martedì 26 febbraio 2013

Corruttibili e corrotti, vanitosi e presuntuosi, scelgono il tornaconto anziché il dovere...

Il testo che segue me l'ha girato stamattina per e-mail la nostra Dani.
Mi pare faccia il paio con quello che ho inserito io ieri, quindi lo pubblico senza troppi commenti.
Li lascio a voi, se vorrete.

“Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto. Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano. Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuol rappresentare".

E' del 1945, scritto da Elsa Morante a proposito di Mussolini. Nel caso non l'aveste capito...

lunedì 25 febbraio 2013

Il ritmo della mia piccola voce

Pensavo che una lunga, triplice e preoccupante influenza che ha abbattuto l'intera famiglia potesse bastare a funestare questo finale d'inverno; ma poi è venuta la neve; ma poi ci si è rotta la caldaia; ma poi...
Che dire? Ormai lo sapete che, quando mi mancano le parole, uso quelle degli altri. Il solito Guido, nello specifico.

Ecco - pensavo - questa è l’Amarena,

ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena

di lotte e di commerci turbinosi,

 la cosa tutta piena di quei "cosi

con due gambe" che fanno tanta pena...


L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere

vane, divisi e suddivisi a schiere

opposte, intesi all’odio e alle percosse:

così come ci son formiche rosse,

così come ci son formiche nere...


Schierati al sole o all’ombra della Croce,

 tutti travolge il turbine dell’oro;

o Musa - oimè! - che può giovare loro

 il ritmo della mia piccola voce?

 Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro...


 L’alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,

dal cuore in mano e dalla fronte alta!

Oggi l’alloro è premio di colui

 che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta

per far di sé favoleggiar altrui...

Per la cronaca, la poesia è del 1909 e il ciarlatano che sale alla ribalta tra squilli di tromba è, molto probabilmente, D'Annunzio.
No, perché, a voi chi è venuto in mente?
Saluti allusivi, basiti e inutili.

lunedì 18 febbraio 2013

Il menestrello, l'uovo e la gallina


"C'è un posto uovo e uno gallina,
chissà dov'è.
Se non sai chi sia nato prima
dentro di te.
C'è un posto in pace e un posto in guerra,
chissà dov'è.
In piedi o tutti giù per terra,
dentro di te.
E un posto dove ci son io,
che cerco un posto tutto mio
lì di fianco a te!"


Era abbastanza ovvio che il ricciuto menestrello, francescano cantore di pulci d'acqua, cervi, lupi, uccelli e altre bestiole si ricordasse anche delle galline.
Le parole, in realtà, sono di Faletti, che come scrittore, diciamo così, sospendo il giudizio, ma come autore di canzoni va già meglio....
Saluti sempre più pennuti!

martedì 12 febbraio 2013

Scherzi da prete...

Mi dimetterei volentieri anch'io dalle mie troppe inutili paure e dalle mie altrettanto inutili, ma tenaci, fantasie.
Mi dimetterei volentieri anch'io da quel misto di timidezza e arroganza con cui mi tocca fare i conti ogni giorno nel rapporto con gli altri.
Mi dimetterei volentieri anch'io dalle nozze d'argento con la solitudine.
Mi dimetterei volentieri anch'io dai dubbi, dalle incertezze, dalle vane speranze.
Mi dimetterei volentieri anch'io dai doveri non voluti e dalle scelte che non si possono rimandare all'infinito.
Mi dimetterei volentieri anch'io da una fede che mi offre, al momento, più domande che risposte.
Ma non credo di esserne capace.
E allora tiro avanti, convinta che anche questa bufera passerà e troverà un senso, anche se la cosa, adesso, non mi consola.
Ma è così.
E così sia.

martedì 5 febbraio 2013

Fare un fuoco

"Confine e fuoco / questa è la direzione dello sguardo"
(Roberto Mussapi)

Fatemela prendere alla lontana, che me la voglio godere un po'.
Ai tempi quasi felici nei quali noi si faceva la rivista di cucina, mi capitò di accompagnare in auto una bambina che, assieme ad alcune amiche, avrebbe preparato i biscotti per un servizio fotografico. Ad un certo punto raccontò con emozione di aver imparato da poco ad accendere il fuoco. Il fuoco "serio", quello con la legna, non, ovviamente, il fornello a gas.
Ci siamo capite al volo, perché anch'io avevo bene in mente quella particolare emozione che, credo, ci venga da molto, molto lontano.
E anch'io di fuochi ne ricordo tanti, dai più classici, come quelli dei bivacchi scout da bambina, ai più recenti anche se, devo ammettere, ho perso un po' la mano.
A capodanno 1999-2000 tenni a bada, oltre ad un manipolo d'amici, anche un caminetto e una vecchia, deliziosa, stufa Becchi. A quest'ultima avevo imparato a chiudere lo sportellino leggermente sbilenco con un solo colpo di tacco ben assestato. Tacco da tre centimetri, s'intende.
Qualche anno prima, nella casa di campagna di un'amica, nel mezzo di una cospicua nevicata, mentre lei si divideva tra gli altri ospiti e l'attesa di un improbabile principe azzurro scoraggiato dalla tormenta, mi ritrovai a gestire una cucina economica e una stufa in ghisa, perché nessun altro aveva tempo e voglia di occuparsi del fuoco.
E vado molto fiera della foto che Dani mi ha fatto l'autunno scorso, quella in cui brandisco con aria tra il divertito e il minaccioso un attizzatoio accanto al barbecue: sono stata tentata di metterla nel mio profilo di Linkedin, ma ho pensato che non era molto rassicurante per i potenziali clienti della società per cui lavoro...
Accendere, anzi, fare un fuoco (perché "Un fuoco, all'inizio, va curato, nutrito e vestito..." accenderlo non basta), infatti, è uno dei gesti simbolici più antichi e universali che esistono.
E' discrimine tra civiltà e barbarie, dono divino e dannazione: Vesta, Prometeo, Efesto... E anche se oggi la definizione della donna come "angelo del focolare" ci fa sorridere o arrabbiare, a seconda dei contesti, c'è dietro il ricordo del tempo in cui nei documenti, per indicare il numero di famiglie presenti in un determinato territorio, si contavano semplicemente i "fuochi": luce, calore, cibo e, chiaramente, storie...
Tre anni fa ci provammo ad ascoltare una storia che s'intitolava, appunto, "Fare un fuoco", scritta da Jack London, ritradotta di recente e ripubblicata da Mattioli, animata da Simone Massi e raccontata dal solito Paolini.
Forse ricorderete che l'avventura non era finita benissimo e che a me soprattutto la cosa era rimasta parecchio sullo stomaco. E' vero che, nel frattempo, il racconto me lo sono letto e Paolini dal vivo ce lo siamo goduto in Itis Galileo e nel Milione, ma giovedì scorso, finalmente, abbiamo regolato i conti con quella storia. E ne sono felice.
Niente grandine stavolta, e niente montagne, ma nebbia fitta e incroci infidi fino a Reggio Emilia. A guidarci F., che tre anni fa ci smarrì per bellissimi boschi trentini, mentre tentavamo invano di riuscire a vedere almeno la replica. Direi che s'è fatto perdonare e lo ringrazio.
Il Valli è bellissimo e gremito. Per un paio d'ore, al calduccio del loggione, ci beviamo racconti di "Uomini e cani" persi nel grande nord.
Cani, soprattutto: Macchia, furbo fino all'esasperazione (dei padroni), Bastardo (un nome, un destino...), l'husky che assiste alla semplice e spietata fine del suo padrone, custode del fuoco. E uomini che tentano con le unghie e i denti, come cani, d'afferrare un'altra vita, fuori dalle regole: il vagabondo clandestino sul treno (toh, strano, Paolini che parla di treni...) e l'immigrato nascosto sotto un camion che trova la morte a Venezia.
Belle anche le canzoni, originali o tradizionali, interpretate dalla voce intrigante di Lorenzo Monguzzi; ma la parola stessa, a tratti, diventa ritmo incalzante e musica tra le mani di questo attore quasi cinquantasettenne che si sceglie ogni volta le storie giuste da raccontare e il modo migliore di raccontarle.