Nei giorni buoni si piazzava con una seggiolina di legno vecchia quanto lui di fronte alla bottega ad osservare il passaggio.
Commisi l'errore di portargli due ombrelli che mi avevano regalato e che, non so come, ero riuscita a rompere entrambi nel giro di quindici giorni. Ovviamente la cosa mi seccava e gli chiesi se poteva ripararli. Lui li osservò un istante con aria scettica, poi emise sentenza inappellabile: "E' roba cinese e io non l'aggiusto!". Me ne uscii un po' seccata, dando l'addio agli ombrelli nel primo cestino; ma quando ho letto che aveva chiuso m'è dispiaciuto, perché il suo negozio era diverso da tutti gli altri: aveva una storia, un carattere e vendeva oggetti fatti per durare a lungo ed essere riparati.
Fino allo scorso anno, nel paese dove passo le mie estati, c'era una bottegaia che, senza saperlo, aveva preso sul serio il motto di Harrods "Dallo spillo all'elefante", concentrandolo però in due anguste stanzette colme d'ogni cosa fino al soffitto: dai biscotti ai detersivi, dai salumi ai mutandoni della nonna, dai cioccolatini alle trappole per topi. Se ci capitavi di mattina aveva anche il pane fresco e qualche copia della Gazzetta. Se ci andavi di pomeriggio ti faceva il panino per la merenda e te lo allungava sporgendosi a fatica dal bancone, piccola e olivastra, proveniente da un paesino sperso dell'estremo sud e capitata in un paesino di poco meno sperso del nord. Ci ha cresciuto due figlie in quelle due stanze ed era un punto di riferimento per i ragazzini troppo giovani per andare a comprarsi il gelato o la cioccolata fino al paese più grande giù in valle e per i vecchi, che raggiungevano la bottega passin passino armati di sporta e bastone e, intanto, facevano anche due chiacchiere.
Quando ha chiuso ho avuto l'impressione che il paese fosse diventato più anonimo e inospitale: periferia estrema della città e dei suoi supermercati. E mi è spiaciuto quasi come quando hanno trasferito il prete, lasciando chiesa e canonica in balia di celebranti last-minute.
Ora che son costretta a bazzicare per il centro, infilando borghetti a caso un po' per sbaglio e un po' per curiosità, mi diverto un mondo a scovare bar e negozietti old stile nei quali si respira un'aria decisamente diversa da quella (condizionata... e condizionante?) dei centri commerciali, che comunque frequento e non contesto a priori.
A parte la storica cappelleria a due passi dal Regio, con gli scaffali di legno, odore di lana e cera e i vecchi manifesti di Borsalino, dove di tanto in tanto acquisto una coppola per papà, quando ne perde una o la rovina con un lavaggio incauto, e la caotica merceria con il bancone stinto dall'uso e torri di scatole di bottoni tra cui emergono piume di struzzo anni '30 e scampoli di finte pellicce anni '90, di recente sono incappata in un barino dall'arredamento sobrio e stagionato, e proprietari altrettanto stagionati. Ho chiesto l'inevitabile caffè e la signora, sorriso d'ordinanza, se n'è uscita con un "ma certo, tesoro, ti faccio un supercaffè! E peccato che ho la mia Faema del '61 in riparazione, se no era ancora più buono" e poi ha proseguito: "m'hanno offerto tante volte di cambiarla, ma io ho detto no: macchine così non ne fanno più al giorno d'oggi" e ha concluso orgogliosa, mano sul cuore: "La Jole morirà con la sua macchina per il caffè!". Nel frattempo era entrato il "ragazzo di bottega", forse il marito, grigio e dignitoso nel suo panciotto ricamato. E a me s'è spalancato un mondo.
A parte il fatto che Jole è il nome della memorabile barista - ex prostituta ed ex partigiana - che compare in alcuni spettacoli di Paolini e che il caffè era buono, mi son trovata ad anni luce dall'asettica nave spaziale della Nespresso, distante pochi metri, dove il caffè te lo fanno assaggiare solo se acquisti una delle loro supertecnologiche macchinette. E mi sono chiesta se, oltre al fatto non secondario che tutti abbiam poco da spendere, la crisi del commercio non sia, almeno in parte dovuta anche all'omologazione che vuole i centri storici colmi di negozi tutti uguali con commesse tutte uguali (giovani e mediamente scoglionate e impreparate, per via del lavoro precario), che vendono cose molto simili di qualità mediocre (a meno di non spendere capitali) tra cui ci illudiamo soltanto di poter scegliere.
Non credo che la Jole e il suo collega (o marito) si siano fatti i miliardi nella loro vita dietro il bancone di legno; o forse sì, ma è chiaro che, dopotutto, non è quello lo scopo per cui hanno fatto per anni e continuano a fare il loro mestiere: c'è l'orgoglio del proprio lavoro e la consapevolezza che, facendolo bene, si fa anche un servizio agli altri, non soltanto al proprio portafogli: si creano legami, punti di riferimento, si anima un paese o un angolo di città, che diventano un poco più umani.
Vi pare poco?
E comunque, lo sapete, prima o poi le ciose apriranno la loro libreria-pasticceria-centro culturale: temo fallirebbe in pochi mesi, ma sarebbe un posticino decisamente accogliente...
PS: la foto l'ho rubata al sito della libreria antiquaria "Credula postero", il cui nome da solo ha tutta la mia ammirazione.
Saluti imprenditoriali!
2 commenti:
Credula postero lo conosco da tempo ma il bar che descrivi me lo devi indicare meglio, mi manca. Come amante di posti così ti consiglio un negozietto di vestiti usati proprio dietro l'edificio dei portici del grano dove la titolare sogna di trovare vestiti di Marilyn originali e dove trovo vecchi abitini tubino che stanno che è una meraviglia. Rosanna
A te stanno una meraviglia! Io ho un girofianchi un po' più impegnativo! ;-) Grazie comunque della segnalazione. Il bar te lo dirò quando ci incontreremo...
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