rendersene conto, tra le braccia del primo pseudoscienziato che promette loro salute a caro prezzo.

Si presume che abbiano avuto a che fare con vari tipi di funzionari pubblici, ottenendo attese infinite, risposte non chiare, una burocrazia farraginosa che, nata per garantire correttezza di procedure e rispetto delle leggi, finisce invece per respingerli ed essere percepita come inutile e ostile. Stessa cosa potrebbe dirsi della politica tradizionale…

Quindi, prima di deprecare l’ignoranza altrui, farei un bell’esame di coscienza e mi chiederei: cosa ho fatto per fomentarla? Cosa ho fatto per arginarla?
Perché persino io, nel mio piccolo, ogni volta che per disattenzione, fretta, abitudine trasmetto un messaggio trasudante luoghi comuni e stereotipi e contenente scorrettezze di forma o contenuto, contribuisco ad abbassare il livello generale della comunicazione tra individui e a far sì che sempre più persone, le quali fino a qualche anno fa avrebbero avuto strumenti sufficienti per affrontare il mondo, oggi non riescano più a comprendere la differenza tra un giornalista e un imbonitore, un politico e un capopopolo, un medico e un santone.

L’ignoranza non è un blocco di granito da scalfire, ma una palude in cui tutti possiamo sprofondare piano piano senza accorgercene anche con una laurea in tasca.
Pensiamoci, prima di puntare il dito contro il prossimo e di sentirci tanto al di sopra di quella che un tempo era la proverbiale casalinga di Voghera ed oggi è diventata l’instagrammer di Mondello.

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La pandemia mi ispira lo sproloquio. Anche per questo, oltreché per molte e ben più drammatiche ragioni, auguratevi e auguriamoci che finisca!

martedì 18 agosto 2020

L'eroina (no, non quella)

Leggevo poco fa un racconto di Pavese nel quale (tanto per cambiare) una donna spegne con la sua "carnalità" i desideri metafisici dell'uomo (che poi, nella realtà, spesso accada il contrario potrebbe essere oggetto di lunghe - e polemiche - discussioni). E ho realizzato, con un certo dispiacere, che qualcosa di simile accade anche in Inviti superflui di Buzzati: racconto che amo profondamente e di cui posso citare le prime righe a memoria (è molto probabile che anche qui io le abbia già citate). 

Il problema è che, quando lessi il racconto la prima volta (e le successive), non mi sfiorò nemmeno l'idea che, in quanto donna, io avessi motivo di identificarmi con la scostante coprotagonista della storia. Io ero, ovviamente, lo scrittore, che immagina mondi di fiaba oltre i vetri appannati delle case. 

Io ero, fin dai tempi in cui mi si leggevano le favole, l'eroe, non la strega cattiva, né la principessa da salvare. E che l'eroe fosse, nove volte su dieci, un maschio, era una cosa che mi preoccupava molto poco. 

Adesso, che ho un'altra età e un'altra consapevolezza e che anche attorno a me si respira (per fortuna) un'altra aria, questa rappresentazione spesso negativa e quasi sempre stereotipata della donna mi appare in una luce più chiara e molto più fastidiosa. Come mi appaiono fastidiosi i versi di certe canzoni di Tozzi che da bambina cantavo a squarciagola: tu puoi pure camminare, ma non dare per scontato che io ti segua; e se mi abbracci mentre stiro, non è detto che non ti ritrovi una bella scottatura triangolare sulla fronte; e, soprattutto, scoiattolo impaurito lo vai a dire a qualcun altro, echeccavolo! 

Ma anche in quel caso, beninteso, io ero il cantante, non la sua innamorata ingenua, passiva, paziente e magari pure cornuta.

Ero Bastiano, non l'algida Imperatrice e nemmeno Donna Aiuola, tanto materna da essere inquietante. Ero Frodo, non Arwen (e nemmeno Aragorn: fin troppo figo per i miei standard)...

Di contro, non sono mai stata Rossella, né Emma, né Anna (a pagina quindici già facevo il tifo per il treno); no, non sono mai stata nemmeno le donne della Austen, perché, pur comprendendo e apprezzando la loro ironia, sensibilità, intelligenza, già da adolescente facevo una dannata fatica a immedesimarmi in una vita fatta quasi solo di balli, mondanità e attesa di un amore decente, figuriamoci ora!

E quindi? E quindi sarei curiosa di sapere a quante altre donne è capitato e capita tuttora di riconoscersi nei personaggi maschili dei romanzi e dei racconti (e dei film e dei fumetti e delle canzoni...) e se e come e quanto questo le ha turbate o le turba. E sarei curiosa di sapere a quanti maschi, invece, è capitato di identificarsi in personaggi femminili e se questo ha provocato loro qualche turbamento.

Immagino che il primo caso sia più frequente del secondo, perché per secoli - e ancora oggi - le parti migliori (più varie, dinamiche, divertenti, avventurose) nei film, nei libri, e pure nella vita, sono riservate agli uomini, mentre ai personaggi femminili tocca spesso il ruolo di spalla. E se/quando le donne sono protagoniste, ancora non riescono del tutto a levarsi di dosso un lungo retaggio di ruoli, reazioni, sentimenti stereotipati, che forse già in passato le rendeva meno amabili e meno adatte all'identificazione, figuriamoci ora! 

Ben vengano, dunque, tutti questi fermenti culturali volti a una rappresentazione più veritiera della vasta gamma del maschile e del femminile e di tutto ciò che sta nel mezzo, anche se sarà una strada dannatamente lunga e faticosa: perché gli stereotipi sono comodi e le distinzioni nette sono ottimi espedienti narrativi, da cui è difficile staccarsi, soprattutto in un tempo in cui si tende a semplificare per vendere.

Solo due cose temo. Una sta già accadendo: è il revisionismo fatto sull'onda dell'emotività, che preferisce condannare anziché comprendere e storicizzare gli errori del passato. Che io ricordi, Dante non ha detto cose carine su ebrei, musulmani e omosessuali: che facciamo? Contestualizziamo o sostituiamo nei programmi scolastici la Divina Commedia con un moderno romanzetto mediocre ma politicamente corretto?

La seconda credo potrebbe verificarsi in una fase più avanzata del processo che attualmente è ancora agli inizi: ovvero, quella di arrivare ad avere eroi fatti su misura con cui identificarsi senza alcuno sforzo di immaginazione.

Provo a spiegarmi meglio: ben vengano protagonisti di libri, film, fumetti di ogni sesso, colore, stazza, orientamento, carattere; ma non vorrei mai che questa infinita varietà portasse le persone ad identificarsi solo con ciò che trovano più simile a sé. Perché anche questa, credo, sarebbe un'enorme sconfitta del potere creativo ed educativo dell'immaginazione, che consiste proprio nel valicare i confini di generi e ruoli per trovare altri modi di rappresentare sé stessi e rapportarsi con il diverso.

Perché non è detto che pur vedendo rappresentate nei libri e nei film più protagoniste donne grasse e bruttine di mezza età io debba per forza immedesimarmi con loro. Potrei farlo, se, oltre al sesso e all'aspetto fisico, troverò in quel tal personaggio altre affinità. Oppure potrei trovarne di più, che ne so, con un ventenne di colore, pugile di mestiere... E, viceversa! 

Perché lì sta il bello: rappresentare la varietà dovrebbe favorire la libertà di scelta delle singole persone, non ingabbiarle in una nuova, solo un po' più vasta, omologazione. 

mercoledì 10 giugno 2020

Socializzazione e altre storie

Sono viva. Non sto tanto bene, ma sono viva. Riattivo questo blog solo perché ho 'sta cosa che mi preme dentro e se la pubblico altrove mi inimico metà dei miei contatti, ma se non la scrivo da qualche parte non me ne libererò mai più.
Quindi pazientate.
Poi me ne tornerò buona buona in un angolo.
Pronti? Via!
***
Durante il lockdown ho scoperto con estremo piacere il podcast con le registrazioni delle lezioni di Alessandro Barbero.
Avendo la memoria di un criceto, non è che adesso io mi ricordi la vita di Costantino o la battaglia di Caporetto, però una cosa mi è più chiara di prima: oltre che di conoscenze scientifiche, noi, in generale, manchiamo anche di prospettiva storica.
Quindi, non solo mi incazzo quando leggo i dati apparentemente contraddittori circa le ultime ricerche sul Covid, che sembra dicano tutto e il contrario di tutto, alimentando il complottismo, e invece, come mi è stato fatto notare giustamente da un amico scienziato, sono semplicemente studi parziali, che illuminano solo una fetta di verità; ma ho cominciato a incazzarmi anche quando qualcuno parla di necessità di tornare alla normalità.
Che cos'è la normalità?
Gli aperitivi, i viaggi, i centri estivi, le vacanze...
Tutto giusto, tutto bellissimo.
Ma anche la normalità è relativa nel tempo e nello spazio.
Quello che per noi oggi è normale non lo era per i nostri nonni. Quello che per noi qui è normale non lo è per chi vive in molti altri posti del mondo. Ciò che per noi qui e ora è normale non lo è per molte persone che per molte ragioni (malattie, disabilità, fragilità psicologiche e sociali) hanno sempre fatto e continueranno a fare una vita ben diversa dalla nostra.
Quindi attenzione quando invocate la "normalità" per voi e, soprattutto, per i vostri bambini.
Perché la normalità è quella che voi/noi abbiamo costruito attorno a loro credendo, in base alle nostre attuali conoscenze, che fosse la cosa migliore. 
E magari tra qualche decennio scopriremo che anche la "socializzazione", di cui i poveri pargoli sono stati brutalmente privati dalla pandemia, provocando loro danni incalcolabili, in realtà, è un mito. 
E scopriremo che chi alle elementari ha studiato quattro lingue, fatto dieci sport e frequentato centinaia di altri bambini ogni giorno non è diventato più intelligente, ma si trova a vent'anni già stanco, incapace di imparare cose nuove e desideroso di ritirarsi per il resto della vita in un eremo nel mezzo di un bosco.
O magari no. 
Ma visto che oggi non possiamo saperlo, piantiamola di confondere le cose necessarie per loro con quelle che fanno più comodo a noi e allo stile di vita tipico della società occidentale di questo decennio. E di pretendere che tutto possa tornare in fretta "normale" dopo la morte di 33 mila persone.
Amen.