mercoledì 24 giugno 2015

Scatoloni

22. Sempre stata una frana con i numeri: li dimentico, li inverto, non so maneggiarli se non scrivendoli o aiutandomi con le dita come e peggio dei bambini. Però con il 22 ho un paio di conti in sospeso.
22 sono gli anni che avevo nel 2000 e, per una curiosa coincidenza - se così vogliamo chiamarla - 22 erano gli anni che, da piccola, avevo appioppato, chissà perché, al mio migliore amico immaginario, il quale a quell'età, secondo la mia fervida fantasia, era già laureato, lavorava in un museo e, occasionalmente, insegnava pure: beata innocenza!
22, infine, sono le estati passate in campagna nella casa gialla di cui anche qui più volte vi ho parlato.
E 22 resteranno, visto che ora sul cancello compare la scritta "vendesi", bianca su sfondo rosso, come neve sulla carne viva dei miei più cari ricordi.
Molte persone sono già venute a vederla: vicini di casa in processione con tutta la famiglia, parmigiani in fuga dalla città per la gioia del loro cane, persino un'aspirante artista in cerca di uno studio suggestivo, il quale, ovviamente, ha puntato subito il balconcino di sassi d'angolo, con la sua scala sbilenca e l'edera, che fa tanto Romeo & Giulietta.
Grazie al cielo, finora, non ne ho incontrato quasi nessuno. Quel che vi ho appena descritto, infatti, proviene dai resoconti di mia madre che, al contrario di me, è brava a raccontare a voce qualunque cosa - da un film alla tormentata telefonata con qualche amica in cerca di consigli - con una precisione e una vividezza davvero notevoli.
Grazie al cielo, dicevo, perché davvero non avrei saputo come comportarmi.
Buonsenso vorrebbe che io accompagnassi in giro per le stanze i potenziali acquirenti a mo' di guida turistica, magnificandone con un sorriso a 30 denti (+ un ponte!) le caratteristiche, utilizzando il pacchetto standard di aggettivi che ci si aspetta in queste occasioni: ampio, abitabile, accogliente, funzionale. E forse ci riuscirei anche (ci sono quasi riuscita una volta); ma quel che vorrei davvero dire a chi abiterà la mia casa dopo di me - perché è giusto che le case siano abitate - sarebbe qualcosa del tipo: guardatevi intorno e pensate quel che volete di queste quattro mura, ma sappiate che qui dentro ci sono 22 estati della mia vita più qualche rara ma memorabile giornata d'inverno; che avevo 14 anni la prima volta che ho messo piede in questo cortile, e ricordo ancora la canzone che suonava nel mio walkman, perché diceva "E i giardini con le rose come sognavamo noi": la presi come una profezia, alla quale mi sono aggrappata per 22 anni. Poi basta.
Vorrei dire che tra questi tavoli e queste poltrone sono passata dai compiti per le vacanze agli esami d'università; che, per quanto vi parrà incredibile, sono persino riuscita a incastrare un computer con lo schermo enorme e una stampante in quel loculo colorato che ho chiamato per 22 anni la mia camera, e ci ho scritto alcuni capitoli della mia tesi; che oltre le creste magnificamente incastrate di questa valle ho visto, letteralmente, sorgere l'alba del nuovo millennio in compagnia di un manipolo di amici che ora si sono dispersi, ma non per questo mi sono meno cari. Ed ero qui anche l'anno dopo, mentre crollavano le Torri Gemelle. E, anche se immagino non vi importi, è in questo cortile che ho parcheggiato per la prima volta la mia prima automobile. Pioveva, ovviamente, ma non ha importanza: non avete idea di quanto si delizioso il rumore della pioggia sui coppi; e quanto sia bella la luna che ti entra in camera dall'alto nelle notti serene.
Ci ho festeggiato anche un paio di compleanni quassù, in primvera, con i residui di una nevicata tardiva aggrappati ai versanti in ombra; e, in autunno, ho imparato a mie spese (e a quelle dei miei sventurati ospiti) che le caldarroste stentano a cuocere sul barbecue.
Nella terrazza oltre il portico ho passato innumerevoli 10 d'agosto a farmi venire il torcicollo contando stelle cadenti, storpiando i versi del Pascoli ed esprimendo desideri irrealizzabili.
E ho cantato tanto, sia assieme alle amiche dotate di chitarra (benedette loro!) sia in solitaria, con o senza lo stereo di sottofondo, facendo le pulizie, asciugandomi i capelli al sole - la sedia precariamente piantata nel ghiaino e una vecchia copia di Topolino aperta sulle ginocchia. Il fatto che tra i vicini di casa io per anni abbia avuto un cantante d'opera e due insegnanti di conservatorio non bastava a scoraggiarmi. Ora non canto quasi più nemmeno sotto la doccia.
Ci ho preso il sole e la grandine. Ho acceso il camino e la stufa anche in pieno agosto - termosifoni nemmeno a parlarne nella casetta delle vacanze - imparando a riconoscere addosso a me e agli altri l'esatto odore che lascia un buon fuoco di legna sugli abiti (biancheria compresa) e sui capelli.
E' grazie a questa casa che so esattamente che sapore hanno i pomodori mangiati appena colti, ancora tiepidi di sole e che ho imparato a impastellare e friggere larghe foglie di salvia e fiori di zucchina.
Ok, è grazie (o a causa) a questa casa che ho scoperto che le mamme scorpione trasportano sul dorso i loro figlioletti appena nati: una visione tenera e raccapricciante insieme, difficile da dimenticare; e ho scoperto quando possono diventare grossi e corpulenti i ragnacci di cantina; ma mi è anche capitato di ritrovarmi un pavone in cortile, che ci guardava assiso su un mucchio di ghiaia con aria supponente. Un'altra volta è toccato a un coniglio color nocciola comparire all'improvviso, sgranocchiare con discrezione un paio di foglie di lattuga e poi andarsene senza ringraziare, per non dire delle innumerevoli generazioni di gatti più o meno domestici, semistanziali o di passaggio, tra cui l'indimenticabile Milk: un incrocio di siamese biondo dagli occhi blu, bello come un divo del cinema e altrettanto espressivo e capriccioso.
Da qui sono partita le poche volte che gli amici sono riusciti a trascinarmi in discoteca; da qui sono partita per un paio di epici concerti, da uno dei quali sono tornata alle sei di mattina...
In questa casa ho avuto il permesso di dipingere su muri, cuscini e copricamini e ho passato ore a disegnare, a leggere e ad annoiarmi; ma anche a cimentarmi in ogni sorta di lavoro faticoso e sporchevole. E ancora non ho finito: ora è tempo di guardarsi attorno, svuotare cassetti e riempire scatoloni. Decidere cosa salvare e cosa abbandonare ad un incerto destino.
E contando che quasi tutto quello che c'è in questa casa è arrivato qui da altre case e da altri traslochi (le precedenti abitazioni che affittavamo in campagna, gli appartamenti dei nonni e delle prozie svuotati dopo la loro dipartita), quasi ogni pezzo - già scampato ad altre dolorose selezioni - è già di per sè un distillato di storie e di ricordi: i quadri di mamma e dello zio, la credenza e il tavolo della nonna, le ciotoline acquistate dai miei da giovani, i miei quaderni delle elementari e persino la ricevuta del pagamento della quota d'iscrizione alla prima settimana teologica di Camaldoli del 2003, spuntata a sorpresa da un album da disegno.
Questo e molto altro ci sarebbe da raccontare a chi si prenderà la mia casa. Perché ogni casa è un mondo, e nessun mondo può essere descritto da un rogito e da una manciata di planimetrie, nè tantomeno essere rinchiuso in una decina di scatoloni sigillati con un groppo in gola.
Per fortuna ho ancora sufficiente buonsenso per non dire tutte queste cose ai potenziali acquirenti; ma, evidentemente, non non ne ho abbastanza per evitare di scriverne qui.
Forse perché le parole, dopotutto, sono molto più capienti degli scatoloni.