sabato 24 maggio 2014

Motori & sentimento


Nei miti altrui è bene entrare in punta di piedi. Lo so da quando una compagna di classe delle medie se ne uscì a dire che Vasco Rossi era bello. La guardai allibita, perché già mi era difficile digerire che fosse bravo, ma bello proprio no! Da allora, però, ho cominciato a capire un po' di cose e a diventare più tollerante. Anche perché a me piace la gente capace di coltivare passioni, pure quelle che fatico a comprendere. E ancor di più mi piace quando qualcuno ha voglia di condividerle con me: la ritengo una dimostrazione d'amicizia e di fiducia bella come poche altre. E, poiché sono anche curiosa, può capitare che qualche passione altrui mi si appiccichi addosso e mi piace parecchio, perché oltre alla gioia di scoprire qualcosa di nuovo, c'è anche il piacere di condividerlo con qualcuno a cui voglio bene.
Poi, è chiaro, se mi venite a dire che collezionate tarantole non aspettatevi grandi slanci d'entusiasmo…
Tutto questo pippone era solo per raccontarvi, con vergognoso ritardo, quel che mi è capitato lo scorso primo maggio, quando Dani ha proposto all'urbi et orbi un "pellegrinaggio" a Imola in occasione dei vent'anni dalla morte di Ayrton Senna e io ho risposto all'appello, anche se in vita mia ho guardato mezzo gran premio solamente perché costretta, e non ho la più pallida idea di cosa sia una chicane...
Una volta accomodate sul treno Dani, con perfetta coerenza, estrae dalla borsa "Suite 200. L'ultima notte di Ayrton Senna" di Giorgio Terruzzi, che pare sia ben scritto e ha pure una bella copertina, e si attira gli sguardi di altri due passeggeri parecchio nerd diretti alla nostra stessa meta. Io viaggio con le "Lezioni americane" di Calvino, ma una sbirciatina al libro di Dani non me la lascio scappare. D'altronde la sottrazione di libri altrui durante i viaggi o le vacanze è uno sport che mi riesce bene, vero Costi?
Attraversiamo un buon tratto di pianura padana in una giornata di nuvole e sole. Arrivate a Imola raggiungiamo a piedi l'autodromo. Dani ricorda la strada: sempre dritto oltre il (grazioso) centro della città e poi lungo un viale alberato fiancheggiato da casette vagamente liberty alternate a palazzine moderne, con gruppi di vecchietti seduti a conversare sulle panchine: una bella immagine della migliore provincia italiana.
Annusiamo la vicinanza dell'autodromo dall'infittirsi della gente, spesso rossovestita e/o sfoggiante bandiere brasiliane, e dal rumore di motori. Non ho mai messo piede in un autodromo e confesso di essere un tantino intimidita, ma l'impatto è positivo: c'è il monumento alla Ferrari, ovviamente, che, ad essere sinceri, col suo cumulo d'auto, pare più l'insegna di uno sfasciacarrozze, e l'alta torre grigia e rossa che sovrasta la pista con l'immancabile cavallino sul terrazzo. Tutto attorno c'è un parco lungo il fiume, dove si mescolano imolesi che portano a passeggio cani e/o bambini e preparano il picnic sulla riva e persone che, come noi, si concedono un giro largo per visitare da fuori la curva maledetta e il monumento al pilota. In entrambi i luoghi, appesi alla recinzione ci sono fiori, bandiere, poster, pensieri in tutte le lingue. Anche Dani, giustamente, lascia il suo.
La statua di Ayrton è bella: se ne sta seduto su un plinto di bronzo, arruffato e malinconico come appare in molte fotografie, guarda la pista oltre gli alberi e sembra quietamente rassegnato all'entusiasmo dei fan che gli si raccolgono attorno. C'è persino un tizio in tuta e casco da pilota che pretende, con scarso successo, di essere un suo sosia, ma è talmente convinto che nessuno oserebbe infrangere il suo sogno…
Entriamo. La folla è varia e colorata: ci sono famiglie con bambini, giovani e anziani, italiani e stranieri.
Ci accolgono auto, ovviamente, di tutte le epoche, compresa una fragorosa Fiat del 1910 che pare un incrocio tra un missile e un trattore e un bolide blu di cui (tipicamente femminile, lo so) non ricordo marca né modello, ma soltanto lo splendido colore. Quando Dani mi informa che, volendo, era possibile prenotare un giro di pista con la propria automobile non posso fare a meno di immaginarmi a bordo della mia vecchia utilitaria verde con tanto di casco mentre mi faccio superare (e insultare) da Ferrari, Porsche, Audi e altre diavolerie a motore: sarebbe stato surrealmente divertente!
Attendiamo il momento il cui è prevista una specie di cerimonia sul luogo e all'ora dell'incidente addentando una molto romagnola piadina con salsiccia sulle gradinate della pista; da lì vediamo passare ex piloti e giornalisti, che Dani riconosce. Passa anche la banda e quella che ha tutta l'aria di essere una "processione laica" può iniziare. Le auto si fermano e percorriamo qualche centinaio di metri a piedi lungo la pista: è strano vederla così, piena di gente che procede lenta anziché di macchine.
L'erba ai lati della striscia d'asfalto è morbida, tagliata di fresco, le recinzioni e i muretti di confine hanno un che di minaccioso, quasi quanto i nuvoloni che ci incombono sulla testa mentre si tengono i discorsi ufficiali in un turbinio di flash e di tablet e smartphone levati altri sopra le teste. L'atmosfera è mesta - nessuno dimentica che si tratta di ricordare una vita ad alta velocità finita a 34 anni - ma anche gioiosa, da festa di paese.
Finita la cerimonia, torniamo ad aggirarci tra i paddock (mai entrata in un paddock prima: era già tanto che sapessi come si chiamava!) e il museo, visitando tutto il visitabile: auto e cimeli del campione e soprattutto tante, tantissime fotografie. E tanto le auto sono tirate a lucido, tanto Ayrton nelle foto ha un che di stropicciato e vagamente dolente persino quando sorride sul podio. Al di là del talento e della brutta fine che lo hanno reso un eroe, basterebbero quelle immagini, così disarmanti, a spiegare perché, dopo vent'anni, sia rimasto nel cuore di tante persone. Mettiamo anche noi la firma su uno dei pannelli della mostra, accanto a parecchie centinaia d'altre, prima di andarcene.
Rifacciamo all'inverso la lunga passeggiata per la stazione, fermandoci però a fare un giro attorno al duomo e alla rocca, trovando tempo anche per un sacrosanto gelato.
No, Dani, no, davvero, non mi sono affatto annoiata come tu premurosamente temevi, anzi: ho visto cose nuove e interessanti, ho imparato qualcosa e ho trascorso decisamente una bella giornata. E questo mi pare sia già più che sufficiente. Ah, no, dimenticato: mi hai permesso di condividere con te un ricordo importante, uno dei tuoi miti e questo, se possibile, è ancor meglio di tutto il resto. Grazie.
Saluti rombanti!

venerdì 2 maggio 2014

La belle e-coque!

G. Kienerk: Il dolore, il silenzio, il piacere.
E così, dopo Campigli e Klimt, la nostra immersione nel ribollire dei movimenti artistici tra Ottocento e Novecento si è conclusa alla mostra del Liberty a Forlì.
Immersione nel vero senso della parola, vista l'acqua che veniva mentre si passeggiava per il centro semideserto della cittadina emiliana, inzuppandoci d'umidità almeno quanto ci siamo inzuppate di cultura. Ma va bene così: pioggia, gita e ciose è un trittico consueto e accettabile, visto che, se c'impegniamo, possiamo far venire anche la grandine!
Temevamo la coda e invece, benché le sale più piccole fossero piuttosto gremite, siamo riuscite ad entrare subito e a girare per bene la mostra, che si apriva, con mia grande gioia, con un quadro di Edward Burne-Jones e due citazioni poetiche: D'Annunzio - inevitabile, vista l'epoca dei quadri e la loro sottile sensualità, insieme elegante e inquietante - e il "mio" Guido Gozzano, con il suo ritratto della "preraffaellita", serio, sì, ma fino a un certo punto. E di Guido e Gabriele (sic) erano in mostra anche alcune prime edizioni dei libri, con illustrazioni fatte dai migliori artisti italiani che abbracciarono il nuovo stile. Stile che, complice l'espandersi di una società industriale, non è rimasto confinato negli atelier, ma ha riguardato la letteratura, l'architettura, l'arredamento (mobili e suppellettili, ceramiche, pizzi e vetrate), la moda e la pubblicità. Che meraviglia le locandine delle opere di Verdi e Puccini, i manifesti di località turistiche, lampade a gas e prodotti di bellezza: "novissime cose" di un tempo che faceva di tutto per essere moderno.
E, ancora una volta, donne: tante, maggiormente consapevoli del loro ruolo nella società e, forse proprio per questo, viste dai pittori con un misto di timore e reverenza: non più - o non solo - angeli o demoni, ma... entrambe le cose. Ocio!
E tanta mitologia, giusto per gradire, classica e persino nordica, in omaggio alle radici decisamente europee di questa tendenza dell'arte.
E natura, che da sfondo quasi realistico della figura umana tende a diventare protagonista dell'opera col suo rigoglio decorativo contorto e trabordante, elegante come pizzo, soffocante come edera.
Curiosamente ci siamo ritrovate, noi tre donne ad ammirare due trittici composti da tre donne con significati simbolici: quello di Kienerk e quello del "nostro" Amedeo Bocchi. Sulla figura centrale del primo, che è stato scelto per le locandine della mostra, abbiamo cominciato a sproloquiare fin da quando ci ha accolto all'uscita dalla stazione in un vistoso manifesto: "Mmmmh, perché tiene le mani davanti alla bocca? Non è molto rassicurante..." "Già, forse sta trattenendo un insulto a noi visitatori". "No, secondo me ha mal di denti". "No, secondo me è costipata...". E avanti di questo passo, finché non abbiamo scoperto che la fanciulla in blu notte era "Il silenzio", mentre le sue vicine di cornice erano "Il dolore" e "Il piacere". Nelle tre tele di Bocchi, invece, le tre donne sono "La colta", "La saggia" e "La folle" e ci è sorta spontanea la domanda: "Ma io... con quale mi identifico?" Dopo essere state tentate dirispondere all'unanimità "Con la terza!", abbiamo convenuto che c'è un po' di tutte loro in ognuna di noi. O viceversa?"
A. Bocchi: La colta, la saggia, la folle.
Dopo tre ore di lenta e dolce cottura, e rimpiangendo un poco di non avere il tempo e la pecunia necessarie per partecipare al laboratorio di ricamo, siamo riemerse affamate e ci siamo rifugiate (a un'ora inconfessabile) in un bar-trattoria dove, pur fuori tempo massimo, ci hanno sfamate a suon di crostini, pasta ben condita e fumante, dolce e caffè.
Nell'attesa, con ancora negli occhi un turbinio di forme sinuose, spirali, fiori e piume, e davanti al naso un'innocente tovaglietta di carta giallastra, mi sono messa a disegnarci sopra con la biro, imitando con scarso successo le chiome infinite e corpose delle fanciulle (che invidia!), e le ricche decorazioni dei fondali, fingendo di avere 6 anni anziché 36.
Dopo aver deciso a malincuore di abbandonare il rifugio caldino del bar, siamo tornate in centro, dove siamo riuscite a visitare l'abbazia di San Mercuriale, in un angolo della grande piazza, e il Duomo, leggermente defilato, alle spalle del Municipio. Entrambe le chiese passate - come tante altre - per innumerevoli vicissitudini e ricostruzioni; ma se, per la prima, ci sono andati con mano più leggera e l'impianto antico resta leggibile nel pavimento in cocciopesto, che digrada verso l'altare, e nella penombra spoglia delle arcate; con la seconda, invece, ci sono andati più pesanti e il guazzabuglio di forme e stili si armonizza solo per (ehm)... Grazia di Dio?!
Abbiamo rinunciato alla visita alla Rocca per raggiunti limiti di stanchezza e di umidità e per non rischiare di perdere il treno del ritorno. Il problema è che, arrivate in stazione, abbiamo scoperto che il treno si era perso non si sa bene dove e perché. E i minuti di ritardo si sono andati accumulando, annunciati un po' per volta con sadica profusione di scuse, e sono arrivati a 50! Ci siamo consolate con un tè bollente. Quando il convoglio, figlio di buona locomotiva, si è deciso a comparire era, ovviamente, gremito. Siamo riuscite a sederci soltanto a Bologna e, toccato finalmente il suolo parmigiano, ci ha accolto un clima assai poco primaverile, e siamo rincasate invidiando le nostre colleghe dipinte che se ne stanno al calduccio di sfondi dorati ed eterne primavere...
Saluti floreali!